il manifesto Alias 13.3.16
Psicoanalisi
Istruzioni per non crogiolarsi nella dolce certezza del peggio
"Oltre le passioni tristi": una sfida alle forme della sofferenza mentale, non più centrate sul conflitto e sulla colpa
di Francesca Borrelli
Una
diagnosi dello stato attuale della crisi cui è approdata la nostra
civiltà aveva portato lo psicoanalista argentino Miguel Benasayag a
titolare L’epoca della passioni tristi il suo libro scritto nel 2003
insieme a Gérard Schmit, dove la locuzione presa a prestito da Spinoza
rimandava ai sempre più diffusi stati d’animo dominati «dall’impotenza e
dalla disgregazione». In quel contesto Benasayag prendeva atto della
ormai evidente «rottura dello storicismo teleologico», ossia del
tramonto di quella credenza in un futuro migliore che aveva orientato le
società affacciate sulla modernità, causando un capovolgimento di
prospettiva tale per cui all’orizzonte si profilerebbero, ormai, solo
minacce.
Di fronte a questi cambiamenti, che lo psicoanalista
argentino non esita a definire «antropologici» benché non riguardino
affatto i requisiti trascendentali della natura umana, e che dipendono
in larga misura dalla nostra ibridazione con la tecnologia, anche la
sofferenza psichica ha da tempo mutato le sue forme espressive.
Nel
nuovo saggio sulla «clinica del malessere», che Feltrinelli pubblica
con il titolo Oltre le passioni tristi Dalla solitudine contemporanea
alla creazione condivisa (con la collaborazione di Angélique del Rey,
pp. 155, euro 18,00) Benasayag aggiorna i conti con la psicoanalisi, a
volte mettendone a fuoco le indiscutibili inadeguatezze, altre volte
caricaturalizzandole, e più spesso riconoscendo alle teorie freudiane il
loro insuperato contributo conoscitivo al dolore mentale.
Ciò che
oggi spesso si nasconde dietro gli attacchi alla psicoanalisi non è
tanto motivato, in realtà, dalle sue lacune – scrive Benasayag – quanto
dalle sue virtù: a venire in special modo rifiutata è, infatti, la
«dimensione tragica» della cura analitica, quel contatto del singolo con
il mondo in cui risuona l’eco hegeliana di una teoria della storia
secondo la quale gli individui, pur dedicandosi alle loro attività e
perseguendo fini egoistici servono, sebbene inconsciamente, un comune
disegno di emancipazione.
I contemporanei, invece, sembra non
siano riguardati se non da ciò che li tocca direttamente, tanto che –
scrive Benasayag – «il loro universo si ferma ai limiti del loro corpo».
A fronte di questi cambiamenti, la psicoanalisi sembrerebbe «avere
fallito la sua partecipazione all’impresa di decostruzione» dei
fondamenti epistemologici avviata intorno agli inizi del ’900: dopo
avere visto progressivamente opacizzarsi l’orizzonte rivoluzionario
delle loro teorie, gli eredi di Freud hanno mancato l’appuntamento con
la biologia e più recentemente con la neurofisiologia, permettendo il
successo delle terapie cognitivo-comportamentali, verso le quali
Benasayag ha giudizi condivisibilmente severi, e definitivi.
In
gioco, infatti, c’è la negazione del senso che si nasconde dietro i
sintomi, il senso che è prerogativa dell’animale umano in quanto dotato
di linguaggio, e che stando al riduzionismo biologico cui si rifanno le
teorie cognitivistiche, sarebbe trascurabile a favore di una concezione
dell’uomo come congegno performante, nonché ben adattabile alle
richieste sociali del nostro tempo: un aggregato il cui eventuale
malfunzionamento va riparato ricorrendo a terapie «modulari». Discende
da questa visione della mente anche la progressiva medicalizzazione dei
nostri disagi contingenti, ben testimoniata dall’ultima edizione del
Dsm, la bibbia della psichiatria, dove si arriva persino a misurare la
distanza che separa una normale tristezza da una vera e propria
depressione: se procrastinato per più di sei giorni, per esempio, un
lutto sfocerebbe già nella patologia (!).
Non meno metafisiche
della psicoanalisi alla quale si oppongono, le terapie che si vogliono
oggettive e materialiste, hanno come referenti uomini e donne deprivati
della loro singolarità e appiattiti sulla risposta, o sul mancato
adeguamento, alle richieste di prestazioni che la società postmoderna
esige, generando quella fatica di essere stessi cui si riferiva Alain
Ehrenberg in un suo celebre saggio (Einaudi, 1998). Altra rimozione
dell’era postmoderna, il corpo (per la verità anche molto spesso
esaltato) avrebbe subito – secondo Benasayag – una doppia negazione:
quella datata anni cinquanta, che ha coinciso con la «svolta
linguistica» dei filosofi analitici, seguaci del «tutto simbolico», e
una seconda dovuta paradossalmente al fisicalismo, che nega il corpo in
quanto «istanza auto-organizzata». Di fronte all’uomo nuovo che la
postmodernità propone sulla scena, dotato di forme della sofferenza
mentale non più centrate sul conflitto e sulla colpa, Benasayag propone
«la sfida» della terapia situazionale, un orientamento della cura che
per un verso egli fa discendere dalla corrente fenomenologica e per
l’altro dalla psichiatria «alternativa».
La vocazione di questo
metodo terapeutico sta nell’aiutare chi soffre di disagi psichici a
sfuggire «alla trappola della sua individualità» per aderire il più
possibile alle situazioni in cui è coinvolto. L’obiettivo è raggiungere
quella che Spinoza chiamava una conoscenza «di secondo genere», ovvero
«una contestualizzazione delle differenti dimensioni della vita», ciò
che comporta la depersonalizzazione del soggetto a vantaggio della sua
apertura alle diverse situazioni in cui si ritrova coinvolto.
L’accoglienza riservata al paziente dovrà prescindere dalla pretesa di
neutralità dell’analista – uno dei fondamenti del metodo freudiano – e
assumere, invece, la singolarità dell’incontro con il terapeuta di
turno: la depersonalizzazione auspicata per il paziente non vale,
evidentemente, per l’analista, né Benasayag sembra, per fortuna,
applicargli il compito di emanciparsi dal proprio Io.
Molte delle
considerazioni seminate dallo psicoanalista argentino nel suo illustrare
la terapia situazionale sono difficilmente accettabili per chi ritenga
ancora valida la lezione di Freud, e anche il lessico parzialmente
sedotto dalla filosofia di Spinoza – per esempio quando indica al
paziente «l’assunzione di sé come unica strada verso la potenza e la
gioia» – lasciano un po’ interdetti; altri obiettivi sono invece più
condivisibili, e fra questi il fatto di aiutare «a liberarsi dalla
tirannia della norma», almeno se la si intende come una negazione di
quegli imperativi alla performatività che generano sensazioni di
inadeguatezza, e dunque nuove forme di depressione. E anche
l’incoraggiamento a raggiungere una stabilità «il più lontano possibile
dall’equilibrio» ha una sua ragion d’essere, perché è vero che a volte
l’aggrapparsi ai traumi del proprio passato come fossero «scolpiti nel
marmo» e dunque insorpassabili, o alla propria fobia come fosse un
marchio identitario, coincide con lo sposare la «dolce certezza del
peggio».