il manifesto Alias 12.3.16
La Spagna e noi, ottant’anni dopo
L'anniversario
del bombardamento di Barcellona potrebbe essere l'accasione per tentare
un'opera di divulgazione sulle politiche imperaliste italiane nel '900
di Alessandro Barile
A
luglio si ricorderanno gli ottant’anni dallo scoppio della Guerra
civile spagnola (17-18 luglio 1936). Nonostante sia uno degli eventi più
indagati dalla storiografia contemporanea, anche italiana, rimangono
insoluti alcuni nodi politici che dal quel conflitto generarono per il
nostro paese. La mancata resa dei conti con quell’evento, che vide gli
italiani due volte protagonisti, fa parte del nostro rimosso storico.
Parafrasando Elio Apih, la Spagna fa parte del nostro passato che non
passa, sineddoche della mancata costruzione di una coscienza nazionale
sui nostri crimini di guerra. Incagliati nel mito dell’italiano
costruttore di ospedali e dispensatore di pace, fatichiamo a percepirci
come protagonisti di una storia fatta di crimini quantomeno speculari a
quelli delle altre potenze coloniali. Manca, in Italia, un’elaborazione
del proprio ruolo storico coloniale che altrove si è invece prodotta o
quantomeno tentata. Le valide ricerche storiografiche non riescono a
rompere il muro della divulgazione, raggiungendo il grande pubblico e
sedimentando una coscienza critica collettiva. Questo importante
anniversario potrebbe essere l’occasione per tentare nuovamente un’opera
di divulgazione sulle politiche imperialiste italiane nel corso del
Novecento. Partendo, ad esempio in questi giorni, dal riconoscimento
pubblico dei crimini di guerra perpetrati dal nostro paese nel
bombardamento della città di Barcellona tra il 16 e il 18 marzo 1938.
Due volte protagonisti, dicevamo. Da un lato gli italiani, attraverso i
canali più o meno formali della militanza politica, furono interpreti
privilegiati della difesa della Repubblica. Nelle ore immediatamente
successive al golpe, le milizie del Partito comunista diedero vita al
famoso V Reggimento, diretto da Vittorio Vidali – in Spagna conosciuto
col nome di Carlos Contreras – vero e proprio embrione del futuro
esercito popolare ricostituito della Repubblica. Gli italiani furono tra
i maggiori componenti stranieri delle Brigate internazionali, cioè le
unità militari costituite (in maggioranza) da gruppi di volontari giunti
dall’estero. Circa 4.000 furono gli italiani inquadrati nella XII
Brigata internazionale definita Battaglione (e poi Brigata) Garibaldi,
guidata dal repubblicano Randolfo Pacciardi e successivamente dal
comunista Luigi Longo, che diverrà in seguito Commissario ispettore
generale delle Brigate internazionali, di fatto il dirigente più alto in
carica. Purtroppo, come Stato nazionale, fummo al contrario i
protagonisti indiscussi anche dell’attacco alla Repubblica democratica.
L’italiano prima ancora del tedesco, per molte ragioni. Per il numero
complessivo di soldati spediti ai fronti di guerra, stimato in più di
50.000 unità, più del doppio dell’alleato nazista. Per il ruolo
dirigente degli ufficiali militari, mandati per guidare le operazioni
belliche e non (solo) per assistervi da consiglieri. Per la quantità di
materiale bellico inviato, in particolare aerei da bombardamento (circa
750 pezzi), carri armati, navi da guerra e corsare, dedite cioè
all’affondamento piratesco dei mezzi – civili e militari – legati alla
Repubblica o all’Unione sovietica. Numerosi di questi aiuti rimasero
generosamente alla Spagna franchista dopo la fine della guerra,
rimarcando il rapporto di subordinazione al fascismo italiano, un
rapporto che d’altronde provocò più di qualche incomprensione con Franco
nella gestione della vicenda militare. È in tale contesto che si situa
la vicenda del bombardamento italiano di Barcellona. Già dal ’37,
secondo lo storico liberale Gabriele Ranzato, autore del prezioso volume
L’eclissi della democrazia, «l’atteggiamento e la condotta dell’Italia
si erano fatti così aggressivi e tracotanti che la pur prudente Francia
riuscì a convincere la Gran Bretagna a convocare una conferenza
internazionale per porre fine agli episodi di pirateria». Messa da parte
ogni remora nel tentativo non tanto di instaurare un regime fascista in
Spagna, ma di sottomettere politicamente il paese agli interessi
italiani, Mussolini e Ciano avviarono una «campagna di bombardamenti
senza precedenti», raggiungendo il culmine nelle giornate di marzo dove
Barcellona venne investita da molteplici ondate di incursioni aeree che
produssero conseguenze rovinose: 57 raid aerei in 41 ore, 1043 morti e
1626 feriti, tutti civili residenti nel centro cittadino, soprattutto
nel barrio gotico, nessun obiettivo militare colpito. L’ambasciatore
tedesco in Spagna, Stohrer, telegrafava così al suo Ministro degli
esteri: «Mi si informa da Barcellona che gli effetti degli attacchi
aerei compiuti qualche giorno fa su Barcellona dai bombardieri italiani
sono stati letteralmente terribili. Quasi tutti i quartieri della città
ne hanno sofferto. Non c’è indizio che si sia cercato di colpire degli
obiettivi militari». La risposta di Mussolini alle critiche
internazionali rivolte a seguito dei bombardamenti terroristi è
d’altronde nota: «lieto che gli italiani riescano a destare orrore per
la loro aggressività anziché compiacimento come mandolinisti».
Settantotto anni dopo un’operazione catalogabile come crimine di guerra,
i cittadini di Barcellona (e delle altre città, catalane e non,
parimenti bombardate, come Valencia) ancora aspettano il riconoscimento
dello Stato italiano per il ruolo criminale svolto. Se la Germania,
valutando storicamente il proprio ruolo nel bombardamento di Guernica,
ammise le proprie responsabilità con un atto parlamentare (anche se in
maniera ambigua e deficitaria, salvaguardando contestualmente «l’onore»
dell’esercito e la disciplina dei soldati), l’Italia ancora insiste
pubblicamente a celare momenti tragici della sua storia. Questo
ottantesimo anniversario potrebbe in questo senso essere più di una
semplice ricorrenza memorialistica.