venerdì 11 marzo 2016



Il Fatto 11.3.16
Adesso “professoroni” e “rosiconi” fanno paura
Governo preoccupato per la battaglia d’autunno, Boschi: “Sono un fronte autorevole che non possiamo sottovalutare, ecco perché il nostro impegno è ancora più importante”. Pronte le truppe “pro-sì” benedette dal Pd
Le riforme Boschi-Renzi riducono la democrazia
Da oggi sul nostro sito è possibile aderire all’iniziativa per il No al referendum costituzionale e anche per abolire l’Italicum
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http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/il_fatto_p4_1e467b09aff72f?workerAddress=ec2-54-158-95-181.compute-1.amazonaws.com

Corriere 11.3.16
Vaticano
La «fabbrica dei santi» adotta le nuove regole per la trasparenza
Il «rescritto» del Papa riordina la disciplina, caratterizzata sinora da denaro contante che circolava senza controllo e il rischio che agli altari si arrivasse a suon di soldi. Saranno rafforzati la vigilanza e controlli. Il contenimento dei costi e il fondo solidarietà
di Gian Guido Vecchi
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http://www.corriere.it/cronache/16_marzo_10/fabbrica-santi-adotta-nuove-regole-la-trasparenza-3caba996-e6eb-11e5-a4db-2711f76fe4f6.shtml

Corriere 11.3.16
Biancofiore: «Gli ormoni dei profughi mettono a rischio le ragazze bionde dell’Alto Adige»
La deputata di Forza Italia durante la conferenza stampa degli azzurri alla Camera dei Deputati
«Immaginate la nostra Regione, dove ci sono ragazze belle, bionde e cristianissime che si trovano invase da giovani mossi talvolta dagli ormoni».
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http://video.corriere.it/biancofiore-gli-ormoni-profughi-mettono-rischio-ragazze-bionde-dell-alto-adige/dfbb8098-e6e6-11e5-877d-6f0788106330

Corriere 11.3.16
Il sondaggio per Ispi
Gli italiani e un intervento in Libia il 49% è contrario, il 31% favorevole

Roma dovrebbe partecipare a una missione militare in Libia? Risponde di no il 49% degli italiani, secondo un sondaggio pubblicato oggi dall’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) e realizzato dall’Ipsos. Il 20% degli intervistati (un campione di mille persone) risponde «non so». Tra la minoranza interventista (il 31% del totale), il 23% ritiene utile mandare forze di terra. I Sì salgono al 45% tra gli elettori di centrodestra, si attesta sul 34% sia per gli elettori pd che per i M5S, mentre più a sinistra scende al 19%.Da soli o accompagnati? Solo il 10% pensa che l’Italia possa intervenire singolarmente, e non all’interno di una coalizione Nato o Ue (il 68% dei Sì) o sotto l’egida dell’Onu (23%). La situazione in Libia preoccupa più per le possibili infiltrazioni di elementi terroristici al di qua del Mediterraneo (37%) che per l’aumento dell’immigrazione clandestina (26%), mentre il 25% teme un’accresciuta instabilità nella regione. Perché quasi metà degli italiani boccia l’intervento? Il 23% si dice «sempre contrario alla guerra», il 12% ritiene invece che sarebbe un errore politico. Una maggioranza significativa (59%) ritiene che l’Italia non abbia comunque un ruolo nella crisi libica.

Corriere 11.3.16
La caduta dei tabù
A sorpresa la Bce azzera i tassi. Alle banche prestiti mirati per imprese e famiglie
di Federico Fubini
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http://www.corriere.it/cultura/16_marzo_10/caduta-tabu-eb191854-e710-11e5-877d-6f0788106330.shtml

Corriere 11.3.16
L’intervista
D’Alema: «Il partito della Nazione già c’è ma perderà. Il malessere può creare una nuova forza»
L’ex premier: Renzi distrugge le radici del Pd. Fondatori ignorati, devo andare in ginocchio da Guerini?
di Aldo Cazzullo
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http://www.corriere.it/politica/16_marzo_11/d-alema-il-partito-nazione-gia-c-ma-perdera-malessere-puo-creare-nuova-forza-2805f89a-e6fd-11e5-877d-6f0788106330.shtml

La Stampa 11.3.16
Bassolino: “Arroganza insopportabile: “Se avremo le forze, mi candiderò”
L’ex sindaco chiama a raccolta i suoi per domani. E prova a stanare Renzi, che parlerà solo domenica
di Guido Ruotolo
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http://www.lastampa.it/2016/03/11/italia/politica/bassolino-arroganza-insopportabile-se-avremo-le-forze-mi-candider-KaEz9A18Zu6ACTdfEx68BK/pagina.html

Corriere 11.3.16
Verso il voto
Primarie del Pd a Napoli, Bassolino ricorre e prepara una lista alternativa
Sabato l’iniziativa del sindaco: li farò ballare, se posso vincere mi candido
A Roma il nodo Bray. «C’è un movimento civico al quale bisogna dare uno sbocco»
di Fulvio Bufi ed Ernesto Menicucci
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http://www.corriere.it/politica/16_marzo_11/primarie-pd-napoli-bassolino-ricorre-prepara-lista-alternativa-f889cab0-e706-11e5-877d-6f0788106330.shtml

Repubblica 11.3.16
Bassolino ora sfida il Pd E la minoranza attacca “Renzi richiami Orfini”
Napoli, l’ex sindaco raduna i sostenitori dello strappo “Ma tra i quattro in gara io il solo che votò per Matteo”
di Giovanna Casadio Ottavio Lucarelli

ROMA. Antonio Bassolino fa un altro passo verso lo strappo dal Pd. Oggi presenta un secondo ricorso dopo la sconfitta alle primarie e la bocciatura di un primo reclamo. E domani chiama a raccolta i suoi sostenitori in un teatro: la tentazione sempre più forte è presentare una “lista separata” dal Pd alle comunali. Lo stesso hashtag #napoliriparte, che l’ex sindaco usa sui social, potrebbe diventarne il logo. «Ho prenotato un teatro - avverte Bassolino parlando a “Otto e mezzo” ospite di Lilli Gruber - per reagire a un’arroganza insopportabile verso i napoletani, sconcertati dal modo in cui il Pd affronta i fatti delle primarie con un video che testimonia cosa è successo all’esterno di sei seggi. Continuerò fino in fondo, vedremo se chiudono gli occhi ».
Bassolino non accetta la sconfitta da parte di Valeria Valente. Per lui sono scandalosi i video sugli scambi di denaro all’esterno di alcuni seggi: «La bocciatura del mio ricorso è illegittima. E dire che tra i candidati a sindaco sono l’unico ad aver votato Renzi. Ma i dirigenti nazionali come Orfini hanno detto che a Napoli era tutto a posto. La questione è stata chiusa a Roma prima che a Napoli ». E poi un nuovo affondo: «Il Pd va verso il suicidio. Io chiedo l’annullamento del voto in sei seggi in cui si può anche rivotare ».
Bassolino chiama a raccolta i napoletani mentre a Roma il Pd tenta una mediazione. Il vicesegretario Lorenzo Guerini potrebbe incontrare Bassolino. Il premier Matteo Renzi invece non parla esplicitamente del caos primarie. Durante l’apertura di una galleria sulla Salerno-Reggio Calabria si limita a esaltare “l’Italia del fare”. «A noi non interessa la discussione della politica politicante. Sui giornali tutte le mattine e c’è la discussione tra gli addetti ai lavori nei partiti. Cose che agli italiani non interessano ».
La sinistra interna del Pd invece tiene alti i toni. E da oggi a domenica si riunisce a San Martino in Campo, luogo evocativo dell’Ulivo di Prodi che qui tenne il conclave di governo nel 2006. Gianni Cuperlo lancia la parola d’ordine: «Houston, abbiamo un problema. Serve una federazione tra le sinistre che allarghi il campo. Sennò il Pd perde se stesso». E lo stesso Cuperlo attacca il presidente del partito Matteo Orfini: «Renzi gli rivolga un richiamo, un invito all’osservanza della funzione di chi svolge ruoli di garanzia ». Sempre al premier-segretario si chiede di non trasformare in una resa dei conti la direzione del 21 marzo: «Non sia un esercizio di muscoli». «Noi siamo leali – conclude Cuperlo – e appoggeremo Sala a Milano, Giachetti a Roma, Valente a Napoli». Ma non sono escluse liste civiche federate per allargare il campo a sinistra.

Repubblica 11.3.16
L’intervista Luigi De Magistris, Sindaco di Napoli
“Quegli episodi un danno agli elettori e a tutta la città”
di Dario Del Porto

NAPOLI. Quei video ai seggi delle primarie «non hanno danneggiato solo gli elettori del Pd che pensavano di partecipare a una competizione senza trucchi, ma anche l’immagine della città. Dispiace, perché da cinque anni, a Napoli, governa una politica diversa da quella che si vede nei filmati ».
Seduto alla scrivania di Palazzo San Giacomo, il sindaco Luigi de Magistris è uno spettatore interessato di quanto sta accadendo nello schieramento di centrosinistra.
Bassolino pensa a una lista autonoma. Alla fine sarà proprio l’ex sindaco uno degli sfidanti per il Comune?
«Questo non lo so. Di sicuro, nel Pd si è aperta una questione nazionale che non finirà tanto presto».
Perché?
«La segreteria nazionale, e quindi Renzi, ha minimizzato l’accaduto, facendo così torto alla realtà politica dei fatti. Chi si era presentato come rottamatore dal Nord al Sud sa che il ceto politico napoletano del Pd non è cambiato, e finisce per accettare quel tipo di immagini».
Almeno su questo dunque è d’accordo con Bassolino?
«A lui va l’onore delle armi, mi fa specie però che venga considerato una specie di vincitore morale. Furbescamente, sta cercando di cavalcare i temi della moralità politica e pubblica. Ma uno dei protagonisti di quei filmati, il consigliere comunale Antonio Borriello, è stato per anni un procacciatore di voti proprio di Bassolino ».
Se il buongiorno si vede dal mattino, sarà una campagna elettorale avvelenata?
«È chiaro che questa vicenda ha molto avvelenato quel ceto politico alimentato da una lotta tra correnti. Ma è un problema loro. Noi abbiamo amministrato senza veleno e faremo una campagna potabile».
E se Valeria Valente e Antonio Bassolino trovassero un’intesa?
«Da quel mondo mi aspetto di tutto. Ma non mi interessa, rispetto tutti i miei avversari. Porteremo avanti il nostro programma per governare e cambiare Napoli con le mani pulite».
C’è spazio per un patto con i Cinquestelle?
«Su tante questioni tra noi c’è sintonia politica: dall’acqua pubblica, che abbiamo già realizzato, all’opposizione agli inceneritori fino alle critiche al governo Renzi. Loro però hanno escluso un’alleanza di tipo politico e non mi permetto di sindacare su questo. Ciò nonostante, quando si guarda ai contenuti, si capisce che questa amministrazione non è avversaria di quel mondo».
Sarà de Magistris il nuovo leader di Sinistra italiana?
«Se sarò rieletto, farò il sindaco per altri cinque anni. Napoli però sta diventando un nuovo modello politico, anche il Paese se ne sta accorgendo».

Repubblica 11.3.16
Le elezioni comunali.
A Milano Colombo ha deciso di non correre, ma altrove si moltiplicano i candidati di Sel contro quelli del Pd. E per loro aumenta il rischio di sconfitta, come in Liguria
I dem sotto il fuoco amico da nord a sud è lite a sinistra
di Sebastiano Messina

ROMA. Napoli è stata l’ultima postazione a finire sul radar. Quelle di Bologna e Torino erano già state avvistate da un pezzo, e presto avranno un nome e un cognome altri due puntini rossi che già lampeggiano minacciosi, Roma e Milano. «Fuoco amico», lo chiamano al Nazareno. Sono i candidati di sinistra – ieri compagni, sodali e alleati – che difficilmente vinceranno, ma probabilmente riusciranno a far perdere il Pd. E non serve a nulla liquidarli come «le liste dei rosiconi»: Renzi e i suoi ormai sanno che su quel fronte dovranno combattere, se non vogliono che si ripeta il disastro di Genova, dove nove mesi fa il candidato di Vendola e di Civati spaccò il centro-sinistra, incassò il 9,4 per cento e fece vincere il berlusconiano Toti.
Lo scenario è ancora in movimento, i nomi ondeggiano e le posizioni fluttuano. E non solo a Napoli, dove Antonio Bassolino – se alla fine scenderà in campo - sarà il secondo rivale del Pd alla sua sinistra, perché lì c’è già De Magistris (e con la benedizione di Sel). Anche a Milano c’è un colpo di scena al giorno: l’altro ieri si era fatta da parte Francesca Balzani, vice di Pisapia e sfidante (sconfitta) di Sala, avvertendo che non ci sarà lei in cima alla “lista arancione” destinata a portare al candidato del Pd i voti della sinistra inquieta. E ieri, prima che gli alternativi anti-Sala potessero gioirne, s’è chiamato fuori anche Gherardo Colombo, con una motivazione tagliente: non voglio essere il candidato della sola sinistra di questa città, «una posizione nella quale non mi riconosco, pur condividendo alcuni princìpi che rappresenterebbe ». Comunque, come s’è affrettato ad annunciare Basilio Rizzo, già portabandiera della Federazione della Sinistra, «anche senza Colombo una candidatura ci sarà. Potrebbe essere Curzio Maltese. Ma dobbiamo evitare il tutti contro tutti».
Eppure è proprio quello che sta succedendo. Vedi Torino, dove Sel – che cinque anni fa era alleata di Piero Fassino – oggi lo sfida con un suo candidato, Giorgio Airaudo, che ha come obiettivo non la vittoria ma «un risultato come l’8 o il 10 per cento, perché vorrebbe dire che una sinistra alternativa c’è, in questo Paese». E magari, senza quell’8-10 per cento, Fassino non riuscirà a vincere al primo turno: poi si vedrà. Ma Airaudo, che con Landini guidava l’ala sinistra della Fiom, nella sua sfida al sindaco che cominciò la sua carriera politica come segretario della federazione comunista troverà a sua volta un concorrente più a sinistra di lui: Marco Rizzo, l’ex capogruppo alla Camera dei cossuttiani che ha fondato un Partito comunista tutto suo, il Pc (senza la “i”). Compagni contro compagni contro compagni.
La stessa cosa sta per succedere a Roma, dove s’è creato un ingorgo alla sinistra del Pd. Dopo quella di Stefano Fassina, infatti, potrebbe prendere corpo la candidatura di Massimo Bray, l’ex ministro che rinunciò al seggio (e allo stipendio) di parlamentare per tornare alla Treccani, ma anche, e soprattutto, perché grande amico di Massimo D’Alema. Dopodiché è arrivata la notizia – non inaspettata – che scenderà in pista anche l’ex sindaco Ignazio Marino, che mai ha mandato giù la sua defenestrazione decisa davanti al notaio dal Partito democratico. Così al momento sono in tre i nomi che potrebbero sfidare Roberto Giacchetti, anche se presto ne rimarrà solo uno, scelto non con le primarie ma con un nuovo metodo, i caucus alla romana.
Poi c’è Bologna. Che Sel volesse sfidare il sindaco del Pd Virginio Merola, dopo averlo sostenuto cinque anni fa, si sapeva da un pezzo. Come l’abbia fatto, è però rocambolesco. Ha fatto tutto Mauro Zani, storico segretario emiliano del Pds prima e dei Ds poi, lanciando una Coalizione Civica che doveva nascere al di fuori dei partiti, sfidando quel Pd di cui lui non ha mai preso la tessera. Poi però i vendoliani hanno messo in campo il loro uomo, Federico Martelloni, che alle primarie ha strabattuto la “civica” Paola Ziccone, e allora - mentre Sel alzava la sua bandiera sul campo di battaglia - Zani se n’è andato sbattendo la porta.
«Adesso lo schema è chiaro e dimostra che ciò che è accaduto un anno fa in Liguria era solo l’antefatto di un disegno più sgradevolmente ambizioso: il rigurgito dei rottamati ha come unico obiettivo la spallata a Renzi» commenta da Genova Raffaella Paita, la candidata renziana sconfitta a maggio da Toti.
«È curioso - replica Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel che ancora oggi ci venga imputata quella sconfitta, dovuta solo agli errori della Paita». Sarà. Eppure dopo Genova che Sel ha fatto saltare i ponti a Torino, a Bologna, a Napoli, a Torino e a Roma, ora il Pd teme il «fuoco amico». Fratoianni sorride: «Macché fuoco amico. Noi non siamo amici, siamo avversari di Renzi e del suo Pd. Non l’hanno ancora capito?»..

Corriere 11.3.16
A Milano il no di Colombo alla sinistra
di Paolo Foschini

MILANO Chiesto è poco: l’avevano implorato. Quelli della Milano di sinistra più a sinistra, quelli che contro il centrodestra naturalmente sì purché per batterlo non si debba stare con Beppe Sala, l’ex signore dell’Expo che per il centrosinistra aveva però vinto le primarie. E lui ci ha pensato tanto, Gherardo Colombo. A candidarcisi lui, come sindaco nella sua Milano. Ci ha pure «sofferto», scrive. Ma infine ha detto no. Per motivi che forse fanno anche più male del no. Per il suo «impegno civile» che «in questo momento» non ritiene «in sintonia col ruolo di sindaco». E poi, dice ancora, perché dietro di lui non c’è una squadra. E poi, botta finale, perché risulterebbe essere il candidato «della sola sinistra di Milano: posizione in cui non mi riconosco». Certo l’ex magistrato si dice preoccupato che i due principali candidati, Beppe Sala per una parte e Stefano Parisi per l’altra, siano «portatori di una managerialità efficiente ma lontana dai valori» più importanti per lui. Quelli — libertà, democrazia, rispetto delle regole — per i quali ricorda di aver lasciato otto anni fa la magistratura a favore di un impegno totale soprattutto nelle scuole al ritmo di trecento incontri l’anno: «Percorso che con la candidatura dovrei abbandonare», scrive. Inoltre: il sindaco «dovrebbe» avere «una squadra di persone scelte con anticipo, fidate e competenti»: che evidentemente non c’è. Infine, appunto, candidarsi lo renderebbe almeno percepito come «chi esprime la sola sinistra della città. Posizione in cui non mi riconosco, pur condividendo alcuni principi di chi rappresenterebbe».

Repubblica 11.3.16
Elezioni Milano, Colombo dice no alla candidatura: "Non posso essere espressione di una parte sola della città"Elezioni Milano, Colombo dice no alla candidatura: "Non posso essere espressione di una parte sola della città"
Sala intanto cerca di ricucire con i supporter della vicesindaco 'orfani' dopo il rifiuto di Balzani a guidare la lista arancione
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http://milano.repubblica.it/cronaca/2016/03/10/news/elezioni_milano_sala_dopo_lo_schiaffo_di_balzani_troppi_equivoci_-135167972/?ref=HREC1-16

Repubblica 11.3.16
Comunali Roma, in campo c'è Ignazio Marino. Ipotesi primarie a sinistra del Pd il 3 aprile
Ieri l'incontro con Fassina. L'obiettivo è quello di proporre una candidatura unitaria attraverso un percorso "partecipato". Bray verso il no. Orfini: "Nomi fuori dal centrosinistra per far vincere destra-Grillo"
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http://roma.repubblica.it/cronaca/2016/03/10/news/comunali_roma_in_campo_c_e_marino-135164506/?ref=HREC1-14

il manifesto 11.3.16
Meglio «caucus» che primarie per il nome radical
Sinistra. Il 3 aprile «faremo come in Michigan». Per i gazebo «i tempi sono troppo stretti»
di Daniela Preziosi

ROMA Serviranno le primarie, e ci sarebbe già una data, il 3 aprile. Ed anche già una contestazione: è la data del derby Lazio-Roma, in quei giorni sacri i romani non amano le distrazioni. Se invece non saranno primarie («I tempi sono troppo stretti», spiegano) comunque si troverà «un percorso condiviso» per scegliere il candidato della sinistra-sinistra, sempreché ce ne sia più di uno. Lo hanno deciso Stefano Fassina, in corsa per il Campidoglio, Ignazio Marino e Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana mercoledì sera in un incontro a casa dell’ex sindaco di Roma. Che però in effetti non ha ancora annunciato la sua sfida. Non era il primo vis à vis fra i due aspiranti sindaci. Poi, di buon mattino, Marino ha battuto un colpo: era il suo 61nesimo compleanno, via twitter ha ringraziato «i tantissimi che mi stanno facendo gli auguri. Una carica di affetto e fiducia che fa bene e dà forza». Dopo è volato negli Stati Uniti, come gli è capitato di fare molto spesso negli ultimi mesi. Tornerà lunedì. In Sel c’è la convinzione che entro martedì darà una risposta chiara e definitiva. Ma forse è solo una speranza.
La speranza, per esempio, che Marino non decida ’a prescindere’ dagli altri, e che lavori in squadra come ha promesso. Sarà un mese intenso per lui: il 31 marzo uscirà il suo libro «Un marziano a Roma» in cui – informa l’editore Feltrinelli – «è scritta la sua verità», un volume «esplosivo, ma niente affatto scandalistico, ricco di rivelazioni e retroscena sui passaggi anche più minuti, del sottopotere romano». C’è chi aspetta l’annuncio della corsa alla presentazione della sedicente «bomba», ma i suoi compagni della sinistra non possono aspettare tanto. «È verosimile la definizione di un percorso democratico per raggiungere una candidatura unitaria ed efficace. Stefano e Ignazio stanno lavorando a questo progetto», ragiona Fratoianni in Transatlantico, descrivendo il clima «costruttivo» dell’incontro della sera prima.
La sfida non sarà solo tra loro due. È vero che l’ex ministro Massimo Bray ha deciso di non impegnarsi anche in seguito al pressing del Pd. C’è del nervosismo al Nazareno. «Stupisce che non siano state già smentite, noi le primarie le abbiamo già fatte e ora chi si candida al di fuori, si candida contro il centrosinistra per far vincere la destra e Grillo», avverte Matteo Orfini. «Le scelte individuali fuori dal Pd configurerebbero una frattura e un abbandono del partito. Insomma, si collocherebbero autonomamente fuori», rincara Fabio Melilli, segretario dei democratici del Lazio.
Ma da sinistra il corteggiamento del direttore della Treccani prosegue: «Bray è una figura autorevole che allargherebbe ulteriormente la proposta politica. In ogni caso quella delle primarie è una sfida aperta a tutte e tutti coloro che vorranno dare un contributo per il governo di Roma», spiega il vicepresidente del Lazio Massimiliano Smeriglio. E il deputato Alfredo D’Attorre aggiunge: «La candidatura di Bray darebbe un valore in più perché aggiungerebbe un altro contributo importante, non solo politico ma della società civile».
Intanto circolano altri nomi: quello di Luca Bergamo, vicino a Civati e promotore dell’associazione «Contaci»: che però smentisce. Ci pensa anche l’ex capogruppo di Sel in Campidoglio Gianluca Peciola, fra i primi ad aver chiesto a gran voce le primarie. Ma siamo alle prime battute, non a candidature vere. In attesa della definizione dei partecipanti alla sfida, si lavora alla proposta. Forse non veri gazebo alla dem, anche per evitare impietosi paragoni sull’affluenza, ma «caucus» per la scelta del candidato: un meccanismo all’americana, nato nel 1972 e basato su grandi assemblee civiche. «Vogliamo consultare la città proseguendo un lavoro già iniziato da Fassina», spiega D’Attorre. Nel caso romano sarebbero convocate municipio per municipio per consultare la base, con tanto di albo di elettori. Un modello mai testato da noi, con i candidati invitati a confrontarsi sui principali temi in agenda. Alla fine una consultazione decreta il vincitore: proprio come mercoledì è successo in Michigan, dove a sorpresa per i democratici ha vinto il socialista Bernie Sanders. d.p.

il manifesto 11.3.16
Fassina: «Io e Marino? E’ già un successo»
Roma. «Abbiamo allargato il campo, Bray pensa a schierarsi con noi. Se avessimo votato ai gazebo Pd saremmo morti come a Milano», dice l'ex viceministro in campo per il Campidoglio. «Vogliamo dare una svolta, anche rispetto all'ex sindaco»
interv di Daniela Preziosi

ROMA Stefano Fassina, quindi anche a sinistra del Pd farete le primarie per scegliere il candidato sindaco?
Intanto abbiamo unito tante forze e questo vuol dire che il progetto che ho avviato mesi fa ha attratto per esempio Ignazio Marino e Massimo Bray, personalità autorevoli del Pd che confermano una rottura fra quel partito e una parte del popolo di centrosinistra.
D’accordo, avete allargato il campo. Ma ora vi ritrovate con troppi candidati.
È fisiologico. Se sarà così è perché mettiamo insieme aree e percorsi diversi in modo partecipato.
«Se sarà così» vuol dire che ha qualche dubbio che Marino si candidi davvero?
Sia Marino che Bray stanno riflettendo. Poi diranno loro.
Vi siete dati un tempo per queste riflessioni?
Certo, non possiamo andare avanti ancora molto. Nei prossimi giorni il quadro si chiarirà. Ma siamo già d’accordo sul fatto che serve un percorso partecipato con tutti quelli che in questi mesi hanno lavorato e quelli che vogliono impegnarsi.
«Percorso partecipato», come lei dice, non significa necessariamente primarie.
Vediamo, per organizzare primarie vere e proprie c’è anche un problema di tempo.
Il Pd avverte Bray e Marino che se decidessero di candidarsi sarebbero fuori dal partito.
Per questa ovvietà non c’è bisogno di un comunicato.
Non teme l’appello al voto utile che il Pd già fa?
È un riconoscimento del fatto che fuori dal Pd c’è una prospettiva politica concreta in cui impegnarsi. Quando ho avviato la mia candidatura, a fine novembre, avevo proprio questo obiettivo. E ora segnalo che senza questo mio percorso, e senza la partecipazione in tante aree politiche e sociali della città, oggi la sinistra di Roma sarebbe finita come quella di Milano. E questo lo dico a prescindere da chi alla fine sarà il candidato.
Orgoglioso di aver detto no alla partecipazione alle primarie del Pd?
Lo dico chiaro: se avessi ascoltato quella parte di amministratori di Sel che spingevano per fare le primarie Pd, ora saremmo morti. Quella parte confonde la cultura di governo con la subalternità al Pd.
E però alla fine il candidato potrebbe non essere lei.
Il fatto di avere questo problema è già un indice di successo. Ma sono determinato a vincere. Dobbiamo allargare le aree sociali e politiche che abbiamo messo insieme, non dobbiamo sostituirne una con un’altra.
Da sindaco, Marino è stato accusato di essere un amministratore solitario e di non fare squadra. È cambiato?
Le difficoltà che ha avuto sono dipese anche dai compagni di viaggio che aveva. Ma certo noi dobbiamo mettere in campo una squadra. Ci sono nodi programmatici che vanno affrontati. Noi per Roma proponiamo discontinuità programmatiche: sulle privatizzazioni, sull’uso sociale degli spazi del comune e sulla delibera 140, sugli appalti che tagliano fuori le cooperative sociali. Vogliamo ristrutturare il debito, diciamo sì allo stadio della Roma ma no al progetto di Tor di Valle. Con le rappresentanze dei lavoratori e della cittadinanza vogliamo il dialogo sociale.
«Discontinuità programmatiche» anche con la giunta Marino? Marino è d’accordo?
Marino conosce il programma. E certo fra noi serve una base programmatica condivisa.
Il Pd già vi definisce lista dei «rosiconi» che vogliono solo far perdere loro.
Argomento inefficace. Domenica il 60% di quelli che hanno votato nel 2013 non è tornato ai gazebo. E non per l’invito di Fassina. Il Pd non vuole vedere che c’è una parte del centrosinistra che è rimasta a casa. Noi di Sinistra italiana non stiamo creando una domanda, stiamo cercando di costruire una risposta.
Molti di voi hanno definito le primarie del Pd un «flop». Ma 40mila persone e passa alle urne è comunque un risultato. Non avete paura di un confronto diretto con questi numeri, di fare le primarie dei «piccoli»?
Il Pd è uno dei principali partiti italiani. E benché in profonda difficoltà ha il governo nazionale, un presidente del consiglio che occupa tutti gli spazi mediatici possibili, che controlla la Rai, che governa la regione e infine che ha ereditato un tessuto di circoli sul territorio. Il confronto fra noi e loro sarebbe davvero singolare. Ma non abbiamo paura. Anche nei tempi stretti che che ci stiamo dando, faremo il massimo possibile.
Lei, Fassina; poi Marino, forse un nome di Civati, forse qualcun altro di Sel. Non rischiate di frammentare il voto con troppi candidati alle primarie?
Che ci siano più candidati alle primarie è normale. Ma il nostro obiettivo non è costruire un cartello elettorale, un accrocco. Vogliamo mettere in piedi un soggetto politico, una comunità strutturata. Per dare un governo di svolta a Roma. C’è bisogno che questo governo abbia radici sociali, che non si illuda con il riformismo dall’alto ma che sia ben ancorato alla comunità. Una scelta che poi si iscrive nel nostro progetto nazionale.
Cuperlo, della minoranza Pd, vi chiede di costruire ponti, di non chiudere il dialogo.
Il dialogo con loro lo facciamo sempre. Ma nonostante gli sforzi generosi della minoranza Pd, non sono possibili interlocuzioni vere. Anche i risultati delle primarie rendono chiaro che il rapporto con quel partito è impraticabile per chi vuole dare rappresentanza al mondo del lavoro. O per chi vuole la giustizia ambientale: bisogna prendere atto che il governo ha scelto la data del 17 aprile per il referendum antitrivelle, scartando l’election day. L’ha fatto proprio per depotenziare il Sì.

Corriere 11.3.16
Morassut e quell’allarme per i dati gonfiati
di Monica Guerzoni

ROMA Roberto Morassut lo aveva dichiarato apertis verbis prima della sfida: «Un’affluenza sotto i 50 mila votanti sarebbe imbarazzante per il Pd».
Si spiega anche così il (maldestro) tentativo dei democratici di gonfiare in corsa i dati delle primarie, facendo spuntare tra la sera e la mattina migliaia di schede bianche, poi calate a furor di commenti indignati. E allora, cinque giorni dopo il fattaccio, ha ancora un senso seguire il filo dell’infelice suggestione che ha attraversato i dem, ossessionati — nelle ore della sfida tra Giachetti e Morassut — dall’ansia dei numeri. Alle 11 di domenica il commissario Orfini telefona a Giachetti e Morassut e li informa che le cose ai seggi vanno «molto bene», poi dirama il suo entusiasmo. Dice che «ci sono file in tutti i seggi» e che i votanti all’ombra del Cupolone sono «già ventimila». Il dato, al quale il Pd si è impiccato per tutto il giorno, si rivelerà sovrastimato di parecchio. Alle ore 15 infatti Morassut viene a sapere dai suoi che le schede non sono, a quell’ora, più 18 mila. E così alle 17, dopo aver verificato che i votanti sono circa 30 mila, Morassut lancia l’allarme con un comunicato in cui giudica insufficiente la partecipazione. Fa buio, chiudono i seggi e Orfini chiama i candidati: «Ragazzi, forse ce la facciamo a toccare quota 50 mila... Sarebbe un bel risultato per tutti». Un invito a chiudere un occhio sui numeri, per il bene della ditta? La sinistra non ci sta, teme trucchetti a vantaggio di Giachetti e chiede ai vertici del Pd di diffondere i dati seggio per seggio. «Girava l’idea di aggiustarsela», conferma sottovoce un deputato renziano in Transatlantico. E spiega il suo imbarazzo: «Una volta queste cose le sapevamo fare. Se il Nazareno diceva che dovevamo arrivare a 50 mila era 50 mila, punto. E certo non si veniva a sapere».

La Stampa 11.3.16
Cuffaro: “Il Pd è la nuova Dc, la minoranza sarà spazzata via. Ma a Roma attenti alla Raggi”
L’ex governatore siciliano: destra e sinistra mi chiedono di tornare
intervista di Giuseppe Alberto Falci

Dica la verità è riuscito a condizionare perfino le primarie di Napoli? Giorgio Ariosto, uno di quelli che distribuiva monetine ai seggi, era un cuffariano. «Non so chi sia questo Ariosto. Dicono che sia cuffariano ma io non lo conosco. In ogni caso a Napoli avrei fatto votare per Bassolino». Di passaggio a Roma per la presentazione di un libro che ripercorre le sue vicissitudini giudiziarie, l’ex presidente della Regione Sicilia, uscito dal carcere a dicembre dopo aver scontato quasi cinque anni di pena per favoreggiamento a Cosa Nostra, nonostante tutto è ancora amato dai suoi elettori. «Sono più popolare di Berlusconi. Non pensavo che il carcere mi desse questa notorietà». Cuffaro si è spogliato degli abiti dei parlamentari, e veste come un turista in visita nella Capitale. Una camicia, un pullover e un paio di jeans. Lo ferma perfino Maria Pia Garavaglia, ex senatrice Ds, che lo stringe forte e gli augura buona fortuna.
È tornato in Sicilia o si è nuovamente trasferito a Roma?
«Frequento saltuariamente la Capitale. Ormai vivo nella mia campagna di San Michele di Ganzaria in provincia di Catania. Lì mi diverto e sto a contatto con la natura. Mi prendo cura delle mie galline».
Ha proprio deciso di lasciare politica?
«Tutti mi hanno chiesto di scendere in campo. Da destra a sinistra. Per adesso però non ne ho voglia».
In realtà, lo ammetta, sta preparando il suo ritorno in grande stile?
«In effetti sono ancora ben voluto. Qualche volte mi diverto a far litigare i leader».
Più che litigare stava provocando la scissione nel Pd...
«Tutti pensano che i miei ex fedelissimi stiano andando da Renzi. In verità, quando chiusi con la politica a causa della condanna, i miei amici si riposizionarono nel Pd di Pier Luigi Bersani.
Le truppe dell’ex segretario negano. Alzano le spalle.
«Le faccio un esempio, l’attuale segretario del Pd di Palermo, Giuseppe Bruno, era già andato lì ai tempi di Bersani. Per non parlare del Pd in giunta con Lombardo. Quasi tutti gli assessori, compreso il magistrato Caterina Chinnici (oggi europarlamentare del Pd n.d.r), erano in gran parte amici miei».
Il suo nome continua a dividere.
«E mi sorprendo anche io. Ma può dividersi un grande partito come il Pd su una minchiata detta da Cuffaro?».
Quale sarà il futuro del Pd?
«Se Renzi vince il referendum costituzionale, anticiperà le elezioni e farà un listone del partito della nazione. Si farà l’80 per cento dei gruppi parlamentare a trazione renziana. E non gliene fregherà più nulla dei Bersani e degli Speranza».
Secondo lei Verdini confluirà nel nuovo partito di Renzi?
«Verdini è la vera novità della politica italiana. È come se il numero 10 del Milan passasse con l’Inter. Ormai è chiaro che il Pd è un’altra cosa. La metamorfosi si compirà con le elezioni. È fisiologico che sia così. Cosa ci sta attorno a Renzi? Guerini era nella direzione della Dc. I Boschi sono una famiglia targata Dc. Se tu sei culturalmente nato e cresciuto dentro uno spazio culturale, quell’idea culturale te la porti dentro».
A proposito della Capitale, chi vincerà le elezioni amministrative?
«Virginia Raggi mi sembra un’ottima candidata. Questa ragazza dei cinquestelle suscita molto interesse. C’è una città incazzata che ha voglia di punizione. Può succedere di tutto anche che i cinquestelle vincano al primo turno».

Corriere 11.3.16
L’accusa del segretario: qualcuno vuole lo sfascio
Il piano delle liste arancioni da affiancare ai candidati sindaci
di Maria Teresa Meli

ROMA Miracoli renziani: il presidente del Consiglio è riuscito a mettere insieme Walter Veltroni, Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Achille Occhetto e Antonio Bassolino. Tutta gente che si prende poco, che ha litigato e che, in alcuni casi, non si parla addirittura da anni.
Ma due cose accomunano queste figure: l’aver fatto parte del vecchio Pci e l’avversione maturata in questo periodo nei confronti del segretario- premier. C’è Veltroni, per esempio, che si tiene lontano dalla politica, ma se qualche vecchio amico gli chiede di Renzi, risponde così: «Non se ne può più». E c’è D’Alema, secondo il quale il leader del Partito democratico «è un pericolo per la democrazia».
Poi c’è Bassolino, profondamente «offeso» perché «Matteo non ha fatto nemmeno un gesto nei miei confronti». E c’è pure l’ottantenne Occhetto, che parla male di tutti questi esponenti del Partito democratico, ma se sente nominare il presidente del Consiglio gli viene il fumo agli occhi.
Infine, c’è Bersani, che in un’intervista al Corriere della Sera è stato gelido con il candidato ufficiale del partito a Roma, Roberto Giachetti, mentre ha mostrato una certa simpatia per l’eventuale discesa in campo dell’ex ministro ai Beni culturali, Massimo Bray. Cosa che, come era ovvio, non è piaciuta al premier. Che ha deciso di prendere le sue contromisure e di passare all’offensiva.
Domenica, infatti, Renzi farà un discorso alla scuola dei giovani democratici sulle primarie e sui rapporti interni al partito. E lì, assicurano i renziani, «interverrà pesantemente», perché si è stufato delle polemiche quotidiane della minoranza.
Con i collaboratori il presidente del Consiglio è stato esplicito: «Il Paese è altrove e i soliti si impegnano in ridicole divisioni correntizie. Giocano al tanto peggio, tanto meglio e sanno solo parlare male di me, del partito e del governo. Non hanno un obiettivo politico, non hanno un progetto alternativo, non hanno il leader, non hanno i numeri. Il loro obiettivo è solo lo sfascio, la sconfitta del Partito democratico alle elezioni amministrative».
Poi, pubblicamente, il presidente del Consiglio si è espresso così: «La politica politicante, quella che è sui giornali e nei programmi televisivi, le discussioni interne tra i partiti e tra gli addetti ai lavori, sono tutte cose che agli italiani non interessano. Mentre i soliti vivono di polemiche, noi ci occupiamo delle cose concrete». Ma in realtà l’attenzione di Renzi e dei suoi uomini è rivolta anche al Pd. C’è la «pratica Bassolino» da sistemare. Raccontano che il vicesegretario Lorenzo Guerini, che ha l’animo del mediatore, si stia dando da fare per tentare un incontro di riappacificazione tra il premier e l’ex sindaco di Napoli. Ci riuscirà?
E poi ci sono le elezioni. Nel quartier generale renziano si studia come evitare che il fiorire delle candidature a sinistra e la polemica continua della minoranza interna possano nuocere e influire negativamente sul risultato delle Amministrative. Perciò ci si sta muovendo anche a sinistra.
Il che significa che sia a Milano che a Roma i candidati del Partito democratico dovrebbero essere affiancati da liste di sinistra. Quella arancione nel capoluogo lombardo, che verrà presentata nonostante il forfait di Francesca Balzani e un’altra formazione simile nella Capitale, a sostegno di Roberto Giachetti. Ciò comporterà, inevitabilmente, la spaccatura di Sel che, a Roma come a Milano, non è tutta allineata e coperta con i vertici nazionali. Una parte di quel movimento, infatti, vorrebbe allearsi con il Pd.
Ma anche nella sinistra interna del Partito democratico qualcosa si sta muovendo. La componente di minoranza che fa capo a Gianni Cuperlo ieri ha preso le distanze dai bersaniani, presentando un documento che è un appello all’unità nel tentativo di rilanciare il Pd. Su questo punto Cuperlo è stato molto chiaro: «Noi siamo leali», ha ripetuto più volte nel corso di una conferenza stampa. E poi ha precisato: «Non vogliamo lasciare nessun margine all’ambiguità». Cosa che, invece, secondo i renziani, Pier Luigi Bersani ha ampiamente fatto nell’intervista al Corriere .

Repubblica 11.3.16
Il Segretario prigioniero
di Guido Crainz

AFFONDA molto all’indietro e ha molte ragioni la deriva del Partito democratico, il suo logorarsi in dissoluzioni e frantumazioni, e talora indecenze, sempre più incomprensibili. Sembra tramontare per questa via la possibilità stessa di una forza riformatrice nel nostro Paese: di questo si tratta e di questo occorre ragionare.
Era ambiziosa l’idea che iniziò faticosamente a profilarsi dopo il trauma di Tangentopoli, nello scomparire dei grandi partiti del Novecento: l’idea di raccogliere i lasciti più fecondi delle principali correnti riformatrici per costruire una realtà nuova, adeguata alle nuove sfide. Non era più possibile guardare all’indietro: i funerali di Berlinguer, nell’ormai lontanissimo 1984, avevano visto l’ultimo, commosso apparire di un “popolo comunista” di cui erano crollati ormai i pilastri fondativi (dalla “centralità operaia” ai riferimenti internazionali e ad altro ancora). E Tangentopoli aveva reso solo più evidente quanto fosse deperito e degradato il riformismo cattolico nel corso di una lunga occupazione del potere. Non era solo italiana la crisi dei partiti fondati sulla militanza e sull’appartenenza o l’affermarsi di una “democrazia del pubblico”, per dirla con Bernard Manin: la trasformazione cioè della comunità dei cittadini in una platea di spettatori, con il subentrare della comunicazione mediatica alla partecipazione sociale e all’organizzazione sul territorio. Da noi questo processo si tinse però di accentuazioni ulteriori, rafforzate dal crollo della “prima Repubblica” e dall’irrompere della stagione di Berlusconi: per la ricostruzione di un’alternativa riformatrice diventava fondamentale allora dare corpo a una proposta di buona politica capace di coinvolgere le energie e le intelligenze migliori della società italiana. Questo mancò, e la sinistra parve riproporre tutti i vizi del vecchio sistema dei partiti: quasi irridendo, in alcuni suoi leader, alle proposte di aprirsi alla società civile. E lasciando colpevolmente deperire anche la “primavera dei sindaci”, inaugurata dall’elezione diretta dei primi cittadini.
È su questa china che il centrosinistra ha visto progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico, le proprie rappresentanze, le proprie dinamiche interne. Ha visto moltiplicarsi burocrazie e piccoli potentati, e ha iniziato a smarrire sin regole etiche. Un altro nodo è venuto poi alla luce all’uscir di scena dei protagonisti formatisi all’alba della repubblica: la grande inadeguatezza della generazione successiva della sinistra, pur cresciuta negli anni di uno straordinario miracolo economico, di una forte apertura culturale e di un diffuso protagonismo collettivo. Qualunque sia stata la sua scelta iniziale nel partito comunista in espansione degli anni Sessanta e Settanta o nelle effimere esperienze all’esterno di esso - quella generazione mancava ora largamente alla prova, e una sua parte era già affondata con il Psi craxiano. Veniva anche da qui l’incapacità della sinistra di rivolgersi agli italiani nel momento stesso in cui il ventennio berlusconiano franava lasciando orfana, smarrita e inasprita quell’ampia parte del Paese che vi aveva creduto. In quelle voragini è cresciuto vorticosamente l’astensionismo, ha fatto irruzione il ciclone a 5 Stelle, pur incapace di proposte, ed è progressivamente affondato quel che restava dei riti sempre più afasici del centrosinistra. Sembrò aprire una stagione nuova l’ingresso in campo di Matteo Renzi, con la proposta di “rottamare” le vecchie modalità della politica (questo giornale sintetizzò così le sue dichiarazioni dopo le primarie del 2013: Il trionfo di Renzi. “ Cambio subito il Pd” e “ Oggi è il nostro punto di partenza, tagliamo un miliardo alla politica”).
Venne soprattutto da qui il successo alle elezioni europee del 2014, in cui il Pd riconquistava tutti i suoi elettori - come non accadeva da tempo - e ne attraeva moltissimi altri. Era un dato fondamentale in un Paese che stava smarrendo la fiducia nella democrazia e due anni dopo non è facile comprendere perchè la leadership di Renzi abbia in qualche modo tradito se stessa proprio su questo nodo centrale, smarrendo l’iniziale “spinta propulsiva” e larga parte della propria credibilità. Poteva avere buone ragioni, certo, l’idea di rinnovare il Paese a partire soprattutto dall’azione di governo ma va riconosciuto che non ha retto alla prova.
Il segretario “rottamatore” è apparso sempre più prigioniero di feudatari locali, soprattutto nel Mezzogiorno; sempre più sordo ai segnali che via via venivano (si pensi almeno all’astensionismo esploso nella roccaforte emiliana); condizionato in alcune realtà, e non solo a Roma, da un partito «dannoso e pericoloso» (parole di Fabrizio Barca) che aveva preso corpo prima di lui; in estrema difficoltà nel proporre nelle più importanti città italiane una classe dirigente all’altezza del compito, e certo non stimolato da una sinistra interna a lungo silente proprio su questi aspetti. Questi nodi hanno progressivamente e rovinosamente occupato la scena mentre diventavano sempre più nebulose le riflessioni sul futuro, sempre più “mediatica” e confusa la proposta di prospettive reali, adeguate agli scenari internazionali e alle difficoltà del Paese. Eppure oggi più che mai contenuti e modi di essere della politica vanno ripensati insieme: radicalmente, pena l’estinzione di una speranza riformatrice. E non è in gioco solo la sorte del Pd.

Corriere 11.3.16
Dem in bilico però la vera incognita è l’economia
di Massimo Franco

Nonostante le convulsioni nel Pd, il futuro del governo non dipende solo dal loro esito. Le elezioni amministrative di giugno possono logorare ulteriormente Matteo Renzi ma non travolgerlo. Il premier sa bene che il «partito» più insidioso col quale deve confrontarsi è quello dei conti economici. Il suo ottimismo ostentato, che i detrattori definiscono d’ufficio e ingannevole, può convincere l’elettorato solo se si intravede una qualche ripresa. La mossa compiuta ieri dalla Banca centrale europea serve a dargli una boccata d’ossigeno.
Il commento stizzito del Movimento 5 Stelle nei confronti del presidente della Bce Mario Draghi era rivelatore. Per una formazione che scommette sul collasso del sistema, l’abbassamento dei tassi di interesse è apparso un aiuto oggettivo anche al governo italiano. È il tentativo di combattere con maggiore determinazione i rischi di deflazione; e offrire un’occasione in più alle banche per investire e favorire una ripresa anemica. Ma la reazione per il momento altalenante delle Borse riconsegna una situazione gonfia di incognite.
Fa temere che il nostro Paese sia condannato a galleggiare ancora su percentuali di crescita scoraggianti. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, è stato attaccato in modo frontale dalle opposizioni dopo la lettera della Commissione europea sui nostri conti. «È il De profundis per Matteo Renzi e Padoan», ha detto il capogruppo alla Camera di FI, Renato Brunetta. Si è agganciato all’ammissione del ministro Giuliano Poletti, secondo il quale senza crescita è impossibile avere nuova occupazione». Il capo del governo non esita a liquidare i critici cercando di accreditare la sicurezza di sempre.
Eppure, il modo perentorio e ripetitivo col quale intima di «smetterla di lamentarci, l’Italia deve tornare ad essere guida in una Europa smarrita», lascia un po’ perplessi. E non solo perché è difficile definire il nostro Paese alla guida dell’Ue, anche in passato. Il problema è che queste affermazioni sembrano usate da Renzi soprattutto in chiave interna; di più, di partito, per opporre il premier «che fa», nella sua narrativa, a quanti nel Pd sarebbero capaci solo di fare polemiche e di lamentarsi. Ma un simile atteggiamento non promette nulla di buono, in vista del voto. Le spinte centrifughe si stanno accentuando, tra i dem.
E non solo per le irregolarità alle primarie. L’ostilità a Renzi e ai suoi candidati lascia presagire liste alternative «di sinistra» sia a Roma che a Napoli; e aspiranti sindaci che, pur restando tali, si prefiggono di togliere voti al Pd puntando sullo scontento diffuso. Significherebbe una scissione di fatto, non decisa formalmente ma della quale gli organi nazionali hanno già annunciato le conseguenze automatiche: l’espulsione dal partito. Per una forza che vuole unire l’Italia ed è il perno del governo, non sarebbe un bel viatico.

La Stampa 11.3.16
Perché Renzi accenderà tre ceri a San Mario Draghi
di Ugo Magri
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/11/italia/politica/perch-renzi-accender-tre-ceri-a-san-mario-draghi-oeuC1OoHQkvZ44ibTt5nDM/pagina.html

La Stampa 11.3.16
Etruria, Bankitalia gela i risparmiatori
Parte il processo. Via Nazionale: “Noi unica parte civile”. L’ira dei consumatori
di Gianluca Paolucci

La Banca d’Italia sostiene di essere l’unica parte civile ammissibile nel procedimento per ostacolo alla vigilanza contro gli ex vertici di Banca Etruria, negando di fatto la possibilità di costituzione di risparmiatori e associazioni di consumatori. Il procedimento iniziato ieri al tribunale di Arezzo contro l’ex presidente di Etruria, Giuseppe Fornasari, l’ex Dg Luca Bronchi e il funzionario David Canestri è il primo dei vari filoni d’indagine sul crac Etruria che arriva in tribunale.
All’udienza, dedicata appunto alla costituzione delle parti, hanno chiesto di essere ammessi 73 risparmiatori e varie associazioni, oltre a Banca d’Italia. La procura, rappresentata dal procuratore capo Roberto Rossi, ha espresso parere positivo alla costituzione di parte civile dei risparmiatori e delle loro associazioni. Mentre il legale di Bankitalia ha citato una serie di casi di giurisprudenza nei quali questa costituzione non era stata accettata. Una linea che ha scatenato le ire dei legali in aula per rappresentare gli interessi di associazioni e singoli risparmiatori: «Assolutamente irrituale», sostiene uno degli avvocati presenti in aula.
Il giudice dell’udienza preliminare Anna Maria Loprete si è riservata di decidere e ha aggiornato l’udienza al prossimo 13 aprile.
Fuori dal tribunale è andata in scena la protesta dei risparmiatori aderenti all’Associazione Vittime del salvabanche. La presidente dell’associazione, Letizia Giorgianni, ha attaccato duramente gli ex vertici dell’istituto, sostenendo che alcuni di loro avrebbero ceduto quote societarie e immobili dopo il commissariamento dell’istituto per evitare rivalse sui propri beni.
«Sono nullatenenti», ha spiegato la Giorgianni riferendosi agli ex vertici di Etruria. Per questo «abbiamo rinunciato a costituirci parte civile nei procedimenti che potranno esserci a carico degli ex vertici di Banca Etruria», ha aggiunto parlando con i giornalisti di fronte al tribunale.
La presa di posizione delle Vittime del salvabanche ha trovato una sponda politica in Giorgia Meloni. «Prima Renzi lo tutela con uno scudo nel decreto salva banche, ora scopriamo che il papà del ministro Boschi risulta essere praticamente nullatenente. In altre parole anche se la giustizia riconoscesse lui e i suoi colleghi amministratori di banca colpevoli di aver truffato i risparmiatori, il capo famiglia Boschi non caccerebbe un euro di risarcimento. Per questo governo l’unica difesa sempre legittima è quella dei propri parenti», ha dichiarato la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.

il manifesto 11.3.16
Testamento biologico, gli esperti concordano: sì all’interruzione delle terapie
Diritti. Iniziate le audizioni sulla dichiarazioni anticipate di trattamento
di Matteo Mainardi

Doppio binario per le discussioni su eutanasia e dichiarazioni anticipate di trattamento. È questa la scelta operata dalla Camera dei Deputati: separare i temi in modo tale, si dice, da assicurare un iter che si concluda con una legge almeno sul testamento biologico. E così, mentre la discussione sull’eutanasia non è ancora in fase di dibattito generale, quello sulle Dat è giunto alle audizioni degli esperti.
In seno alla Commissione Affari sociali, alla quale sono stati assegnati i testi, la relatrice è Donata Lenzi, deputata dem che vorrebbe arrivare a una legislazione di principio, a un «diritto mite» che non pretenda di regolamentare ogni singolo atto medico. Sono sette le proposte di legge sul tavolo dei 44 commissari. Leggendole, si possono dividere in due categorie. La prima, più ampia, vede proposte che vanno incontro alla libertà di autodeterminazione della persona, lasciando l’individuo libero di decidere cosa andrà fatto di sé nel caso in cui non si trovasse più nelle condizioni di intendere e volere, quindi nell’impossibilità di acconsentire o rifiutare trattamenti sanitari. La seconda categoria, con l’impostazione Binetti-Roccella che fu quella del ddl Calabrò nella XVI legislatura, vede invece proposte che, oltre a consentire al medico di non rispettare le indicazioni ricevute dal paziente, vietano l’inserimento nel biotestamento di indicazioni riguardanti alimentazione e idratazione artificiale, prevedendone il mantenimento fino al termine della vita. Ed è proprio sul punto della nutrizione e idratazione artificiale da intendersi come obbligatorie o meno che in queste prime sedute si consuma il dibattito. A tentare di fare chiarezza durante le audizioni è stato Giancarlo Sandri, consigliere della Società italiana di nutrizione clinica e metabolismo (Sinuc): «Non possiamo non identificare nell’idratazione e nutrizione artificiale un trattamento terapeutico». Infatti questo trattamento andrebbe iniziato e sospeso come qualsiasi altro, al momento giusto e se ce n’è bisogno. Se ciò venisse accettato come principio cardine, deriverebbero tutti gli altri principi, tra cui la possibilità di rifiuto. Continua Sandri: «Non è uguale imboccare un anziano e nutrirlo per via endovenosa: il secondo caso è artificiale e può portare complicanze, può essere addirittura futile o dannoso». Sulla stessa linea Mauro Rossini, dell’Associazione italiana di dietetica e nutrizione medica (Adi): «L’invasività a volte offende la condizione del paziente e il paziente stesso. La volontà suprema penso debba spettare al paziente o a chi gli sta più vicino». Alcuni parlamentari hanno voluto ricordare agli esperti, ossia a uomini di scienza che vivono la realtà del fine vita ogni giorno nelle corsie ospedaliere, che esistono letterature discordanti sui temi in discussione. Lo stesso presidente Mario Marazziti (Ds-Cd) ha sottolineato come la Commissione stia discutendo di Dichiarazioni anticipate di trattamento, non di Direttive anticipate. Sembra un gioco di parole, ma non è.
Sebbene il percorso legislativo sia solo alle battute iniziali, le prime audizioni risultano positive. Gli esperti confermano che in ogni trattamento sanitario la persona, anche se malata, deve essere posta al centro di ogni azione, previa informazione corretta e completa da parte dell’equipe medica non solo della diagnosi, ma anche della prognosi e delle alternative possibili di cura o assistenza. Gli obiettivi posti al centro del dibattito dall’iniziativa popolare dell’Associazione Luca Coscioni insieme a medici, infermieri e persone malate, sono quindi sostenuti anche dalle personalità audite in Commissione. Ora sta al Parlamento non perdere l’occasione per costruire e approvare una buona legge sul fine vita.
*Coordinatore campagna Eutanasia Legale

Corriere 11.3.16
Unioni e adozioni
Maternità surrogata, dubbi etici di natura economica
Più della libertà è la necessità a rendere disponibile una donna alla gravidanza per altri
di Giovanni Belardelli
qui
http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_11/maternita-surrogata-dubbi-etici-natura-economica-102e90aa-e6e5-11e5-877d-6f0788106330.shtml

Corriere 11.3.16
«Così è stato ucciso, lottava per vivere»
Delitto di Roma, le confessioni. «Prato travestito da donna»
Il giudice: «Fredda ideazione, pianificazione ed esecuzione di un omicidio efferato, preceduto da sevizie e torture, senza altro movente se non quello apparente di appagare un crudele desiderio di malvagità»
di Rinaldo Frignani

Il gip Riccardo Amoroso parla così dell’assassinio di Luca Varani. Ieri il fermo iniziale dei due killer, Manuel Foffo e Marc Prato, è stato trasformato in arresto. Quest’ultimo nel tragico festino era travestito da donna, con i tacchi a spillo.
ROMA  È un soldato il quarto uomo che ha partecipato al festino a base di cocaina e alcolici nell’appartamento di Manuel Foffo al Collatino.
Con il passare del giorni emergono con chiarezza nomi e ruoli dei partecipanti alla due giorni di sesso e violenza con lo stesso Foffo e l’amico Marc Prato. Nell’attico di via Igino Giordani sarebbero passati sette uomini: la vittima, Luca Varani, i due killer, uno spacciatore albanese, Giacomo (un romano residente a Milano, già interrogato nei giorni scorsi nel capoluogo lombardo), «Alex Tiburtina», come era memorizzato il nome del militare sul telefonino di Foffo, e un altro misterioso personaggio.
Ma c’è di più. Da ieri i carabinieri cercano una ragazza bionda, di 25 anni, che venerdì mattina alle 7 è stata vista parlare da altri giovani con Varani sul treno Viterbo-Roma: potrebbe essere stata l’ultima persona ad averlo visto vivo. Intanto è stato acquisito agli atti l’interrogatorio di Prato durante l’udienza di convalida del gip. «Sono andato a casa di Manuel martedì sera, con vestiti maschili e una borsa con una parrucca e altri abiti femminili — ha raccontato il pr —, questa volta la droga l’aveva comprata lui. Poi serviva altra cocaina ed è venuto Giacomo che abbiamo mandato via. Io mi sono vestito da donna e siamo andati a dormire. Mercoledì abbiamo usato altra cocaina — ha aggiunto Prato — e abbiamo chiamato Alex: ho avuto rapporti anche con lui ed è andato via giovedì mattina. Non avevamo l’idea di nessun omicidio, non se n’era mai parlato nei nostri deliri. Lui (Manuel) voleva che diventassi la sua bambolina, aveva anche il delirio di uccidere il padre. Quando aveva questi deliri — ha detto ancora Marc — io cercavo una terza persona. Così siamo usciti per cercare una “marchetta”, io sempre vestito da donna. Siamo andati a piazza della Repubblica, a Villa Borghese e a Valle Giulia, ma non abbiamo trovato nessuno. Non siamo andati in giro per uccidere. Non lo volevamo. Manuel voleva avere un rapporto estremo con lo stupro. Siamo tornati a casa alle 6.30 di venerdì mattina. Abbiamo chiamato Luca e gli abbiamo offerto 150 euro».
Il racconto di Prato continua con particolari agghiaccianti: «Quando è arrivato gli ho aperto la porta sempre vestito da donna, lui ha cominciato a drogarsi con noi. Io e Luca abbiamo iniziato a fare sesso e Manuel assisteva. Lui ha bevuto il drink e ha iniziato a stare male, è crollato. Lo abbiamo messo sul letto e Manuel mi ha detto “strozzalo”, io ho provato, ma Luca si è ripreso, mi ha scansato e non sono riuscito a fermarlo e a quel punto Manuel è impazzito è andato in cucina, ha preso un martello e ha cominciato a colpirlo, ho cercato di calmarlo inutilmente. Poi ha preso un coltello e lo ha colpito ancora ma Luca non moriva... Gli abbiamo messo una coperta sul viso per non vederlo, respirava ancora in modo affannoso. Non potevo più sopportare tutto questo. Manuel voleva essere baciato in testa per avere la forza da me per uccidere Luca. Non voleva farlo soffrire, voleva solo ucciderlo. Poi mi disse: “Questa cosa ci legherà per la vita”».

Corriere 11.3.16
Tacchi a spillo e smalto, poi il delitto «Il movente? Desiderio di malvagità»
Hanno provato a strozzare la vittima a mani nude: «Lui si batteva per rimanere in vita»
di Fulvio Fiano

Roma La «fredda ideazione, pianificazione ed esecuzione di un omicidio efferato, preceduto da sevizie e torture, senza altro movente se non quello apparente di appagare un crudele desiderio di malvagità».
Sono le parole con cui il gip Riccardo Amoroso descrive l’assassinio di Luca Varani e firma l’arresto — aggravando il fermo iniziale — di Manuel Foffo e Marc Prato. Solo le «importanti divergenze» nei racconti fatti dai due non permettono ancora di decidere sulle aggravanti della premeditazione, crudeltà e motivi abietti contestati dalla Procura. Le due versioni sono due film in cui regia e protagonisti hanno ruoli opposti. Anche su aspetti più marginali, ad esempio il perché Prato sia vestito da donna — con smalto, parrucca e tacchi a spillo — nei giorni trascorsi assieme.
Secondo Marc, Manuel negando la sua omosessualità, accettava di avere rapporti solo con il travestimento del futuro complice. La scintilla dell’omicidio nasce così in Foffo proprio durante un rapporto a tre con Luca, in cui Manuel interviene «dopo aver leccato i tacchi a spillo ed essersi fatto camminare sul corpo partecipando all’eccitazione sessuale». Racconta Prato: «Manuel era come impazzito mi ha chiesto prima di versare un farmaco nel bicchiere di Luca e poi dopo che questo aveva cominciato a stare male mi ha chiesto di ucciderlo: “Questo stronzo deve morire”, urlava in preda a un improvviso e insensato odio e repulsione verso Varani». Anche la ricerca di una vittima sarebbe nata per assecondare una fantasia di Manuel: «Voleva simulare uno stupro con un prostituto-maschio», dice Prato e non trovandolo nel loro giro in auto, i due chiamano Varani.
Fatta questa premessa, Prato spiega così la sua partecipazione al delitto: «Ero infatuato di Manuel e ho cercato di assecondare la sua follia omicida, obbedendo in modo passivo alla sua richiesta di strozzarlo». Marc dice di averci provato a mani nude «ma senza riuscire a stringere in modo da ucciderlo». Anzi, «Luca pareva voler combattere per rimanere in vita». A quel punto, mette a verbale Prato, affiancato dal suo avvocato Pasquale Bartolo, interviene Foffo e «in preda a una furia bestiale inizia a colpirlo con il martello in testa, adirandosi sempre di più per non riuscire, nonostante tutti i colpi, a provocarne la morte e chiedendomi ripetutamente di aiutarlo».
Nella versione di Prato il suo intervento è quasi un gesto pietoso per la vittima: «Ho iniziato a pensare che Luca era ormai in fin di vita e sarebbe stato meglio aiutare Manuel a portare a termine la sua azione omicida per evitare che soffrisse ancora». Insomma, riassume il gip, «secondo la descrizione di Prato, le plurime ferite e i colpi inferti tutti da Foffo non erano pertanto rivolti a provocare inutili sadiche sofferenze alla vittima, ma sarebbero stati tutti per uccidere e il conseguente accanimento di Foffo era dovuto soltanto all’incapacità di assestare dei colpi mortali».
Foffo, da parte sua, pur avendo «ricordi più frammentari», fornisce una «descrizione nettamente in contrasto» con quella di Prato. L’unico punto in comune è l’ammissione di aver agito assieme. «Non sono attratto dagli omosessuali e prima dell’arrivo di Luca, nei tre giorni trascorsi assieme, ho avuto con Marc solo un rapporto orale a causa dell’alcol e della droga che avevamo assunto» esordisce. Il travestimento da donna di Prato resta per Foffo «inspiegabile». Ma soprattutto è diversa, nel suo racconto, la genesi della decisione di uccidere. «Un’idea delirante — scrive il gip — maturata già il giovedì durante l’uscita in macchina in cerca di una vittima che si sarebbe poi tacitamente concretizzata quasi come un accordo tra loro alla vista di Luca nella mattina di venerdì». Una versione, questa, che poi Foffo ha parzialmente modificato nei successivi interrogatori, affiancato dall’avvocato Michele Andreano. L’ultimo ieri pomeriggio, in cui ha chiesto di poter chiarire al pm Francesco Scavo alcune dinamiche sui rapporti con il complice: «Mi sentivo minacciato da lui».
Il gip motiva la detenzione in carcere con la «gravità dei fatti emersi», «l’allarme sociale suscitato dalle loro personalità disturbate» e l’impossibilità di controllarne le reazioni. Prato «si sarebbe potuto rendere anche irreperibile, ove non avesse concretamente tentato il suicidio, tenuto conto della imprevedibilità delle reazioni emotive». Ed entrambi gli indagati «sono soggetti inaffidabili per i loro comportamenti irrazionali motivati dall’abuso di alcolici e stupefacenti».
Marc e Manuel sono due pericoli: «Le modalità raccapriccianti della loro azione omicida, l’efferatezza delle sofferenze inferte alla vittima prima di ucciderla sono indice di personalità disturbate, prive di sentimenti di pietà, e come tali pericolose, e quindi anche in grado di ripetere condotte analoghe, tenuto conto dell’inquietante individuazione della vittima in apparenza scelta a caso e selezionata non è dato ancora sapere in base a quali sue caratteristiche personali correlate all’età, sesso, orientamento sessuale, ceto sociale o altro».
Né si può «fare affidamento sui loro sensi di colpa, peraltro neppure manifestati, in nome di una presunta occasionalità di condotte violente deliranti e di una loro eccezionalità rispetto a un’apparente normalità del loro consueto stile di vita».

Repubblica 11.3.16
Soldi e violenza, la vita in bilico di Marco Prato che sognava di diventare donnaOmicidio Varani a Roma. Soldi e violenza, la vita in bilico di Marco Prato che sognava di diventare donna
I continui scatti d'ira, le scazzottate nei locali, una famiglia forse troppo distante. Il killer del 23enne massacrato al Collatino diceva di sentirsi Dalida la cantante italo-francese. Gli amici ora lo definiscono "bipolare"
di Lorenzo D'albergo
qui
http://roma.repubblica.it/cronaca/2016/03/10/news/omicidio_varani_a_roma_sogni_denaro_e_violenza_la_vita_in_bilico_di_prato_che_sognava_di_diventare_donna-135153779/?ref=HREC1-20

Repubblica 11.3.16
Viaggio nel palinsesto dopo lo stop del direttore generale Rai Campo Dall’Orto
“Basta parlare di delitti almeno la domenica pomeriggio”
Il circo della cronaca nera in tv e il dolore fa volare lo share
di Antonio Dipollina

LA REALTÀ, là fuori, fiorisce di delitti uno peggio dell’altro. E la tv esplode, vibra di racconti live, parenti accaniti, testimoni che accorrono ovunque ci sia una telecamera, avvocati, criminologhe in fiore, genitori dolenti, drammi pazzeschi e incontrollabili. E in questo baccanale il nuovo capo della Rai, Antonio Campo Dall’Orto, se ne esce dicendo nei giorni scorsi a Repubblica che no, almeno a “Domenica In” la cronaca nera deve sparire, e da subito, perché così non si fa: e sembra il segno di un cambiare verso, per dire, non solo per la singola trasmissione. Premesso che i rivali di Mediaset non si sono mai fatti scrupoli particolari sul tema, in Rai c’è vago sconcerto. Che fare? A “Domenica In” stanno meditando, e mancano poche ore ormai. Ma il resto dei programmi, non moltissimi, ma di gran peso e lungo chilometraggio su delitti e indagini, come vivono il momento?
LA VISIONE in questa settimana di ore e ore alle prese con Vespa, “Vita in diretta” e così via, rimanda una tale quantità di impegno, analisi e controanalisi, collegamenti, servizi minuziosi, deduzioni ed emozioni da paura. Ancora non hanno passato il Luminol sulle pareti — si fa per dire — e Vespa ha in studio il padre di uno dei ragazzi del delitto più atroce. Gli altri si scatenano ovunque. Ci sono quei dieci-quindici delitti sempre in piedi, magari il colpevole è lampante ma finché non arrivi al terzo grado di giudizio ci fai sopra televisione a valanga. Gli ascolti tengono benissimo, qualcuno brancola nel buio, la televisione no. Bisogna cambiare direzione? Andateglielo a spiegare voi, ma fate piano.
CONCORRENZA AGGUERRITA
Il senso sta per esempio nella prima ora, un’ora intera, della “Vita in diretta”, ieri. Cristina Parodi con qualche pudore li introduce come «gli aggiornamenti sui fatti di cronaca », senza aggettivi. La cronaca in questione è più nera della notte nera, in realtà: e parte una sventagliata da paura di collegamenti su quattro, cinque, sei casi più efferati in corso, Rosboch, Isabella Noventa, omicidio Varani e così via, e torna anche la povera Guerrina Piscaglia e il prete, tutti collegamenti o servizi esterni, parenti, aggiornamenti, novità brucianti (interviene all’improvviso Marco Liorni: «C’è un’ultima ora, Foffo ha chiesto di parlare con l’avvocato»). Vietato fare le anime belle, per di più dopo il decennio di Avetrana che tra parenti consenzienti e freaks assortiti ha demolito le resistenze di chiunque in tv: se Liorni e la Parodi facessero puntate intere sulle Onlus che fanno del bene, su Canale 5 la D’Urso caricherebbe i morti ammazzati a palla, farebbe il triplo di ascolti e il giorno dopo tutti ma proprio tutti direbbero che alla “Vita in diretta” sono fessi o quasi. Quindi bando alle accuse di morbosità, o almeno farle diventare qualcos’altro.
VESPA E IL PADRE DI FOFFO
Con le puntate di politica ormai ridotte a due o tre al mese (e a patto che ci sia Verdini in studio, almeno, per non far tramontare mai l’inquietudine e anche la paura nel pubblico) “Porta a Porta” vive ormai di show leggero e morti ammazzati, alternandoli con sapienza. L’altra sera, dopo vaghe polemiche (ormai non polemizza più nessuno davvero) Vespa si è anche rivolto alla telecamera: «Ma scusate, non dovevamo invitare il padre di Foffo? Ma siete impazziti?» («Ma siete impazziti» non l’ha detto, il senso però era quello). La sera in cui lo sventurato padre di tanto sventurato figlio era da Vespa però, è passata come memorabile. Insieme alle accuse del dopo («Vespa doveva fare così o cosà o il contrario e comunque non si fa così». Fine, appuntamento alla prossima ospitata-scoop), quella in onda è stata una rappresentazione agghiacciante di quelle che la fiction si sogna, e per il risultato televisivo tanto basta. E attenzione a come ormai su casi così clamorosi si muovono gli avvocati della difesa, a caccia di consensi e soprattutto per capire da subito l’effetto mediatico della strategia difensiva.
IL METODO CHI L’HA VISTO
Sono quelli di “Chi l’ha visto?”, nessuno li critica, vengono da una tradizione storica, hanno regole più ferree di altri. Lo sbarco nel bailamme delle indagini sui casi più clamorosi se lo sono conquistato prendendosi subito patenti di credibilità: l’altra volta la Sciarelli a un interlocutore reticente ha opposto una tremenda imprecazione live e tutti l’hanno presa come una cosa a cui avesse assolutamente diritto. In genere forniscono scoop e testimonianze che vengono poi riprese a pieni mani dagli altri programmi.
LA CARICA DELLE CRIMINOLOGHE
Gli studi Rai ormai brulicano di esperti. Con la qualifica fissa di criminologo passano molti personaggi, diretti discendenti della collaudata coppia femminile Bruzzone-Matone che impera da Vespa. Sul settore bionde, la criminologa è spesso tale, a “Domenica In” ne è sbucata una molto più leggiadra della Bruzzone, giovane e accattivante, Flaminia Bolzan. La sua pagina Facebook si chiama Logichecriminali, tutto attaccato. Poi ci sono avvocati del caso in questione e avvocati esperti generici e a un certo punto scatta il talk fra di loro: hanno un eloquio tipico del mestiere, possono inchiodarti per lunghi minuti dicendo «Qui siamo nell’àmbito di cautela» e si intuisce il pubblico a casa che guarda soggiogato. Ai talk di politica fuggono tutti al primo accenno di ragionamento minimamente complesso, qui l’àmbito di cautela acchiappa come nient’altro. Simonetta Matone, l’altra sera da Vespa, ha tentato l’inosabile: «Del delitto di Roma possiamo parlare quanto vogliamo, ma non riusciamo ad affrontare il vero tabù, quello di cui non parliamo mai: ovvero la cattiveria umana». Vespa l’ha guardata un po’ così, come a dire: ma lei s’immagini se faccio una puntata su quanto siamo cattivi. E comunque parli per lei.
STAR DEL PICCOLO SCHERMO
Nell’ultima “Domenica In” — forse anche l’ultima con cronaca nera dentro — è stata la protagonista, altro che testimone o esperta. Ingresso da star con gli applausi del pubblico in piedi, con Paola Perego un faccia a faccia degno di una grande attrice. Adesso ha anche imparato a dire che l’imitazione di Virginia Raffaele la diverte molto. L’impressione rimane purtroppo che, se potesse, le scatenerebbe contro una muta di cani feroci. Nell’intervista ha spiegato che tutto iniziò da bambina quando prese di petto papà e mamma che le raccontavano La Bella Addormentata, sostenendo: «Ma se ha dormito cento anni vuol dire che è morta!». Si intuiscono i genitori già commossi allora a immaginarla un giorno in tv e lei bimba che si addormenta sognando l’autopsia della Bella Addormentata. Comunque, una forza della natura.
Insomma, non sarà esattamente semplice. Mettere le mani in questo ginepraio appare impresa impossibile e magari anche immotivata: il punto è che a parte rari e controversi casi (vedi Franca Leosini, che però appena è uscita dalla terza serata, è andata in prima, ha squadernato condannati, si è presa un sacco di critiche) nessuno racconta più la nera in tv ma tutti la vivono live. Nello specifico, poi, un conto è depurare la vetusta “Domenica In” — che peraltro in quella parte dura poco, fa ascolti bassi, viene vissuta come parte dell’arredamento — un altro è dare un segno complessivo. Con il rischio per di più che il cambio per “Domenica In” venga vissuto come una cosa del tipo: non è bello svegliare quei — pochi — italiani dal pisolino post-prandiale e scodellare i delittacci. Ovvero il contrario di una cosa innovativa.

Corriere 11.3.16
Caso Regeni, invito egiziano
I pm romani volano al Cairo
Questa mattina il procuratore Pignatone ha ricevuto l’ambasciatore Amr Helmy che ha offerto collaborazione ai magistrati italiani: previsto «un incontro per informarli degli ultimi sviluppi investigativi» e per «individuare ulteriori modalità di cooperazione»
di Ilaria Sacchettoni
qui
http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/16_marzo_10/caso-regeni-invito-egiziano-pm-romani-volano-cairo-0c0dc5a2-e6bf-11e5-877d-6f0788106330.shtml

Repubblica 11.3.16
Una sola strada per il caso Regeni
di Carlo Bonini

INVITATI dalla procura generale egiziana per ordine del presidente Al Sisi, il procuratore di Roma Pignatone e il suo sostituto Colaiocco saranno dunque al Cairo per trasformare quella che sin qui è stata il simulacro di un’indagine congiunta sull’omicidio di Regeni in una cosa seria.
O, quantomeno, che cominci a somigliarle. È una buona notizia. Che non necessariamente è garanzia che la verità sia dietro l’angolo o che la sua ricerca avrà tempi rapidi, ma, certamente, che della ricerca della verità esistono ora presupposti non evanescenti. Qualcosa di più concreto e meno urticante della vuota enfasi delle insistite dichiarazioni affidate a una feluca di ambasciata a Roma, di “verità investigative” che suonavano solo come calunniose provocazioni e depistaggi, o ancora delle furbizie di chi sin qui aveva scommesso sul passare del tempo come soluzione alla crisi aperta tra i due Paesi.
C’è una seconda buona notizia. Quirinale, governo, Palazzo Chigi, Parlamento (maggioranza e opposizione insieme, per una volta non prigioniere di pulsioni cannibali come nel caso degli ostaggi in Libia), forti della spinta dell’opinione pubblica, possono oggi rivendicare con soddisfazione di aver costretto il regime di Al Sisi a dismettere il campionario di velenosa fuffa in cui aveva evidentemente pensato di annegare la questione. Ad aprire una fessura nel muro di gomma alzato il 3 febbraio scorso. Hanno compreso e fatto del “caso Regeni”, come è ragionevole attendersi in un Paese che non ha smarrito il senso di sé, una questione la cui posta in palio non è soltanto il composto dolore e la coraggiosa richiesta e ricerca di giustizia di una famiglia e dei suoi legali, ma una prova di dignità nazionale. A dispetto del rassegnato cinismo in nome del quale solo degli ingenui o degli sprovveduti potrebbero pensare di sacrificare sull’altare Regeni interessi a nove, dieci o dodici zeri (gas, banche, infrastrutture) o al cruciale ruolo strategico che in questo momento ha l’Egitto nella soluzione della crisi libica e nel contrasto a Daesh.
Detto questo, le buone notizie finiscono qui. Perché l’invito egiziano impegna anche l’Italia. E in modo molto diverso da quanto non sia stato sin qui. Dunque, per non trasformare l’arrivo al Cairo di magistrati competenti come Pignatone e Colaiocco e il lavoro di Ros dei carabinieri e Sco della polizia in un’ennesima photo opportunity, in un salamelecco, buono per i gonzi ed esiziale per la credibilità della nostra magistratura e dei nostri investigatori, oltre che per la ricerca della verità, sarà necessario che chi, a Roma, ha contribuito a dare alla vicenda Regeni un nuovo giro dimostri estremo rigore nei giorni, mesi, che ci attendono. Questo significa non avere paura della verità, piccola o grande che dovesse rivelarsi. Non acconciarsi a soluzioni pasticciate e soprattutto avere il coraggio, se dovesse essere necessario, se questa “fase due” dell’inchiesta dovesse cioè rivelarsi nei fatti solo il prolungamento di una melina durata già cinque settimane, di rovesciare il tavolo. Questa volta davvero. Pagando il prezzo che dovesse rendersi necessario. Nulla infatti risulterebbe più intollerabile agli occhi del Paese che quella che oggi viene salutata come “una svolta” per la verità, ne diventi la tomba con la complicità di chi la chiede. È una responsabilità che è sulle spalle del governo, del Parlamento, ora anche della Procura di Roma. In parte, anche di questo giornale, che ha fatto proprio con Amnesty l’appello per la verità sulla morte di Giulio e che non rinuncerà a continuare a fare l’unico mestiere che conosce. Non smettere di cercare e raccontare la verità dei fatti. Al Cairo, come a Roma.

Corriere 11.3.16
Profughi, arriva la frenata della Turchia
«Ne riprenderemo migliaia, non milioni»
L’Austria guida la protesta contro Ankara: sono inaffidabili
L’ira di Merkel per i confini chiusi nei Balcani
Roma e Berlino: attenti alle rotte in Libia e Albania
di Ivo Caizzi

BRUXELLES Dure critiche alla linea tedesca di offrire concessioni al controverso governo della Turchia per frenare i flussi di migranti diretti principalmente in Germania. Ma, nel Consiglio dei 28 ministri degli Interni a Bruxelles, per Italia, Spagna, Bulgaria e Romania è emerso soprattutto il rischio di dover fronteggiare masse di profughi deviati dalla rotta dei Balcani, chiusa con i controlli alle frontiere.
Austria e Ungheria, che hanno ripristinato severe verifiche ai confini, insieme al Belgio e vari Paesi dell’Est contestano alla cancelliera tedesca Angela Merkel l’affidabilità di una Turchia criticata a livello internazionale per le violazioni dei diritti fondamentali. «È molto discutibile che la Turchia, tre giorni dopo aver messo un giornale d’opposizione sotto il suo controllo, presenti una lista di desideri e sia gratificata con discussioni sulla liberalizzazione dei visti per l’Europa — ha protestato la ministra degli Interni austriaca Johanna Mikl-Leitner —. Mi chiedo se l’Ue stia buttando a mare i suoi valori». Nell’Europarlamento perfino il leader tedesco filo-Merkel del Ppe, Manfred Weber, ha respinto le richieste turche di accelerazione dell’adesione alla Ue e di liberalizzazione dei visti. Molti partiti sono contrari alla concessione alla Turchia dello status di «Paese sicuro» necessario per l’accoglienza dei rifugiati.
La cancelliera, insieme al premier greco Alexis Tsipras, ha attaccato Vienna e gli altri governi che hanno bloccato la rotta dei Balcani. «Le decisioni unilaterali dell’Austria e successivamente di altri Stati balcanici hanno messo la Grecia in una situazione insostenibile», ha detto Merkel. Tsipras ha richiamato il presidente del Consiglio Ue, il polacco Donald Tusk, perché aveva applaudito su Twitter proprio il blocco della rotta dei Balcani.
Italia, Spagna e altri Paesi hanno sollevato il problema delle rotte alternative al percorso balcanico. «Non bisogna mai dimenticare la rotta del Mediterraneo centrale, dalla Libia all’Italia, che deve essere un punto fisso dell’agenda dei Paesi europei», ha dichiarato il ministro degli Interni Angelino Alfano, citando anche il passaggio tra l’Albania e la costa adriatica italiana. «Stiamo dialogando con gli italiani per prevenire sviluppi simili», ha rassicurato il ministro degli Interni tedesco Thomas de Maizière, che vorrebbe l’appoggio di Roma per far passare l’accordo Ue-Turchia. La Commissione europea, varando altri 275 milioni di aiuti ai profughi, ha reso noto che l’agenzia Ue per il controllo delle frontiere Frontex ha lanciato l’allarme sulla «frammentazione delle rotte» dei migranti e sta lavorando «a piani d’emergenza». La Nato ha promesso l’invio di più navi nel Mediterraneo. Il commissario Ue per l’Immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, ha ammesso il fallimento del piano della Commissione per i ricollocamenti nella Ue dalla Grecia e dall’Italia, definendo indispensabile un ritmo di «6 mila rifugiati al mese» per affrontare l’emergenza. Ankara ha comunicato che non accetterà rimpatri fino a maggio e che saranno «migliaia», non «milioni». L’Onu ha ammonito che le deportazioni di rifugiati dalla Ue in Turchia violerebbero le leggi europee e internazionali. Sarà il summit Ue del 17 e 18 marzo a tentare un compromesso.

Corriere 11.3.16
Turchia
«L’harem era una scuola di vita»
Bufera sulla moglie di Erdogan
Attacchi in rete alla first lady turca che ha elogiato il gineceo ottomano come luogo di educazione
L'8 marzo il marito aveva detto: «Per me la donna è prima di tutto madre»
di Marta Serafini
qui
http://www.corriere.it/esteri/16_marzo_10/harem-era-scuola-vita-bufera-moglie-erdogan-ce4a6af8-e6ec-11e5-877d-6f0788106330.shtml

Repubblica 11.3.16
Paure, speranze: un dissidente racconta il suo Paese
Le mie due Polonie tra buio del regime e inizi di Primavera
di Karol Modzelewski

La forza della democrazia consiste tutta nel sostegno dei cittadini e dunque la democrazia crolla se viene meno il consenso dei cittadini sui princìpi e valori fondamentali della democrazia stessa. Lo scrivevo alcuni anni fa in un mio libro ed è quello che purtroppo è in atto oggi in Polonia: Diritto e giustizia, il partito al potere (e che fu già al governo alcuni anni fa), non condivide i
fondamenti della democrazia e sta assumendo un potere svincolato su tutte le istituzioni, non solo governo e parlamento ma anche sistema giudiziario, sistema amministrativo, polizia… Non è il fascismo, non è neppure il regime di Putin in Russia, ma è già un governo che vuole che la sua polizia e in primo luogo i “servizi speciali” possano agire senza più i controlli giudiziari di uno Stato di diritto. Assomiglia moltissimo al potere che si è instaurato in Ungheria con Orbán, e del resto il presidente di Diritto e giustizia Jaroslaw Kaczynski lo aveva dichiarato: «Spero che avremo Budapest a Varsavia». La sua tesi di fondo è che in Polonia, nell’89, a partire dalla tavola rotonda governo comunista/Solidarnosc, le prime elezioni semilibere, il primo governo non comunista del dopoguerra presieduto da Masowieski, non vi è stato affatto il crollo del comunismo e la nascita della democrazia bensì semplicemente un accordo tra l’élite post-comunista con l’élite post-Solidarnosc che ha portato alla formazione di un sistema oligarchico che ha trasformato l’economia e l’organizzazione sociale a scapito della “vera Polonia”, secondo le volontà dei governi occidentali e del capitale straniero. Ex comunisti e ex Solidarnosc in combutta e tutti ladri, questa la retorica che ha funzionato.
In questo patriottismo gioca ovviamente il fattore religioso, la Madonna è la regina della Polonia, ma per il partito di Kaczynski conta soprattutto padre Tadeusz Rydzyk e la sua Radio Maryja. Un vero e proprio movimento sociale strutturato, numericamente molto forte, radicato in moltissime parrocchie, e che trova la sua base di reclutamento nel mondo contadino ma anche in settori di quei ceti operai e popolari che prima della legge marziale avevano dato vita a Solidarnosc. Un movimento sociale di massa inquadrato nella Chiesa anche se non tutti i vescovi o preti ne sono entusiasti. La Chiesa cattolica in realtà dopo l’89 è diventata elemento del potere, ha imposto al parlamento la reintroduzione dell’insegnamento religioso nelle scuole, il divieto dell’aborto (tranne pochissimi casi estremi) e molte altre rivendicazioni confessionali. Insomma si è attivata per clericarizzare le leggi e le istituzioni. Intanto procede l’opera di smantellamento dello Stato di diritto. Non solo la funzione di garanzia della Corte costituzionale è stata annientata, ma il principio stesso di indipendenza della magistratura, con la fusione tra la funzione di procuratore generale e ministro della Giustizia. Ma dopo la giustizia toccherà, e anzi già tocca, a un altro pilastro della balance of power, l’informazione indipendente. Tutti i media pubblici sono passati sotto stretto controllo governativo, televisione e radio hanno visto cambiare dirigenti e conduttori, quelli di nuova nomina sono nei fatti commissari politici del partito Diritto e giustizia. E indirettamente, tramite il ritiro della pubblicità di imprese ed enti sotto influenza governativa, si è cominciato a strangolare la stampa indipendente.
Se la capacità dei partiti d’opposizione si dimostra per il momento risibile, la novità positiva è invece una forte e forse inaspettata mobilitazione e resistenza da parte della società civile. A fare da catalizzatore e strumento di autorganizzazione è stata internet, e in questo modo, spontaneo e senza leader, è nato il Comitato di difesa della democrazia che ha manifestato la prima volta il 12 dicembre, per protestare contro la soppressione di fatto della Corte costituzionale. Una manifestazione che ha destato stupore per l’ampiezza e per il carattere assolutamente “dal basso”, tramite il tam tam digitale, con cui era nata. Tra ventimila e cinquantamila persone, per una città molto più piccola di Roma e in un clima che sembrava ormai di definitiva apatia, è una cifra notevolissima. Da brevi interviste ai manifestanti che si sono viste in alcune tv e altri media, sono arrivato alla convinzione che il tratto più forte di questi manifestanti è la volontà di riappropriarsi della sovranità.
Un clima che non vedevo più in Polonia dal 1980-81. Davvero qualcosa di straordinario. Il loro bisogno di cittadinanza attiva, di esercizio della sovranità, costituisce una sorpresa importantissima. Questo movimento è oggi molto più importante dell’opposizione dei partiti in parlamento. Questo movimento spontaneo animato da cittadini comuni fa paura al governo che non può usare la retorica dei «comunisti, ladri, signore in pelliccia» contro chi protesta. Questo movimento può mettere radici? Diventare un “soggetto” stabile? Sinceramente non lo so. Non mi sembra che il crollo di Diritto e giustizia sia prossimo, ma anche questa resistenza civile non mi sembra un fenomeno passeggero.
Purtroppo la sinistra nella Polonia libera è stata dominata dalla formazione postcomunista, che si è prontamente convertita al modello di Blair e Schröder, cioè dei migliori allievi di Margaret Thatcher. Questa “sinistra” non ha fatto nulla per dare risposta alla frustrazione di massa di quei ceti popolari emarginati, quelle masse operaie orfane dell’industria socialista. La colpa delle sinistre del dopo ’89 è stata di occuparsi giustamente di dare strutture e istituzioni alle libertà democratiche, dimenticando però totalmente il problema dell’eguaglianza, che in democrazia è essenziale. Si è occupata della liberté, lasciando cadere égalité e fraternité! Ma senza eguaglianza e fratellanza che assicurino un grado sufficiente di coesione sociale la libertà diventa fragilissima, vulnerabile, a repentaglio.
Si è ripetuto come una giaculatoria che al piano liberista non c’erano alternative. È lo slogan dell’immensa e influentissima corrente neoliberista di pensiero che ha dominato gli Stati Uniti e l’Europa intera, e da questo punto di vista ovviamente si può dire che non esistesse alternativa. Ma l’alternativa esisteva, nel senso che ci sarebbe voluta una forza politica consapevole di un progetto diverso, con un peso elettorale capace di influenzare il corso delle cose. Questa forza avrebbe potuto imprimere gradualità alla trasformazione economica e alla riconversione delle aziende socialiste, dato che si trattava di un potenziale economico non competitivo sul mercato mondiale per avanzamento tecnologico e novità dei prodotti, ma comunque di un patrimonio notevole, che era possibile modernizzare. Purtroppo l’ideologia del cosiddetto Washington Consensus non contemplava una trasformazione progressiva in cui lo Stato potesse giocare un ruolo di “moderatore sociale”, ed è mancata una corrente culturale e politica all’altezza di questa sfida.
Ma i risultati in termini di diseguaglianza sono stati molto durevoli e profondi in tutti i paesi dell’ex impero sovietico. Quello che è successo in tutto questo mondo, e da noi in Polonia, è dunque in un certo senso un effetto secondario del “pensiero unico” di filosofia economica che domina in Europa, che caratterizza l’Unione europea. Una soluzione alternativa a questo modo di pensare era possibile, ma nessuno ha provato a percorrere tale via. E adesso ci troviamo di fronte alle conseguenze politiche che con quelle premesse economiche erano più o meno inevitabili, e infatti sono arrivate in Russia, sono arrivate in Ungheria, e arriveranno altrove.
(Testo raccolto da Paolo Flores d’Arcais e rivisto dall’autore)

Corriere 11.3.16
L’intervista al The Atlantic
Obama: «Fu un errore l’attacco in Libia nel 2011»
E su alcuni alleati europei: «Sono degli scrocconi»
Dure dichiarazioni quelle rilasciate dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel corso di una serie di interviste pubblicate dal The Atlantic
di Giuseppe Sarcina
qui
http://www.corriere.it/esteri/16_marzo_10/obama-fu-errore-attacco-libia-2011-alleati-scrocconi-2dbf69b6-e6de-11e5-877d-6f0788106330.shtml

Corriere 11.3.16
Presidenziali Usa
E l’outsider Bernie Sanders scivolò su Cuba
Nel confronto con Hillary Clinton, trasmesso dalla Cnn, il candidato sfidante à caduto goffamente sulla dittatura di Castro
di Giuseppe Sarcina
qui
http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_11/outsider-bernie-sanders-scivola-cuba-ef107ad0-e6fa-11e5-877d-6f0788106330.shtml

Corriere 11.3.16
Trump, le bistecche e la transustanziazione
di Massimo Gaggi

Un palco in stile presidenziale, circondato da bandiere a stelle e strisce. E a fianco un banchetto da televendite colmo di prodotti col marchio dell’immobiliar-populista che vuole arrivare alla Casa Bianca: vino, bistecche, riviste, acqua minerale, vodka. Donald Trump ha dato spettacolo, attirando l’attenzione con mosse non convenzionali in molti modi. L’altra sera è riuscito di nuovo a sorprendere tutti. Celebrava, in uno dei suoi resort in Florida, una vittoria squillante: la conquista con ampio margine del Michigan e del Mississippi. Bastava il palco presidenziale, ma lui aveva il dente avvelenato con Mitt Romney che lo aveva trattato da imprenditore fallito. E allora ha esposto la mercanzia mostrando al pubblico cose comuni nella vita di tutti: acqua, carne, vino. Evento politico trasformato in infomercial, hanno scritto i giornali americani: un caso discutibile (o agghiacciante, a seconda dei punti di vista) sotto almeno tre profili. Intanto per la molla che lo ha fatto scattare: Romney gli ha dato del misogino e del bullo, ma Trump si è offeso solo quando l’ex candidato alla Casa Bianca ha parlato dei suoi insuccessi imprenditoriali. E poi lo show sa di dimostrazione primitiva di potenza: la «roba» ostentata come trofeo davanti agli avversari. La terza questione ci è più familiare: poca sensibilità per i conflitti d’interessi (Trump, bontà sua, ha promesso che non ripeterà lo spettacolo da piazzista alla Casa Bianca). In realtà l’aspetto più grottesco è un altro: salvo il vino (viene da una vigna in Virginia gestita dal figlio, Eric), i prodotti mostrati non esistono: la Trump Vodka, un fallimento, è stata ritirata nel 2011. L’acqua, imbottigliata da altri e con la faccia di Trump appiccicata sopra, è disponibile solo negli alberghi, casinò e resort dell’immobiliarista. Le Trump Steak sono un esperimento finito in disastro diversi anni fa. E infatti, ingrandendo l’immagine, si scopre che la carne mostrata viene da una macelleria che, ironicamente, si chiama Bush Brothers. Anche il Trump Magazine, a suo tempo definita una rivista porno per ricchi, non viene più stampato da anni. E allora? Forse, suggerisce il New York Times, Trump pensa a una versione capitalista della transustanziazione: oggetti qualunque che diventano prodigiosi solo per il tocco di Donald. Non sarebbe male: Trump a Raqqa da presidente Usa e i ribelli dell’Isis che, davanti a lui, depongono le armi per andare a fare i croupier e i portieri d’albergo.

il manifesto 11.3.16
Amos Gitai L’omicidio che ha infranto il sogno del Medio Oriente
Amos Gitai parla di politica e altro in occasione della presentazione della sua mostra «Chronicle of an Assassination Foretold», la cronaca di un omicidio annunciato: quello del primo ministro Itzhak Rabin.
di Giovanna Branca

ROMA In Israele come in Europa stiamo vivendo dei tempi bui. «Da noi è più una tragedia territoriale, mentre qui da voi si tratta della tragedia dei profughi», dice Amos Gitai al Maxxi di Roma in occasione della presentazione della sua mostra «Chronicle of an Assassination Foretold», la cronaca di un omicidio annunciato: quello del primo ministro Itzhak Rabin.
Davanti a questi periodi di oscurità, dice il regista israeliano, gli artisti devono interrogarsi su come parlare per e del loro tempo. «Mi ha sempre interessato la presa di posizione degli artisti quando i loro paesi vengono trascinati in simili crisi», osserva Gitai che ha scelto la via del cinema proprio quando, racconta, si è trovato suo malgrado coinvolto nella guerra dello Yom Kippur. «Da ragazzo stavo per seguire le orme di mio padre, che è un architetto. Poi a 23 anni sono stato mandato in guerra: lavoravo su un elicottero di soccorso che è stato abbattuto da un razzo siriano. Così al mio ritorno ho deciso di dedicarmi al cinema come mezzo per pormi le domande necessarie e parlare di un paese che amo e con cui troppo spesso mi trovo in disaccordo». L’arte è infatti anche un compito civile, rispetto al quale secondo Gitai gli artisti europei si stanno rivelando un po’ «deboli, troppo assorbiti da problemi di forma».
La mostra e il suo ultimo film Rabin, the Last Day si confrontano invece con un evento che, a detta di Gitai, «ha decapitato tutte le nostre speranze e i nostri sogni per un diverso Medio Oriente, un evento accaduto 20 anni fa ma le cui conseguenze viviamo ancora oggi e che ha determinato trasformazioni che influenzano le dinamiche del mondo intero». Il progetto è nato circa tre anni fa, quando il regista e il suo gruppo di collaboratori ricorrenti – «io li chiamo il mio Kibbutz privato», dice Gitai – si interrogavano appunto su ciò che li rendeva particolarmente «infelici» del loro paese: «i continui toni razzisti, i tentativi del primo ministro di limitare la libertà di stampa, la chiusura ad Haifa, la mia città, dell’unico teatro arabo. E la sola figura politica che si sia mai veramente opposta a tutto questo ha perso la vita».
Così Gitai decide di interpellare la memoria di quell’uomo – «se gli ebrei non restassero ancorati alla memoria non esisterebbero», scherza – e inizia una ricerca sull’omicidio di Rabin.
La prima persona a cui si rivolge è il Presidente della Corte Suprema, a capo della commissione che indagò sull’assassinio. «Gli ho detto che non aveva fatto un buon lavoro – racconta Gitai – perchè si è occupato di smascherare le falle operative che hanno condotto alla morte di Rabin ma non il violento movimento di opinione che è la vera causa di quella morte. Così lui mi ha chiesto cosa potesse fare, e io gli ho detto di metterci a disposizione tutti i documenti di quella inchiesta».
Così, all’Archivio di Stato di Gerusalemme il regista trova quella che sarebbe stata la fonte principale del suo lavoro: il film come la mostra ma anche una rappresentazione teatrale. «Già in passato ho realizzato delle trilogie, ma questa è verticale – spiega Gitai – prima il film, poi la mostra e infine un’opera teatrale che andrà in scena ad Avignone, con la partecipazione dell’attrice palestinese Hiam Abbas, sul punto di vista della vedova di Rabin».

Repubblica 11.3.16
L’intervista.
Il 31 dicembre del 1991 l’Unione Sovietica cessò di esistere. “Fu una giornata terribile”, racconta l’ex presidente ottantacinquenne “Mi aspettavo una reazione del paese, ma non ci fu”
Il ricordo di Gorbaciov “Venticinque anni fa provai a salvare l’Urss ma Eltsin mi tradì”
di Fiammetta Cucurnia

MOSCA PROVATO nel fisico, ma sempre lucido, Mikhail Gorbaciov appoggia sul bastone il peso degli anni e delle sconfitte. Soltanto pochi giorni fa, il primo e ultimo presidente dell’Unione Sovietica ha festeggiato il suo 85esimo compleanno. Evento non comune in questo Paese dove pochi raggiungono una simile età. Ma tra i canti e i brindisi dei festeggiamenti non si avvertiva davvero un clima di festa. Sullo sfondo, ignorato, come un fantasma aleggiava il ricordo di un dramma mai dimenticato. Venticinque anni fa crollava l’Urss. «Brutti ricordi» dice Mikhail Gorbaciov, seduto nella poltrona del suo studio di Mosca, sul Leningradskij Prospekt.
L’Unione Sovietica cessò di esistere il 31 dicembre del 1991. Ma il suo certificato di morte fu firmato in Bielorussia l’8 dicembre di quell’anno dai presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, Boris Eltsin, Leonid Kravcjuk e Stanislav Shushkevic. Come trascorse lei quelle ultime ore dell’Urss?
«Si riunirono in totale segretezza nella dacia di Viskuli, nella foresta di Belovezh, con pochi fidati consulenti, come Egor Gajdar, che poi divenne primo ministro. Erano protetti dalle forze speciali. Fecero tutto in fretta e furia, lontano dagli occhi del mondo. Da lì non giungevano notizie a nessuno. Neanche a me. E chi avrebbe potuto informarmi, se il Kgb era con loro? Fu una giornata terribile. Pur senza notizie di prima mano, avvertivo l’enormità di quel che stava accadendo. La sera mi telefonò Shushkevic per comunicarmi la fine dell’Urss e la nascita della Comunità di Stati Indipendenti. Boris Eltsin aveva già informato il presidente americano George Bush. Al telefono ebbi l’impressione che l’accordo non fosse del tutto convincente neppure per i suoi stessi autori. Decisi che non era ancora il momento di arrendersi. Del resto erano mesi che lottavo».
Sapeva che l’epilogo sarebbe stata la dissoluzione?
«Come potevo ignorare il rischio che incombeva su di noi? Dal giorno del mio ritorno dalla Crimea dopo il golpe di agosto non avevo fatto altro che tentare di ricucire uno straccio di Trattato per rifondare l’Unione. Con le Repubbliche che ci volevano stare. Alle loro condizioni. Anche senza di me. Almeno una parte. Certo non i Baltici, che avevano già deciso. Trattative su trattative, bozze di accordo su bozze di accordo per cercare di tenere insieme il Paese. L’Ucraina non partecipò, soprattutto dopo il referendum sull’autonomia, rifiutava ogni incontro. Ma io mi ostinavo caparbiamente a tentare ogni carta. Ero convinto che se la Russia, la Bielorussia e gli altri avessero firmato, in qualche modo anche Kiev avrebbe aderito. Eltsin continuava a dire “l’Unione ci sarà”. Ma aveva ben altre intenzioni».
Com’era il suo rapporto con Eltsin?
«In quell’ultimo mese ci vedevamo o almeno ci sentivamo ogni giorno. Si parlava di tante cose, ma la questione principale restava sempre quella, salvare il Paese. Ricevevo telefonate dai leader stranieri, Bush, Kohl, John Major, dalle quali trapelava un’inquietudine crescente. Ero assediato dalla stampa. Ma Eltsin prendeva tempo. Cominciai a rendermi conto che era molto più furbo e infido di quanto avessi immaginato. Si copriva dietro al rifiuto ucraino. Invece di assumersi la responsabilità delle sue decisioni di fronte al Paese che — e lui lo sapeva — non voleva assolutamente la dissoluzione dell’Urss, usava l’Ucraina come scudo. “Senza l’Ucraina non c’è Unione” diceva. E poi: “Che si fa se Kravcjuk non accetta?”. Alla vigilia dell’incontro bielorusso, lo ricordo bene, gli dissi “Boris, sull’Urcaina non mollare. Ci sono milioni di russi che vivono lì, c’è la Crimea, non sia mai”. “Ma con Karvcjuk non può parlare..”, rispose. Strano che Eltsin sia ricordato come un uomo coraggioso. Non lo era. Si faceva forte degli altri, della folla che lo circondava... un demagogo. Quando tornò dalla Bielorussia lo chiamai io, perché non veniva. “Non posso” mi disse “qui sotto ci sono molte macchine, c’è gente. Non so se è sicuro muoversi”. Aveva paura».
Alla fine del 1987, dopo una violenta critica contro il partito e contro di lei, Eltsin fu allontanato dal Comitato Centrale del Pcus e dalla guida del Partito di Mosca. Perché lei decise di nominarlo ministro invece di renderlo inoffensivo, quando ancora poteva, nominandolo, magari, ambasciatore in Mongolia, come avrebbero fatto i suoi predecessori?
«Se ti guardi indietro, la vita è piena di errori. Ho sbagliato. Non ho visto quello che poteva accadere. O, almeno, questo ho pensato per molti anni. Oggi non lo so più, forse le cose sono andate come dovevano andare ».
Lei si dimise solo il 25 dicembre del 1991 «Nei 17 giorni che seguirono gli accordi di Belovezh mi aspettavo una reazione degli intellettuali, della gente. Certo, il Paese era sotto choc. Nessuno comunque scese per strada. Sembrava quasi che le sorti dell’Urss fossero un problema soltanto mio. Non ci fu un ukaz per destituirmi. Lo decisi autonomamente. Salutai i leader stranieri, parlai al Paese e me ne andai».
Che cosa pensa oggi di Putin?
«Rimprovero a Putin la lentezza del processo democratico. Perché è vero che molte delle libertà civili introdotte con la perestrojka resistono e che la stragrande maggioranza dei russi ha votato per Vladimir Putin. Ma nessuno sa quale sarebbe la loro scelta se l’intero processo elettorale, dalla selezione dei candidati in poi, fosse davvero libero e democratico ».
Dopo l’annessione della Crimea e l’intervento in Siria lei pensa che Putin abbia mire imperialiste?
«Questo no. Innanzitutto in Crimea c’è stato un referendum che ha stabilito la volontà dei cittadini. Inoltre la Crimea è Russia, e sfido chiunque a dimostrare il contrario. In Siria, poi, contro il terrorismo, la Russia ha fatto il suo dovere».

Corriere 11.3.16
«I fiori del male». Storie di donne in manicomio
Loquace, smorfiosa, stravagante. E ancora: petulante, civettuola, capricciosa, nervosa, irritabile.
Sono alcuni dei motivi per cui le donne finivano in manicomio. A Teramo la mostra «Cose da pazze»
di Elvira Serra
qui
http://27esimaora.corriere.it/articolo/i-fiori-del-male-storie-di-donne-in-manicomio/

La Stampa 11.3.16
Amici comunisti così tradite voi stessi
Una lettera inedita del 1956. Rispondendo alla madre di Pajetta, dopo la repressione sovietica in Ungheria, il filosofo anticipa la dura critica che articolerà vent’anni dopo inQuale socialismo
di Luigi La Spina

È un anno drammatico il 1956 per la sinistra italiana. La rivolta degli ungheresi contro il regime filosovietico di Budapest e la repressione dei carri armati russi che la schiacciò brutalmente provocarono un profondo turbamento non solo tra le file del Pci, ma lacerarono quel rapporto di solidarietà, nonostante le profonde diversità politiche, tra comunisti e liberaldemocratici intessuto durante la Resistenza contro il nazifascismo e proseguito nei primi anni del dopoguerra. Una rottura che, pur nel rispetto di persone che si frequentavano da sempre, che avevano condiviso speranze e ideali comuni, non attenuò minimamente la durezza di uno scambio di accuse severe e di giudizi impietosi.
A sessant’anni di distanza, le lettere inedite che qui pubblichiamo, tratte dall’archivio di Bobbio conservato al Centro Gobetti di Torino, scritte da Elvira Pajetta (la madre dei tre fratelli Giancarlo, Giuliano, Gaspare) e da Norberto Bobbio documentano, con una straordinaria efficacia simbolica e con toccanti accenti di profonda sofferenza umana, quella importante e definitiva frattura, intellettuale, politica e morale, tra i due filoni principali del campo di sinistra nell’Italia del Novecento, quello marxista e quello liberaldemocratico.
Per comprendere il clima nel quale avviene questa corrispondenza tra Elvira, maestra elementare ormai settantenne e madre di una famiglia comunista provata, ma mai doma, da vicende tragiche, protagonista di un pezzo importante nella storia del Pci, e Bobbio, l’intellettuale azionista di maggior prestigio nella seconda metà del secolo scorso, ci soccorre Franco Sbarberi. Professore di filosofia politica, sarà lui, con Aldo Agosti, a presentare lunedì il libro che la nipote di Elvira Pajetta, la figlia di Giuliano che porta proprio il nome della nonna, ha scritto per ricordare una straordinaria saga familiare.
«Bobbio e Giancarlo Pajetta», ricorda Sbarberi, «erano entrambi allievi del liceo D’Azeglio e si conoscevano bene, anche se distanziati di qualche anno d’età. Proprio il necrologio che Bobbio scrive sulla Stampa nel 1990, per la morte di Giancarlo Pajetta, parla del suo rimorso per il silenzio con il quale, nel 1927, gli studenti di quel liceo reagirono all’espulsione per tre anni da tutte le scuole d’Italia e alla condanna alla reclusione del loro compagno accusato di professare e di propagandare idee comuniste». Gli anni della Resistenza e quelli del dopoguerra avvicinano le due famiglie torinesi, ma prima la pubblicazione nel 1956 di Politica e cultura, il volume con il quale Bobbio comincia la sua lunga e puntuta critica al comunismo, e poi, in maniera drammatica, i cosiddetti «fatti d’Ungheria» sono destinati a scavare, pur nel rispetto reciproco e nella stima personale, una distanza politica e culturale profonda tra di loro.
«A Torino», rammenta Sbarberi, «c’è una reazione particolare agli eventi ungheresi, stimolata proprio dalla polemica Bobbio-Togliatti seguita a Politica e cultura e dal saggio sullo stalinismo pubblicato su Nuovi argomenti nell’estate del ’56, nel quale Bobbio sviluppa quella critica che, vent’anni dopo, in un periodo completamente diverso, avrà grande eco anche in un vasto pubblico con il libro Quale socialismo.
«L’importanza di questa lettera di Bobbio a Elvira Pajetta», nota Sbarberi, «consiste nell’evidenza con la quale si espongono, sia pure in sintesi, con vent’anni d’anticipo, tutti i famosi sette punti sui quali si fonda la dura critica al comunismo contenuta proprio nell’einaudiano Quale socialismo».

La Stampa 11.3.16
“Perché non avete gridato di fronte ai carri armati?”
di Norberto Bobbio

Cara Signora Pajetta,
La ringrazio del libro di suo figlio che ho cominciato a leggere con vivissimo interesse, e di questa una sua testimonianza di amicizia che mi è particolarmente gradita. Mi è grata, lei lo sa, perché ho sempre stimato e stimo tuttora coloro che hanno combattuto, sofferto, affrontato valorosamente la «durezza» di quegli anni.
E li stimo tuttora proprio perché sono convinto che non hanno combattuto e sofferto solo perché Stalin potesse consumare impunito i suoi delitti, e gli abbietti governanti di oggi dell’Unione Sovietica potessero schiacciare nel sangue la rivolta ungherese in nome del socialismo e della pace.
Ma proprio perché io e gli amici che la pensano come me siamo convinti che voi avete combattuto e sofferto per una società migliore e non certo perché potesse trionfare nel mondo un regime in cui la lotta per il potere è condotta unicamente con la violenza e con la frode, in cui capo diventa colui che riesce a impadronirsi delle forze di polizia e appena giunto al potere chiama banditi e traditori i suoi compagni di ieri, attendevamo, noi che siamo stati vostri compagni minori in quegli anni e avevamo fiducia in voi, un grido di rivolta.
Perché non avete gridato? E che cosa aspettate a denunciare l’orrenda mistificazione dei vostri ideali perpetrata dai sanguinari despoti di ieri e di oggi? Non che udire il vostro grido di rivolta, non abbiamo visto le vostre menti sfiorate neppur da un’ombra di dubbio. E come? Potete davvero pensare che il socialismo, che significa emancipazione, possa essere imposto coi carri armati? Potete davvero credere che una nazione abbia il diritto di dominarne un’altra, riconoscere che gli enormi errori commessi nei dodici anni di dominio hanno suscitato la rivolta e poi, invece di correggere gli errori, soffocare la rivolta nel sangue? E questo è il modo di reggere i destini dei popoli soggetti degni di una nazione civile, di uno Stato socialista? E questa è la lotta per la pace dell’Unione Sovietica? Non sentite il suono sinistro che hanno parole belle e nobili come socialismo e pace in bocca a quelli avventurieri?
Avete tante volte rimproverato ai liberali, e a ragione, che non si può essere buoni liberali se non si accetta la libertà come un ideale morale, e la si adopera come un mezzo buono o cattivo a seconda delle circostanze. Permettete ora di rispondervi che non si può essere buoni socialisti se non si accetta il socialismo come ideale morale e si è disposti ad accettare in suo nome tutte le turpitudini che vengono commesse dai vecchi e nuovi capi dell’Unione Sovietica.
Vorrà perdonarmi questo sfogo. Ma non riesco a capire, non riesco assolutamente a capire la rigida fedeltà al partito, alla chiesa, alla setta, alla fazione (la fedeltà del fanatico) sino al sacrificio dei principi per i quali si è combattuto tutta la vita. Oltretutto sono convinto che questa obbedienza senza limiti in cui si è chiuso il vostro partito non possa portare altro che lutti e rovine al movimento operaio italiano.
Accolga i miei devoti e cordiali saluti e mi creda suo dev.
Norberto Bobbio

Corriere 11.3.16
Desiderio
Niente sesso, siamo asessuali
Chi sono quelli della «categoria X»
Si innamorano e fanno sesso, ma non ne sentono la necessità: secondo alcune stime fa parte di questo orientamento sessuale una percentuale dall’1 al 10% degli italiani
di Greta Sclaunich
qui
http://www.corriere.it/cronache/sesso-e-amore/notizie/asessuali-italia-no-sesso-5ec10dd4-db9f-11e5-b9ca-09e1837d908b.shtml

Corriere 11.3.16
Arte
Giuseppe Novello: l’arte della vignetta
Umorismo, talento e stile
La Galleria Ponte Rosso di Milano dedica all’artista Giuseppe Novello (1897-1988),
uno dei più raffinati umoristi del Novecento, una mostra con cinquanta tavole originali
di Gian Antonio Stella
qui
http://www.corriere.it/cultura/16_marzo_10/giuseppe-novello-vignetta-mostra-milano-stella-90ab20f8-e6d7-11e5-877d-6f0788106330.shtml

il manifesto 11.3.16
Iside, la dea cosmopolita
Mostre. Al museo egizio di Torino, la rassegna «Il Nilo a Pompei» rovescia la prospettiva e sono le antichità romane che si richiamano al mondo dei faraoni a diventare del tutto esotiche
di Valentina Porcheddu

TORINO Nell’alveo del Nilo è impressa l’origine di un popolo splendente, che sulle acque del grande fiume cullava vita e morte. «L’Egitto fu il dono del Nilo», scrisse Erodoto nel V secolo a.C. e non stupisce che gli antichi egizi posero il fiume sotto la protezione di Api, dio dalla pelle azzurra e fiori di loto svettanti sul capo. Degli influssi che la terra d’Egitto ebbe nel pensiero e nell’arte del mondo greco-romano, ci parla Il Nilo a Pompei. Visioni d’Egitto nel mondo romano, rassegna promossa dalla Fondazione museo delle antichità egizie di Torino con la soprintendenza Pompei e il Museo archeologico nazionale di Napoli, prima tappa del progetto Egitto-Pompei che proseguirà tra la primavera e l’autunno nelle sedi campane. Visitabile fino al 4 settembre nel nuovo spazio espositivo di seicento metri quadri al terzo piano del rinnovato museo egizio, la mostra – a cura di Alessia Fassone, Christian Greco e Federico Poole – illustra la diffusione della cultura egizia nell’area del Mediterraneo, tema che potrebbe sembrare nient’affatto originale ma che acquista valore per l’approccio contrastivo adottato dai curatori, egittologi e non specialisti di archeologia classica.
Un potere globale
Nel quadro di un museo dedicato alla civiltà dei faraoni, la prospettiva viene dunque rovesciata e sono le antichità romane di soggetto egizio a diventare esotiche. L’allestimento, ideato dall’architetto Lorenzo Greppi, non è particolarmente suggestivo ma ha il pregio di disporre le opere in un percorso senza fronzoli, che esalta l’estetica dei trecento oggetti – provenienti da venti musei italiani e stranieri – nella loro semplice e pregnante bellezza. È il Nilo ad accogliere da subito il pubblico, che si ritrova a navigarci sopra calpestando un pavimento «cartografato». Anche la parete sinistra del corridoio d’ingresso alle sale si trasforma, grazie a una video proiezione, in riva accarezzata dal vento. Sulla stessa «sponda» si distingue una targa in memoria di Khaled Al-Asaad, storico direttore del sito archeologico di Palmira e d’ora in poi custode delle esposizioni temporanee che si avvicenderanno al museo egizio, per ricordare che alla barbarie dell’Isis si risponde coltivando il sapere e l’incanto. Dalla greca Alessandria a Pozzuoli passando per l’isola di Delo, le Visioni d’Egitto si articolano in nove sezioni, sullo sfondo di un mar Mediterraneo già globalizzato in cui transitavano uomini, merci e dèi. Il cammino di Osiride collega inoltre le collezioni permanenti alla mostra, incentrata sul culto di Iside. Secondo la narrazione del mito nei Moralia di Plutarco, fu lei a ricomporre le membra del consorte Osiride, fatto a pezzi e gettato nel Nilo dal fratello Seth per la contesa del trono. Emblema della trasmissione del potere regale durante la monarchia dei faraoni e detentrice di prerogative salvifiche, al tempo dei sovrani Tolomei Iside divenne una dea cosmopolita, il cui potere magico finì per prevalere sul resto.
Ricostruzioni immersive
Venerata in tutto il Mediterraneo orientale, entrò nel pantheon di Roma in epoca repubblicana, attraendo adepti di tutti gli strati sociali e assumendo quella connotazione misterica che Apuleio eternerà nell’Asino d’oro con l’iniziazione di Lucio. Numerose statuette esposte a Torino, alle quali si accompagnano le rappresentazioni di Horus, Api, Arpocrate, Bes e Serapide, riflettono questa doppia natura, egizia e greco-romana. Ma a immergere il visitatore nel fascinoso mondo dei culti orientali è soprattutto la ricostruzione delle ambientazioni di due importanti santuari, l’Iseo di Benevento e il Tempio di Iside a Pompei. Del primo – conosciuto solo attraverso fonti epigrafiche – viene presentato l’arredo scultoreo in stile faraonico, nel quale spicca una statua in diorite dell’imperatore Domiziano che indossa il nemes (copricapo del faraone) con il serpente ureo sulla fronte e il gonnellino schendyt. Più ricco il contesto pompeiano, di cui viene proposta una serie di splendidi affreschi con scene di culto che hanno per protagonisti – assieme a sacerdoti officianti – Arpocrate e Anubi, l’unico degli dèi a testa animale dell’antica religione faraonica a esser recepito fuori dall’Egitto.
Capolavoro pittorico capace di rapire lo sguardo per la raffinatezza dei tratti è un affresco che adornava il cosiddetto ekklesiasterion, l’ampia sala dell’Iseo pompeiano destinata a banchetti e riunioni. Il dipinto mostra l’arrivo di Io – la fanciulla mutata in giovenca da Era per aver avuto una relazione amorosa con Zeus – portata in spalla dalla personificazione del Nilo (o, secondo una recente interpretazione, del Mediterraneo) a Canopo, nel delta nilotico, accolta dalla Iside locale. In secondo piano, due sacerdoti agitano sistri, strumenti musicali sacri alla dea. Il tempio di Iside fu uno dei primi monumenti di Pompei – era il 1764 – a essere scoperto. Lo spoglio della decorazione parietale suscitò l’immediata disapprovazione di William Hamilton, ambasciatore inglese presso la corte napoletana. A provocare sconcerto presso i contemporanei fu anche il rinvenimento, fuori dal tempio, dei resti di sacerdoti fuggiaschi che, abbandonando il santuario, diedero prova della decadenza in cui gettava la pratica dei culti orientali. Malgrado ciò, nel XIX secolo il tempio di Iside continuò a sedurre artisti e scrittori, e trovò posto nel celebre romanzo di Bulwer-Lytton The Last Days of Pompeii (1834).
Lusso orientale
È ancora il principale sito campano sepolto dall’eruzione del 79 d.C., a svelare a Torino le storie emerse dai lapilli. Nella seconda parte dell’esposizione, dal titolo Il Nilo in Giardino, vengono offerti sia i favolosi affreschi della Casa del Bracciale d’oro, il cui orizzonte blu-egizio libera uccellini, maschere teatrali e faraoni mignons, sia una serie di aegyptiaca e statuette di marmo dalla casa di Octavius Quartio. A quest’ultimo gruppo appartiene una piccola sfinge maschile, la quale – sulla base di altri elementi d’ispirazione egizia rinvenuti nella domus – ha fatto credere ad alcuni studiosi che il proprietario fosse devoto a Iside o affetto da egittomania. In realtà, come scrive Eva Mol nel bel catalogo edito da Franco Cosimo Panini, «quello che colpisce soprattutto della cultura materiale di tipo egiziano presente nella decorazione dei giardini è (…) l’importanza del suo ruolo all’interno delle complesse dinamiche dell’ostentazione del lusso e dell’esibizione dello status sociale all’interno della casa romana».
Sempre nel catalogo, un interessante saggio di Valentino Gasparini sul culto di Iside nelle dimore di Pompei e Ercolano, dà luce alle raffigurazioni di Iside kourotrophos o lactans, associate in una curiosa vetrina a una Madonna allattante il bambino del XV secolo. La rassegna – che si avvale anche della collaborazione dell’Istituto Ibam di Catania per le animazioni in 3d – si chiude con un focus sul sito piemontese di Industria, importante snodo commerciale dell’Italia del Nord noto per le officine di lavorazione del bronzo. Qui sono stati rinvenuti alcuni bronzetti che rappresentano dèi del pantheon egizio. Magnifica, di questo corredo, l’applique con testa di sacerdote cinta da turbante. Il Nilo fa dunque un lungo periplo, nello spazio e nel tempo, e si direbbe che non smetta di alimentare quell’immaginario che fu dei poeti e dei filosofi greci così come dei cittadini del multietnico impero romano. Potesse nuovamente unire le due sponde mediterranee un fiume benevolo, assieme a divinità scevre di guerre.
SCHEDA
Nato nel 1824, il museo egizio di Torino è il più antico museo dedicato alla civiltà sviluppatasi sulle rive del Nilo e vanta l’onore di custodire la seconda collezione di antichità egizie del mondo nonché la più importante al di fuori dell’Egitto. Nel 2015, l’istituzione torinese è riuscita a scalare le classifiche del Mibact, posizionandosi con quasi ottocentomila presenze a undici mesi dalla sua riapertura, in settima posizione fra le aree archeologiche e i musei italiani più visitati.
Un successo raggiunto grazie a un progetto quinquennale di rinnovamento da cinquanta milioni di euro, portato avanti dalla Fondazione museo delle antichità egizie di Torino insieme alla Regione Piemonte, alla Provincia di Torino, alla città di Torino, alla Compagnia di San Paolo e alla Fondazione Crt. Un esperimento, il primo nel nostro paese, di gestione museale col sussidio dei privati, ai quali lo Stato ha concesso in uso per trent’anni le collezioni. Ma tale traguardo è dovuto anche a un progetto scientifico di altissima qualità che, sotto la direzione di Christian Greco, ha posto la ricerca come motore per la valorizzazione dell’attuale allestimento, favorendo inoltre il ritorno del museo in Egitto con una missione congiunta italo-olandese nel sito di Saqqara.
L’attività svolta dal dipartimento scientifico del museo egizio e dal talentuoso ed efficiente staff del settore comunicazione si riflette in un’esposizione moderna, suggestiva, rivolta sia a un’utenza colta sia a coloro che – a partire dai più piccoli – vogliono avvicinarsi a un passato misterioso e da sempre ammaliante. Nei circa diecimila metri quadri di spazio distribuiti su cinque piani, sono esposti oltre tremila oggetti che raccontano non solo la storia di un popolo ma anche quella del museo e delle donne e degli uomini – come Erminia Caudana, Ernesto Schiaparelli e Bernardino Drovetti – che hanno reso possibile una straordinaria avventura.
L’attenzione per la ricostruzione dei contesti di rinvenimento – che ha il suo apice nella Tomba degli ignoti e in quella di Kha e Merit – è una delle cifre peculiari di un museo dove la dignità dei reperti e del lavoro degli archeologi è condizione imprescindibile. Dignità è anche una delle parole chiave utilizzate da Christian Greco mentre parla al suo pubblico attraverso l’audio-guida compresa nel prezzo del biglietto. Una sensibilità rara eppure necessaria. La stessa che ha permesso la dedica al ricercatore Giulio Regeni della sala di Deir el-Medina, in cui si conserva il «papiro dello sciopero». I musei non sono mondi a sé, ma del mondo – anche presente – sono parte integrante. «Vogliamo essere un luogo vivo», dice la presidente della Fondazione museo delle antichità egizie Evelina Christillin. Un sogno che è già realtà.

La Stampa 11.3.16
Bellocchio, Andò, Virzì in corsa verso Cannes
Sono i tre registi italiani con maggiori chance per entrare a far parte della kermesse francese

Sono queste le settimane cruciali in cui i selezionatori del Festival di Cannes (11-22 maggio) vedono, in gran segreto, i film che aspirano alla prossima edizione della kermesse. Tutto è possibile, e così la ridda delle voci diventa inarrestabile. Sul fronte italiano i tre titoli che continuano a circolare con insistenza sono Fai bei sogni di Marco Bellocchio, La pazza gioia di Paolo Virzì e Le confessioni di Roberto Andò. Tutti e tre pronti, salvo ultimi ritocchi voluti dagli autori, e tutti e tre non ancora annunciati nell’elenco delle uscite dei prossimi mesi. Insomma, i film papabili per la kermesse francese aspettano di essere visionati e, solo in base a quel responso, i distributori decideranno la loro sorte.
Su Fai bei sogni, tratto dal best seller di Massimo Gramellini, con Valerio Mastandrea, Fabrizio Gifuni, Barbara Ronchi e l’eroina di The Artist Berenice Bejo, in tanti sono pronti a scommettere. Gli ingredienti ci sono tutti, valore dell’opera, cast prestigioso e, dietro la macchina da presa, un maestro indiscusso, tra i prediletti del Festival.
A rafforzare l’idea che La pazza gioia possa essere invitato in Costa Azzurra c’è lo spostamento della data di arrivo nei cinema. In un primo tempo il periodo doveva essere più o meno questo, poi si è saputo che il film uscirà a maggio, nell’arco delle due settimane in cui si svolge la manifestazione. Così adesso c’è chi si chiede se Virzì, insieme alle protagoniste Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, apparirà o meno sulla mitica Montee des Marches. Buone probabilità anche per Le confessioni di Roberto Andò che riporterebbe a Cannes Toni Servillo, stavolta nei panni di un monaco misterioso, alle prese con le diverse facce del potere.
Tra le grandi firme internazionali, pronte ad affrontare il giudizio della giuria capitanata da George Miller, spiccano quelle di Martin Scorsese con Silence, sul tema molto attuale delle persecuzioni religiose, e di Pedro Almodovar che potrebbe fare la sua rentrée sulla Croisette con il drammatico Julieta. [F. C.]