Il Sole 15.3.16
Scontri personali e vecchie bandiere non riportano elettori alle urne
di Paolo Pmbeni
Si
 fa presto ad accusare tutti di «trasformismo». Come alla nascita del 
termine, all’incirca nel 1880, la giustificazione che viene ancora 
esibita è quella che in un mondo in trasformazione è un poco curioso che
 si pretenda che a stare ferme siano solo le appartenenze ideologiche. 
Ai tempi della prima formulazione quella svolta venne giustificata sulla
 base del famoso principio della fisica che si faceva risalire a 
Lavoisiere: «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma».
Ad
 approfittare del principio, cosa non nuova, arrivarono poi i molti che 
se ne servirono semplicemente per giustificare l’opportunismo di un 
cambio di gabbana, ma non è una buona ragione per dimenticare che il 
principio qualche fondamento lo conserva anche nell’universo della 
politica.
La questione potrebbe tornare prepotentemente 
d’attualità solo che si riuscisse a sottrarre l’attuale fase politica 
alle diatribe personalistiche ed ai richiami nostalgici alle vecchie 
bandiere agitate nella speranza di far rivivere mondi che hanno esaurito
 la loro spinta originaria.
Più che dal punto di vista interno 
alle lotte di partito la questione andrebbe affrontata da quello della 
crescita impressionante del distacco di quote consistenti di cittadini 
dai tradizionali recinti politici. Non è solo questione di astensionismo
 (fenomeno già in sé tutt’altro che marginale), ma anche di 
rimescolamento delle scelte elettorali come rivelano le analisi sui 
flussi.
In un’epoca di questo tipo ci si chiede se abbia molto 
senso la lotta disperata che a sinistra come a destra si sta conducendo 
in nome di quella che viene eufemisticamente definita “la nostra gente”,
 ma che si sospetta non sia più delle tribù politiche che hanno 
identificato la sopravvivenza dei loro spazi (di potere?) con il 
permanere di spazi per le vecchie ideologie. Non sarà sfuggito che 
sempre più si parla di «rispetto per le minoranze», quasi che la 
faccenda riguardasse non delle dialettiche politiche, ma la 
preservazione in apposite riserve di specie in via d’estinzione o per 
minoranze etniche.
Il tema è quasi egualmente declinato in tutte 
le tradizionali componenti di quello che fu l’arco politico della 
seconda repubblica, che era in fondo solo una ricomposizione in 
aggregazioni nuove di quelle della prima. Certamente la questione assume
 ora maggiore spessore in quelle formazioni sufficientemente ampie da 
contenere tanto coloro che vogliono scommettere su una rinascita 
nell’ottica di una «trasformazione» in sintonia coi tempi nuovi quanto 
quelli che si aggrappano alle precedenti identità.
Lo si è visto 
molto chiaramente nelle diatribe degli ultimi giorni. Sul centrodestra 
lo scontro fra Berlusconi e Salvini ha per oggetto se l’identità di 
quella compagine possa continuare ad essere quella di ormai sedicenti 
moderati in lotta contro un oscuro prevalere del ritorno del «comunismo»
 (magari strumentalmente allargato al M5S), oppure debba essere quella 
del nuovo populismo che al posto dei comunisti ha identificato come 
nuovi avversari mitici le invasioni dei migranti che scompaginerebbero i
 nostri equilibri nazionali. Sul centro-sinistra lo scontro è fra la 
nuova egemonia di Renzi che ritorna a proporre una coalizione 
«progressista» come tale disponibile ad estendersi a chiunque sia 
disponibile per quel (vago) progetto e la resistenza di una molteplicità
 di esponenti vecchi e nuovi della tradizionale idea che la «sinistra» 
sia un luogo mitico di raccolta di coloro che sono i soli in grado di 
sapere in quale giusta direzione evolverà la storia (ovviamente: credono
 di esserlo).
Esprimere grandi perplessità sulla fondatezza e 
sullo spessore di queste forme che più che di ideologia sanno in tutti i
 campi di ciò che si usa chiamare storytelling è sin troppo facile. Il 
problema più incombente dovrebbe essere quello della incapacità di tutti
 i partiti di esprimere forze in grado di produrre progettualità vere. 
Chi è al governo ha il vantaggio che la posizione consente di mettere in
 atto delle decisioni politiche, più o meno forti che possano essere. 
Gli altri non hanno neppure quelle opportunità per cui sono giocoforza 
spinti a puntare sul catastrofismo populista, cosa non difficile in 
tempi di profonde trasformazioni nel tessuto della nostra vita sociale 
ed economica.
In un contesto del genere le forze che stanno al 
governo sono di conseguenza favorite perché in fondo la maggior parte 
del paese chiede comunque di poter contare su un sistema che governa e 
che agisce. Tuttavia sarebbe opportuno che queste forze non 
sottovalutassero la risorsa che hanno a disposizione i loro avversari, 
cioè la possibilità di sfruttare la delusione che suscitano le politiche
 di governo se non riescono a centrare immediatamente e in maniera 
palese gli obiettivi. Poiché in tempi difficili raggiungere risultati in
 quel modo è tutt’altro che semplice, gli spazi per la conquista di 
consenso da parte dello storytelling catastrofista continuano ad essere 
molto ampi.
Il grande rischio è che tutto questo finisca per 
innescare una spirale perversa. Le forze di governo saranno spinte sul 
terreno di un loro populismo per non perdere forza attrattiva e 
consensi, accettando così molte spregiudicatezze e ricorso a tattiche 
politiche disinvolte pur di evitare di essere messe in discussione. Le 
forze di opposizione accentueranno sempre più le predicazioni a tinte 
fosche e le fughe nelle utopie delle soluzioni alla crisi facili e a 
buon mercato. Che lo facciano ricorrendo alle mitologie della vecchia 
destra o a quelle della vecchia sinistra, o magari a nuove mitologie, in
 fondo non fa grande differenza, almeno a livello di risultati ultimi.
Difficile
 credere che in questo modo si recuperi quella partecipazione vera della
 società alla gestione dell’emergenza politica, partecipazione che è 
tanto necessaria per una gestione equilibrata dei travagli di un 
passaggio epocale.