il manifesto 6.3.16
Agguato agli ideali di un kibbutz
Narrativa
israeliana. L'esordio al romanzo di Amos Oz: "Altrove forse".
Protagonista è il confine, una faglia nella geografia e nell’esistenza.
Ma il tradimento è pronto dietro l’angolo
di Massimiliano De Villa
Mezudat
Ram, un immaginario kibbutz all’estremità nord-orientale di Israele, in
fondo a una valle stretta e profonda, a ridosso del confine siriano.
Anni imprecisati tra i cinquanta e i sessanta del Novecento. Un piccolo
villaggio lontano dai grossi centri, dove, da almeno tre decenni, la
vita sembra scorrere sui binari della normalità. Il ritmo è scandito da
una rigida divisione del lavoro, ogni mansione distribuita tra coloni di
origine tedesca o russa: chi coltiva, chi alleva, chi irriga, chi
manovra il tosaerba. Chi fa la guardia alla vasca dei pesci, chi smista i
prodotti verso Gerusalemme e Tel Aviv, chi tiene la contabilità.
Proprietà e lavoro comune, nessuna deroga agli ideali del socialismo
collettivista.
Intorno luce bianca e tagliente, calura di piombo,
poi ondate improvvise di pioggia a far respirare la terra. Questo il
contorno di Altrove, forse, primo romanzo di Amos Oz e, dopo mezzo
secolo, disponibile anche al lettore italiano nella bella traduzione di
Elena Loewenthal (Feltrinelli, pp. 343, euro 17,00).
Un quadro –
un grande affresco, direbbe qualcuno – di un kibbutz fra tanti, a metà
strada tra realtà e fantasia. A un primo sguardo – uno sguardo veloce,
smentito già dopo poche pagine – un idillio di vita comune che ferma le
insidie fuori dai suoi cancelli, dove l’ideale granitico imbriglia e
addomestica le forze oscure. Fin qui, tutto bene: «Sarebbe bello fermare
il tempo, lasciare questa scena così com’è e suggellare la nostra
storia con un’alzata di spalle: e così vivono felici e contenti ancora
oggi». Sarebbe bello, sì, non fosse per il confine e per la sua ombra.
Forse
il vero protagonista della narrazione, il confine separa mentre
istituisce la possibilità dell’andare oltre che è, insieme, valicare e
trasgredire. Divieto, insidia e tentazione in uno, il confine è il
monogramma che racchiude in sé il vissuto e il narrato, la dorsale lungo
la quale il racconto si muove. Una faglia nella geografia e
nell’esistenza che replica altre, più grandi, fenditure: «Questa valle
non è altro che una minuscola crepa della più grande frattura geologica
sulla faccia della Terra. Comincia a nord della Siria, scorre lungo
crepacci di deserto, spacca pianori, separa i monti del Libano dalla
catena di fronte (…) e arriva sul confine tra Libano e Siria (…), dove
tre torrentelli si uniscono in un braccio solo e fanno nascere il santo
Giordano».
Confine geografico dunque, per prima cosa, con le cupe
montagne che sovrastano e premono addosso agli abitanti del kibbutz,
disegnando ombre scure sulla valle e proiettando minaccia, più che
protezione. Subito dopo confine politico, lì dove finiscono i campi
coltivati e inizia la frontiera, la zona contesa da cui, ogni tanto,
provengono spari e cannonate che fanno brillare l’aria notturna. Il
nemico è senza nome e senza volto, costruisce trame che caricano
l’atmosfera di attesa. Ma Altrove, forse – è lo stesso Oz a ricordarlo –
non è un romanzo di guerra, nemmeno un romanzo politico. Più ancora che
militare, l’agguato che si prepara è un agguato all’esistenza. E lo
stesso confine è, sopra ogni altra cosa, confine esistenziale. Soglia
che demarca, ma che – per sua stessa natura – spinge a procedere al di
là.
Le tranquille geometrie del kibbutz, le linee pulite dei campi
e dei frutteti, la rigorosa simmetria degli edifici – immagine
dell’artificio e della costruzione – si incrinano all’insinuarsi del
disordine. Una sottilissima crosta di civilizzazione sotto la quale si
muovono, in tumulto, altre inarginabili forze.
La luminosa
esistenza degli operosi coloni di Mezudat Ram – come quella di ciascuno
di noi, sembra suggerire Oz – mostra dunque, fin da subito, una
scucitura dove si annida l’ombra. Questa scucitura è il varco che rompe
il confine, lasciando passare la contraddizione, l’istinto, il
desiderio, la tentazione, la paura: «Un anello cinge il nostro abitato.
Fuori di lì qualcosa ribolle. (…) Un’insidia inquietante ci accerchia e
prova a sfondare la cinta per seminare il caos. Il tradimento ha già
preso piede, laggiù in fondo».
I muti nemici che stringono il
kibbutz dall’esterno e ne scrutano i movimenti dal dorso della collina
antistante sono, dunque, figure dell’istintuale, dell’estraneo, del
proibito. In una parola, del perturbante. Di ciò che dall’esterno, con
il fascino dell’ombra, insidia la tenuta del confine fino a farlo
saltare.
È questo lo spettro che si aggira per Mezudat Ram,
seguito e raccontato da una voce fuori campo. La voce di un colono che,
senza precisa identità, offre al lettore uno squarcio sulla segreta rete
di relazioni che interseca la codificata prassi produttiva del kibbutz.
Al
di là di ciò che si muove in superficie, la voce esterna sa tutto di
tutti e inquadra, con sguardo smaliziato sulle cose del mondo, la
commedia umana che anima la comunità. Con uno stile che alterna
movimenti calmi, percorsi da una dolce malinconia, a tratti rapsodici,
guizzanti, elettrici – passaggi nervosi, quasi monologhi interiori
attraversati da citazioni bibliche – il narratore senza nome racconta il
controtempo emozionale che taglia il tempo ordinario, con la sua
cadenza di lavoro lento e ripetitivo. Un controtempo fatto di frenesie
notturne, di scivolamenti, di appostamenti, di bisbigli. Di
pettegolezzi, soprattutto. Di storie che «parlano di amore, odio,
gelosia, passione, sterilità, astio».
Attraverso la lente del
colono narratore, veniamo a conoscenza dei vari personaggi, alcuni
stagliati con nitidezza, altri sullo sfondo, un poco fuori dal fuoco.
Tra tutti, risalta la famiglia di Ruben Harish, insegnante, guida
turistica e poeta, quasi un aedo del kibbutz e delle sue utopistiche
virtù. Abbandonato dalla moglie Eva – fuggita per fulmineo desiderio di
evasione al seguito di un cugino, verso la Germania degli aguzzini, a
gestire un night – Ruben accorda la sua esistenza a una rassegnata
accettazione e alla dedizione al lavoro. Unico risarcimento, la tiepida e
stanca relazione con l’amica insegnante Bronka, donna sposata in cerca
di sollievo alla noia e incapace di trattenere una giovinezza che
scivola via. La loro segreta relazione, naturalmente, è saputa da tutti,
e passa da labbra bisbiglianti a orecchie ansiose, tese all’ascolto.
C’è
Noga, la figlia di Ruben, sedicenne a mezza via tra una silfide e una
zingarella, la cui inquietudine sfacciata e ammiccante finisce per
trarre a sé Ezra, marito di Bronka, salomonico camionista che va avanti a
sigarette e citazioni bibliche, esprimendo un semplice e lineare
desiderio di vita. C’è poi il personaggio esterno, l’ospite misterioso e
affascinante che, in visita dalla Germania, sconvolge l’apparente
ordine comunitario, dando all’idea di perturbante un corpo e una figura.
Sopra tutti, c’è Fruma Rominov, vedova e madre in lutto – un figlio
morto in guerra, l’altro a servizio militare.
Indurita dalla
sofferenza, non immune da una segreta gioia per le disgrazie altrui, è
lei, forse, il centro totemico della composizione. È lei che, per la via
del pettegolezzo, scosta la cortina dell’efficienza comunitaria e
mostra, appena dietro, il muoversi scomposto delle debolezze umane.
L’eterno scontro tra «luce e tenebra, desolazione e fertilità, monte e
valle». Una guerra eterna, «ma da essa» – suggerisce il narratore – «le
storie attingono vita». L’ideale di purificazione e miglioramento
proprio del kibbutz vale certo la pena, ma la natura umana è quel che è.
È insopprimibile e prepotente, e mostra la fragilità di ogni
costruzione teorica. Potrà esistere da qualche parte – sembra dire Oz –
una dimensione edenica dove domini solo l’integrità cristallina di una
convivenza chiara e illuminata, non mossa da altri impulsi. Può essere
che esista, chissà. Altrove, forse, ma non qui.