il manifesto Alias 13.3.16
Psicoanalisi
Massimo Recalcati nel Nome del Padre
Rivitalizzata
dall’esperienza sul campo, questa riflessione sul metodo clinico
lacaniano è un approdo e insieme un avvio per la analisi dei nuovi
sintomi
di Franco Lolli
Il contributo di Jacques
Lacan alla clinica psicoanalitica è, probabilmente, quanto di più
significativo e importante c’è nella sua intera opera: proprio dalla
pratica quotidiana di ascolto dei suoi analizzanti, infatti, lo
psicoanalista parigino seppe estrarre quelle preziose e geniali
osservazioni che, fecondate dai saperi di altre discipline – la
linguistica, la matematica, la filosofia, lo strutturalismo, la
topologia – diedero origine alle sue innovative concezioni in ambito
teorico.
In maniera analoga, Massimo Recalcati ha portato a
compimento il suo progetto di scrivere quello che può essere
considerato, a tutti gli effetti, il primo manuale teorico-clinico in
lingua italiana sull’opera di Jacques Lacan. E se nel primo volume
(uscito nel 2012), metteva in evidenza la profondità speculativa,
metapsicologica e teoretica dello psicoanalista francese, nel volume
appena uscito, Jacques Lacan Vol. 2 La clinica psicoanalitica: struttura
e soggetto (Cortina, pp. XXII-667, euro 39,00) è l’accurata riflessione
sulla clinica psicoanalitica a occupare una posizione di assoluto primo
piano. Recalcati, infatti, conduce il lettore (anche quello non formato
alla pratica lacaniana) in un percorso chiaro e, al tempo stesso,
rigoroso, le cui tappe scandiscono i principali temi della clinica
strutturale: il recupero della distinzione freudiana tra nevrosi e
psicosi, la specificità della posizione perversa, lo studio della
psicopatologia infantile, la definizione di criteri diagnostici, la
considerazione del rapporto tra struttura e soggetto e così via.
Il
libro è, inoltre, arricchito da un’ampia sezione dedicata alla
direzione della cura e al problema della tecnica della psicoanalisi che,
insieme all’appendice finale nella quale Recalcati commenta la teoria
dei quattro discorsi di Lacan applicandola all’analisi della
contemporaneità, attribuisce al libro – avviato da una parte di stampo
eminentemente eziopatogenetico – un carattere di assoluta completezza.
Dal
saggio emerge chiaramente il talento clinico dell’autore, che si
traduce nell’evidente confidenza con i concetti che fondano la pratica
psicoanalitica alla quale ha dedicato la propria vita. È, infatti, il
Recalcati clinico raffinato e scrupoloso, dotato di un acume e di un
intuito raro a venire fuori da questo ampio studio: il Recalcati che ha
sempre accettato di prendere in cura casi ‘gravi’ e che, proprio su
questa frontiera estrema del trattamento, ha saputo elaborare e
formalizzare nuove possibilità terapeutiche, nuove modalità di presa in
carico, nuovi luoghi di accoglienza per domande fragili; è questo
Recalcati – in parte sconosciuto al grande pubblico – che l’uscita di un
tale volume mette in primo piano.
Per chi conosce il suo percorso
non sarà certo una sorpresa: Recalcati ha abituato i suoi lettori più
interessati alle questioni psicoanalitiche a testi clinici di grande
spessore, ormai divenuti riferimenti imprescindibili all’interno del
campo lacaniano, da L’ultima cena fino a L’uomo senza inconscio,
passando per La clinica del vuoto, sono molti i testi dedicati alla
clinica psicoanalitica, uno dei tre grandi vettori della sua ricerca,
insieme all’approfondimento dei presupposti filosofici e teoretici della
dottrina lacaniana, da una parte, e all’analisi della fenomenologia
psicosociale del presente, dall’altra.
Di questa serie, il volume
appena pubblicato sembra rappresentare un punto di arrivo in forma di
ricapitolazione esaustiva della riflessione sulla clinica lacaniana,
filtrata e vitalizzata da anni di esperienza «sul campo», e al tempo
stesso un punto di partenza, saturo di spunti, di proposte, di
osservazioni, di suggerimenti, di prese di posizione che, pur se
rigorosamente fondate sullo studio del testo di Lacan, ne costituiscono
una possibilità di avanzamento e di sviluppo. È questo, forse, il merito
principale di Massimo Recalcati: aver attraversato l’intera complessità
dell’insegnamento di Jacques Lacan e averne proposto una lettura
personale, in grado di valorizzare passaggi che il lacanismo attuale
tende a sottovalutare.
Tra questi, sicuramente, la centralità del
desiderio e della sua potenzialità generativa, che costituisce, in
effetti, il fulcro concettuale (ereditato dal Lacan dei seminari degli
anni sessanta) intorno al quale Recalcati ha scelto di focalizzare il
proprio lavoro di ricerca. Rispondendo così al problema capitale di
fronte al quale si è trovata la sua attività clinica (come quella di
ogni suo contemporaneo): la tendenza delle persone che abitano il
presente a indugiare in un’esistenza ingolfata dal narcisismo,
dall’edonismo, dal nichilismo, derive alle quali la debolezza del
registro simbolico, l’infiacchimento dell’ideale, il progressivo
smantellamento del principio di autorità – ovvero l’evaporazione di ciò
che Lacan chiamava il Nome del Padre – sembrano aver spianato la strada.
Il
potere del desiderio di contrastare le derive autolesive del godimento,
un godimento non più regolato dal limite che il sistema simbolico ha
tradizionalmente imposto, trova nell’intero lavoro di Recalcati una
accentuazione che lo percorre trasversalmente, la cui più fondata
giustificazione sta proprio nella pratica psicoterapeutica. Il
trattamento psicoanalitico (come del resto qualunque trattamento
psicoterapeutico) riesce nella misura in cui, attraverso il dispositivo
significante sul quale è basato (l’utilizzo esclusivo della parola, la
non reciprocità della relazione terapeutica, il rispetto di regole
necessarie al funzionamento del setting, l’istituzione di un ritmo di
presenza-assenza, la promozione della capacità di attendere e della
possibilità di sopportare il rinvio, e così via), è in grado di agire
sull’economia libidica sintomatica, facendo sì che il soggetto possa
mettere al proprio servizio quell’eccesso pulsionale dal quale sarebbe,
altrimenti, tendenzialmente cancellato.
È questo un dato clinico
incontestabile che Recalcati ha messo al centro del proprio lavoro
riuscendo a farne una chiave di interpretazione del presente, così come
l’hanno restituita i suoi testi più noti, Cosa resta del padre, Il
complesso di Telemaco, L’ora di lezione, dotati di una innegabile forza
di penetrazione nell’opinione pubblica. Di questa sua posizione – nella
quale alcuni commentatori hanno visto risvolti problematici sul piano
teorico, per la possibile esposizione a letture di tipo nostalgico,
motrici di sentimenti di rimpianto nei confronti di un ordine culturale
superato dalla storia – l’argomentazione sul piano clinico manifesta, al
contrario, una coerenza difficilmente confutabile: la prepotenza
pulsionale in gioco nelle cosiddette nuove forme del sintomo – attacchi
di panico, dipendenze, depressioni, sociopatie adolescenziali, tendenze
all’isolamento, iperattività infantili – può essere contenuta e
canalizzata in altro solo grazie a un assetto terapeutico che funzioni, a
tutti gli effetti, come argine simbolico.
Detto altrimenti: le
possibilità di cura del disagio contemporaneo sono profondamente
dipendenti dalla forza con cui l’intervento terapeutico sa imporre una
misura, una continenza, un principio di moderazione alla pulsione di
morte che, nelle sue molteplici manifestazioni, spicca come tendenza
dominante del mondo occidentale.
Come se, l’indubbia pertinenza
delle considerazioni maturate in ambito clinico costringesse a pensare
la necessità – spostata, questa volta, sul piano macrosociale e
culturale – di inventare nuove forme del simbolico, per avvalersi di
nuovi sembianti, costruire nuove forme di narrazione che, lungi dal
trasformarsi in sussulti reazionari, si dimostrino capaci di
ripristinare un concetto di trascendenza, e di riabilitare una funzione
sublimatoria in grado di contrastare la presa desoggettivante e
annichilente della sintomatologia ipermoderna. Quasi che – sembrerebbe
affermare Recalcati – l’esortazione di Freud a trarre dalla clinica gli
elementi necessari alla fondazione e allo sviluppo della teoria possa
essere estesa alle riflessioni sociologiche e agli studi antropologici. E
come se, coerentemente all’insegnamento di Lacan, pur dovendo fare a
meno del registro simbolico, fossimo tutti chiamati a servircene.