Il Sole 18.3.16
Il caso Lula e un Paese allo sbando
di Roberto Da Rin
Una
giornata campale. Gli annunci incrociati del governo brasiliano e
dell’opposizione, gli attacchi dei giudici, il colpo di scena, il
ritorno di Lula e un obiettivo finale, la resa della presidenta Dilma
Rousseff. Per ora non raggiunto.
Dopo la firma di Lula al governo,
in qualità di ministro, un giudice brasiliano ha sospeso la nomina,
«che potrebbe ostacolare il corso della giustizia» nell’inchiesta su
Petrobras.
In Brasile è in atto uno scontro frontale tra governo e magistratura, conseguente a una crisi politica, economica e morale.
Quella
regìa cosmica, tanto cara ai brasiliani, che governa le leggi
dell’universo, aveva già previsto tutto. Le sequenze politiche delle
ultime 48 ore si ritrovano nei passi di samba più conosciuti: cruzado
pausado, assalto, gancho redondo, tirar a dama.I passi sono stati
proprio questi: annunci «incrociati con pausa»(di governo e
opposizione), «assalto» (dei giudici), «mezzo sgambetto»
(dell’opposizione) e «resa della dama» (il tentativo di far cadere Dilma
per impeachment).
Samba ma anche aspra battaglia politica. La
presidenta Rousseff, certo. Ma è soprattutto Lula il personaggio forte
di questa drammatica telenovela brasiliana. La sua parabola si è
compiuta con una plasticità senza precedenti: da presidente più popolare
del mondo, con un consenso dell’85%, a indagato. Da regista di una
stagione economica gloriosa a responsabile della pesante débacle.
I
meriti - riconosciuti in modo bipartisan dall’Economist, dai giornali
di sinistra, da Obama e Putin, dall’Fmi, dai governi populisti e
popolari del mondo intero – sono incontrovertibili. Un doppio mandato,
dal 1° gennaio 2003 al 1° gennaio 2011, in cui la quadratura del cerchio
pareva acquisita: da una parte crescita vigorosa, inflazione sotto
controllo, variabili macrofinanziarie in ordine. Dall’altra occupazione
in forte crescita, povertà in caduta verticale, con un record
strabiliante. Trenta milioni di poveri usciti dalla miseria ed entrati
trionfalmente nella classe “C”, quella classe media brasiliana che i
sociologi hanno sempre ritenuto troppo esigua.
Apprezzato dagli
industriali, osannato dagli economisti, rispettato dai finanzieri, Lula,
ex operaio metalmeccanico aveva superato “il dilemma crescita o
distribuzione”, riuscendo a distribuire la ricchezza continuando a
favorire la crescita. Un’operazione che non era riuscita a nessun altro,
dal Dopoguerra in poi.
Le sue parole, negli anni d’oro, sono
state queste: «La gente riconosce che non vi è nulla di magico
nell’economia, non vi sono annunci sorprendenti che salveranno l’umanità
in breve tempo». E così il governo del metalmeccanico con nove dita, il
decimo è rimasto sotto una piastra, recitava un mantra di sviluppo e
stabilità: crescita economica basata su equilibrio fiscale, prezzi
stabili, riduzione della vulnerabilità esterna da una parte e una forte
politica sociale dall’altra.
Tutto vero, quasi tutto vero. Perché
“Os ventos alisios”, i venti Alisei hanno aiutato eccome la congiuntura
brasiliana. I prezzi delle commodities agricole e del petrolio sono
stati alti per un lungo settennio, favorendo, eccome le gesta di Lula.
La crisi internazionale del 2008, pur con qualche ritardo temporale non
ha risparmiato il Brasile.
Le prospettive? Poco rosee, almeno nel
breve periodo. Il 2016 si conferma un annus horribilis per il gigante
latinoamericano con una contrazione del Pil vicina al 3,5% rispetto al
2015. Un’implacabile nemesi storica mostra un Brasile sfibrato dalla
recessione, con un’inflazione alta e una grave instabilità politica.
Tuttavia
una luce in fondo al tunnel c’è, il Brasile è un grande Paese
agroindustriale. Un finanziere svizzero, poche settimane fa, a Ginevra,
indicava questa strada ai policy makers di mezzo mondo: «Come superare
la crisi? Vendi banche e compra formaggio».