il manifesto Alias 27.3.16
Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli, lettere sulla fatica di essere un genio
Carteggi.
Paziente del fondatore della psicologia analitica per due anni, il
grande fisico avviò con lui un carteggio durato dal ’32 al ’57, che oggi
vale più come indagine antropologica sulla cultura umana che come fuoco
sulla realtà fisica e il funzionamento della mente
di Giovanni Iorio Giannoli
L’ultima
impresa teorica pubblicata in vita da Carl Gustav Jung, il secondo
volume di Mysterium Coniunctionis, uscì sessant’anni fa: era «una
indagine sulla separazione e la sintesi degli opposti psichici
nell’alchimia». Nell’inviarne una copia a Wolfang Pauli – il geniale
fisico che era stato due decenni prima suo paziente, e che divenne in
seguito un suo assiduo interlocutore – Jung inserì nella dedica una
formula cara a Nicolò Cusano (nec nimis nec minus), come a sottolineare
il nucleo di atteggiamenti e di idee che li univa da un quarto di
secolo: il rigore intellettuale, l’inclinazione platonica,
l’attribuzione di un valore universale alle simmetrie, la tesi della
coincidenza degli opposti, il presupposto di unità sostanziale tra il
mondo fisico e quello psicologico, l’idea che sussista un legame molto
stretto tra l’inconscio, l’hintergundsphysik (il fondamento su cui
poggia la fisica), le immagini simboliche che costellano i sogni e gli
archetipi (il contenuto innato, arcaico e collettivo della mente umana;
una sorta di schema generale del sentire, dell’immaginazione e del
ragionamento).
Pubblicate in tedesco nel 1992 (poi in spagnolo, in
francese e in inglese) le lettere tra Jung e Pauli arrivano ora in
libreria, nella loro prima traduzione italiana con il titolo Il
carteggio originale: l’incontro tra Psiche e Materia (a cura di Antonio
Sparziani, con Anna Panepucci, traduzione di Giusi Drago, Moretti
& Vitali pp. 392, euro 30,00). Benché le edizioni già presenti
in Europa non facciano di questo volume una primizia assoluta, tuttavia
l’autorevolezza degli autori e la profondità con cui affrontano i temi
trattati potrebbe costituire da noi un deterrente, una sorta di argine,
nei confronti di quella diffusa sotto-cultura di massa che ha
trasformato la fatica e la ricerca intellettuale di questi e di altri
grandi scienziati del Novecento in una sorta di melassa ammiccante,
nella quale convergono l’astrologia e lo spiritismo, l’esotismo e il
finalismo, la telepatia e la preveggenza, la numerologia e la
divinazione, il misticismo e i pregiudizi contro la scienza. Valga – a
questo proposito – il caveat espresso dallo stesso Pauli, in uno scritto
del 1948: «Dal punto di vista della scienza moderna, la forma di
immaginazione (archetipica) è senza dubbio da considerare una
regressione a uno stadio arcaico»; per cui: «non bisogna cadere
nell’errore di ritenere che i suoi prodotti siano verità scientifiche
equiparabili a una solida dottrina».
C’è da chiedersi però quale
possa essere oggi il contributo del carteggio alla discussione sul
pensiero scientifico e sull’umanesimo, sul rapporto tra il corpo e la
mente, sulla natura della psicologia e sul suo rapporto con le scienze
«forti», sulla storia della cultura umana e sulle teorie della
conoscenza. Sia la fisica contemporanea che la psicologia scientifica
sembrano infatti aver superato da tempo i nodi che impegnavano questi
due grandi scienziati nella prima metà del secolo scorso: la fisica,
perché la riflessione sui fondamenti della meccanica quantistica (e sul
ruolo determinante dell’osservatore, nel determinare il reale osservato)
si è spostata in larga misura su interrogativi che riguardano ontologie
molto più astratte (come quella, per esempio, che concerne la natura
dello spazio-tempo quantistico); la psicologia, perché l’esplosione
delle scienze cognitive (a partire dagli anni ottanta del secolo scorso)
ha trasferito su un altro terreno l’indagine della psyché, dei suoi
contenuti simbolici e/o sub simbolici, sottraendo al lavoro analitico,
all’introspezione e all’archeologia culturale, una parte molto rilevante
degli studi che riguardano la mente umana.
Ai giorni nostri,
dunque, l’idea che mente e materia possano essere aspetti epifenomenici
di un’unica realtà sottostante, in sé neutra (cioè: né fisica né
mentale), può sembrarci un po’ ingenua, retaggio di una presunzione
essenzialistica che non sentiamo più nostra. Così come pure l’idea,
caldeggiata da Pauli, che tra la descrizione fisica e quella psicologica
sussista una sorta di «complementarietà», analoga a quella che Niels
Bohr introdusse nel 1927, per dar conto dell’impossibilità di osservare –
nello stesso esperimento – sia gli aspetti ondulatori che quelli
particellari della materia, alla scala atomica e sub-atomica.
Analogamente, può sembrare oggi priva di senso, o di cogenza, l’idea che
la sincronicità (il verificarsi di coincidenze significative, di natura
non causale, in punti molto lontani dello spazio-tempo) possa integrare
sotto il profilo logico ed epistemologico (come un tassello mancante,
come un «quarto escluso») la triade canonica della meccanica classica,
costituita dallo spazio, dal tempo e dalla causalità. Ognuna di queste
idee si presenta oggi come il retaggio di un sentire datato, piuttosto
che come l’embrione di un fecondo programma di ricerca.
ppure,
meglio: studi di questo genere conservano il loro carattere di indagini
antropologiche, monumentali, profonde e piene di fascino, che riguardano
la ricchezza della cultura umana, le sue origini, i suoi riferimenti e
le sue costruzioni, piuttosto che la realtà fisica o il funzionamento
della mente. Di questo tipo, per esempio, è sicuramente l’analisi
dell’alchimia (perseguita da Jung e condivisa da Pauli), come proiezione
dell’inconscio collettivo sulla materia, nel tentativo di trasformarla.
Ed
emerge anche, insieme a questo, un resoconto «in presa diretta» della
fatica di esser un genio, delle ossessioni, delle compulsioni,
dell’insicurezza e dell’ansia che si associa spesso al lavoro
intellettuale, ai suoi massimi livelli. Nell’epistolario, Pauli ha un
ruolo maggiore di quello che occupa Jung, sia per il numero delle
lettere, sia per la quantità delle pagine, sia per l’emozione che
accompagna ogni scritto, anche il più astratto. E nel ritmo incalzante
degli interrogativi e degli argomenti affiora per venticinque anni la
posizione specifica del paziente, nei confronti del suo terapeuta (anche
se il rapporto effettivo di analisi era durato solo due anni, dal 1932
al 1934).
Così – anche quando erano venute meno le ragioni più
urgenti della terapia (l’alcolismo, le risse, la depressione, legata
anche agli strascichi del suicidio della madre, o alle difficoltà del
rapporto con l’altro sesso) – Pauli continuava a sottoporre a Jung i
suoi sogni; e non certo, o non solo, per alimentare un terreno comune di
ricerca. Combattevano, in lui, due Pauli: quello
estroverso/empirico/razionale/giudicante, legato alla figura del padre
(un medico, poi docente di chimica e di fisica) e all’influenza del
padrino (Ernst Mach, il grandissimo filosofo e fisico austriaco,
capostipite dell’empirismo del Novecento) e quello
introverso/intuitivo/passionale/creativo, legato alla figura della
madre, all’infanzia e all’adolescenza. Fino all’ultimo, lo scontro tra
queste polarità restò attivo nel suo carattere; e volle descriverlo alla
fine lui stesso, a pochi anni dalla morte, in una «fantasia attiva
sull’inconscio» (dedicata a Marie-Louise von Franz, allieva e
collaboratrice di Jung, legata a Pauli da un rapporto molto intimo).
Alla fine di questo breve racconto, quando il personaggio denotato come
Io (lo stesso Pauli) si accinge a tornare nel suo «mondo maschile, tra
la gente», risuona la Voce del Maestro (Jung?), che lo incoraggia alla
congiunzione tra i sessi; e – per tranquillizzarlo – ingiunge alla
donna: «Sii sempre benigna».