il manifesto Alias 27.3.16
«Posso morire, io, un cristallo?». Tornano i «Diari» di Klee
I
«Diari» di Klee riproposti dal Saggiatore nella sua vecchia edizione
1960. 1898-1918: profonda passione teorica, musica-colore, crolli
esistenziali come la morte in guerra dell'amico Franz Marc
di Massimo Romeri
In
una conferenza tenuta alla Kunstverein di Jena nel 1924 Paul Klee
paragona l’artista al tronco di un albero, tormentato, scosso dalla
possanza dei fluidi che penetrano attraverso le radici, «e come la
chioma dell’albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e
nel tempo, così avviene con l’opera». L’immagine dell’albero sta a
significare due cose: il legame saldo con il mondo, con il presente, e
il ruolo dell’artista come mediatore della realtà. La sua attività si
spiega bene con questa metafora: è tanto legata alla propria vita,
quanto tende a recepire regole universali. Klee, il suo corpo, le sue
vicende personali, sono uno strumento conoscitivo.
Lo si
percepisce nei suoi Diari 1898-1918, pubblicati postumi a cura del
figlio Felix nel 1957, e di cui il Saggiatore ripropone ora la prima
edizione italiana, datata 1960 (pp. 418, euro 29,00), con la bella
prefazione di Giulio Carlo Argan e una nuova introduzione di Hans Ulrich
Obrist – ma è di soli quattro anni fa l’edizione ritradotta, e
integrata, per Abscondita (traduzione di Angelica Tizzo, postfazione di
Elena Pontiggia e appendice iconografica).
I ricordi dell’artista,
numerati progressivamente, si leggono d’un fiato. Si sente crescere,
dall’1 al 1134, la profonda passione teorica, che coincide con una
graduale mutazione stilistica: le frasi si spezzano, la consapevolezza
del proprio ruolo aumenta, le letture si succedono una all’altra e
vengono meticolosamente annotate. Quelle che ci si aspetta: Gor’kij,
Nietzsche, Zola, Poe, Gogol’, Voltaire…; e i classici: Aristofane,
Plauto, Tacito, Platone e il Simposio di Senofonte, «tra le cose più
belle dell’arte antica», per la grazia degli scherzi e delle azioni, e
il parlare tanto semplice quanto profondo dell’amore, del sesso, della
vita. C’è anche, dalla prima all’ultima pagina, un’ironia che tende ora
al cinico – ma senza la rabbiosa frustrazione di Céline – ora alla
canzonatura più leggera: «alla domanda se amo la natura, rispondo, per
ora: “la mia certamente”». Talvolta emerge l’afflato messianico dello
Zarathustra: «Io sono Dio. Tanto di divino si è accumulato in me che non
posso morire», o ancora: «posso morire, io, un cristallo?».
Ma
sempre alle parole soggiacciono delle forme: «Sogno me stesso che
divengo il mio modello. Il mio io proiettato. Destandomi, riconosco la
realtà. Giaccio in posizione complicata ma supino, tutto aderente al
lenzuolo. Io sono il mio stile». I viaggi rappresentano un momento di
formazione importante. Il suo italienische Reise dura sei mesi, tra 1901
e 1902: segue la strada del sud paragonandosi a Dürer. Come
quest’ultimo aspira alla chiara pienezza delle forme classiche o, in
senso ancora romantico, a trovare una «natura amica che non tenta, ma
salva». Infine «in Italia ho compreso l’architettura dell’arte
figurativa», laddove il figurativo, per Klee, non è la rappresentazione
dell’oggetto, ma la costruzione interna dell’immagine; si avvicina così,
per la prima volta, a una concezione astratta del visibile. Al ritorno
dall’Italia tenta di imporsi sulla scena artistica monacense, ma si
susseguono i rifiuti: è un momento difficile dal punto di vista
finanziario. Le ristrettezze economiche rendono scettici i genitori
della futura sposa, ma i due giovani sono ben decisi nelle loro scelte e
Klee, evidentemente con orgoglio, incolla dopo il ricordo 777 la pagina
del Bollettino dello Stato Civile con la pubblicazione del proprio
fidanzamento. A stretto giro il matrimonio e la nascita del figlio
Felix. Saldamente connessi a queste vicende personali, nel diario si
seguono anche i progressi nella pittura, tra scatti in avanti e
ricadute, dubbi, problemi e soluzioni. Dai primi disegni simbolisti alle
incisioni, alle sintesi lineari: «Mi si rivela così una via per l’uso
delle linee e posso finalmente uscire dal vicolo cieco dell’ornamento»; e
in un’ora felice, a Tunisi, in una serata «dai colori altrettanto
delicati che decisi», scopre che «io e il colore siamo tutt’uno. Sono
pittore».
Poi combina questi elementi, la linea e il colore,
misurandoli quasi musicalmente, soppesandone le potenzialità nelle
composizioni. Si sente in questi anni prima della Grande Guerra un
bisogno di riforma. Le «alte grida di lamento per la rivoluzione in
corso» si levano a Monaco soprattutto per la mostra dei futuristi alla
Galleria Thannhäuser. Klee parla specialmente di Carrà: gli ricorda
Tintoretto e Delacroix. Ma l’impressione è che il roboante mondo dei
futuristi che aspira alla novità con prorompete foga retorica sia legato
a doppia mandata all’arte antica. Forse l’unica strada possibile per
riformare il linguaggio artistico è gettare uno sguardo alle raccolte
etnografiche o, ancora meglio, in casa propria, «nella stanza riservata
ai bambini». Le creazioni dei bambini e dei malati di mente, tanto più
solo elementari, tanto più possono essere, secondo Klee, esempi
istruttivi, da considerare «con una serietà maggiore a quella che si
riserva a tutte le pinacoteche, se si vuole oggi riformare la pittura».
Un interesse del genere fa il paio in pittura almeno con Picasso.
Nel
campo letterario, per rimanere in tema, si possono citare anche le
ricercate crudezze linguistiche di Gertrude Stein. La guerra entra nei
Diari in modo fulmineo con la scomparsa, tremenda, di Franz Marc, in una
delle pagine più intense e drammatiche del libro.
Da quel 4 marzo
1916 la morte del giovane compagno di ricerche riaffiora fino alla fine
«come un fulmine, come se qualcosa crollasse in me». E a qualche mese
di distanza, raccontando Marc, Klee racconta se stesso. La scomparsa
improvvisa ne ha stroncato la maturazione, Marc si sarebbe evoluto in un
senso universale, come un’idea, perciò con uno sconforto martellante
l’amico si chiede: «ma allora perché è morto?». In questo frangente,
solo l’incontro con Kandinskij e l’impegno nel Blaue Reiter chiariscono
le ragioni definitive della propria ricerca: «Quanto più spaventoso è
questo mondo, come oggi, tanto più astratta è l’arte». L’astrattismo
raccoglie il senso più profondo di una realtà oltre il visibile, con
freddezza calcolata, al di là di ogni espressione sentimentale: «Nel
grande serbatoio delle forme giacciono macerie a cui in parte teniamo
ancora. Esse offrono la materia dell’astrazione». Vibrano, in queste
parole, i traumi inauditi della guerra. Negli anni successivi Klee
continua a lavorare moltissimo. Le brevissime interruzioni sono dovute a
fatti contingenti come gli impegni militari, eppure a monte di ogni sua
opera sta un ragionamento a sé. Disegna o dipinge ispirato da una
fantasia che pare infinita, accompagnata a un’ intelligenza prodigiosa. I
suoi pensieri non sono raccolti solamente nei diari. Dal 1921 al 1931,
in concomitanza con le sue lezioni al Bauhaus – prima a Weimar, poi a
Dessau –, l’artista ha compilato dei quaderni solo in parte pubblicati, e
le cui 3900 pagine, fitte di appunti e disegni, sono rese da poco
disponibili online dal Zentrum Paul Klee di Berna (www.zpk.org), con
scansioni e trascrizioni. Vale la pena sfogliarli: questi fogli stanno
al Novecento come gli scritti di Leonardo al Rinascimento. Un paragone
che trova senso nelle pagine dei Diari: Leonardo è il nume italiano di
Klee, un «pioniere nell’uso delle tonalità», un artista al quale,
attraverso lo studio, la natura appare rivelata. Una natura che per
l’uomo moderno è «mobile» e infinita nella sua varietà, dai microcosmi
visibili attraverso le lenti del microscopio allo spazio infinito oltre
l’atmosfera terrestre. E per concludere dove si è iniziato, dalla
conferenza di Jena del ’24: «Chi mai non vorrebbe, come artista,
dimorare là, dove l’organo centrale d’ogni moto temporale e spaziale –
si chiami esso cervello o cuore della creazione – determina tutte le
funzioni? Nel grembo della natura, nel fondo primordiale della
creazione, dove è custodita la chiave segreta del tutto?»