il manifesto 3.3.16
La «nuova normalità» in Cina: licenziati in sei milioni
Cina.
Il governo taglierà le «aziende zombie». Acciaio e carbone nel mirino.
Il Partito ha già pronti 23 miliardi di dollari per riqualificare e
reinserire i lavoratori nei prossimi due anni
di Simone Pieranni
Anyuan
è chiamata la «piccola Mosca cinese», per il suo fervore rivoluzionario
che rimanda ai fasti immaginifici della storia del Partito comunista
cinese nel periodo successivo alla rivoluzione d’ottobre. Poco dopo aver
fondato il Partito a Shanghai, nel 1921, alcuni dirigenti, compresi
Mao, Li Lisan e Liu Shaoqi, si recarono nella cittadina sud-orientale al
confine tra Jiangsu e Hunan, per capire la situazione lavorativa delle
miniere.
I lavoratori erano in fermento, sembrava stesse nascendo
qualcosa di rilevante. Una straordinaria forza organizzativa pareva
dovesse solo trovare la scintilla giusta per scoccare un colpo decisivo
(Elizabeth Perry racconta la vicenda in Anyuan: Mining China’s
Revolutionary Tradition, University of California Press).
Nel 1922
i minatori insorsero. Si trattò della prima connessione rilevante tra
il neonato Partito comunista cinese e una lotta imponente, determinante
anche per la successiva creazione dell’immaginario tanto del Partito
quanto della città teatro della proteste. Quasi un secolo dopo i
minatori di Anyuan sono scesi di nuovo per strada, all’inizio di questa
settimana. Questa volta, però, la loro lotta non era «con», bensì
«contro» il Partito comunista.
Le ragioni della protesta sono
semplici: alcuni giorni fa il governo di Pechino, di fatto, aveva
annunciato un taglio di 1,8 milioni di lavoratori impiegati nelle
aziende di stato. Si tratta per lo più di compagnie impegnate nel
settore minerario. L’annuncio è ufficiale, perché uscito dalla bocca di
Yin Weimin, ministro per le «risorse umane e la sicurezza sociale» (un
nome ministeriale orwelliano, visti gli esiti della sua attività). C’è
poco da fare per queste persone che dal fondo della terra emergono dopo
tante ore di massacrante lavoro. È la «nuova normalità» di Xi Jinping,
fattore determinante per la realizzazione del «sogno cinese», condizione
fondamentale per lo sviluppo della nuovissima Cina, alla ricerca di un
modello economico capace di reggere alle nuove sfide. E per le «aziende
zombie», così chiamate perché sopravvivono solo grazie alle sovvenzioni
di Stato, i tempi cominciano a essere grami.
Non solo, perché la
Reuters ieri ha citato fonti che testimonierebbero tagli ben più
pesanti: addirittura sei milioni di lavoratori verrebbero espulsi dal
circuito produttivo. I settori interessati sono sempre quelli: acciaio,
carbone principalmente. I motivi sono reiterati da tempo dalla
dirigenza: la Cina ha bisogno di meno inquinamento, meno
sovrapproduzione, meno crediti che le banche non recupereranno — forse —
mai. Secondo Reuters, «la leadership cinese è ossessionata dal
mantenimento della stabilità e per fare in modo che comportino
disordini, spenderà quasi 150 miliardi di yuan (23 miliardi di dollari)
per ammortizzare i licenziamenti nei soli settori del carbone e
dell’acciaio nei prossimi 2–3 anni». Queste indiscrezioni non sono
state, ovviamente, confermate da alcuna fonte ufficiale, ma l’aria che
tira è evidente.
Lo stesso premier Li Keqiang, già tempo fa, aveva
posto l’eliminazione delle «aziende zombie» al primo posto nella
speciale lista per rilanciare il paese. Le motivazioni non sono solo
interne ma anche internazionali. La Cina lotta, e probabilmente avrà il
successo sperato, per ottenere lo status di «economia di mercato». Per
fare ciò deve dimostrare alla comunità internazionale di avere
intenzioni buone.
Del resto la Cina non è nuova a ristrutturazioni
di questo genere: nel periodo che va dal 1998 al 2003 furono circa 28
milioni gli «esuberi». Il costo per il governo centrale fu di circa 11,2
miliardi di dollari in fondi di «reinserimento». Pechino sa che può
farcela, e ha la consapevolezza della necessità, un obbligo quasi, di
questa manovra.
In un colpo solo può dare un colpo fatale anche
alla corruzione che si annida nel grande business delle aziende di
Stato, divenute veri e propri feudi di funzionari che hanno raccolto
potere e clientele in grado di «piantare» interi settori economici. La
Cina «mira a tagliare sovrabbondanza di capacità in ben sette settori,
tra cui quello del cemento, del vetro e delle costruzioni navali»,
mentre è probabile che l’eccesso di offerta dell’industria dell’energia
solare venga risparmiata «da qualsiasi ristrutturazione su larga scala,
perché ha ancora un potenziale di crescita», secondo quanto riferito da
una delle due fonti consultate dall’agenzia di stampa.
Il governo
avrebbe già elaborato piani dettagliati, benché non ancora annunciati,
«per tagliare fino a 150 milioni di tonnellate di capacità di acciaio
grezzo e 500 milioni di tonnellate di eccedenze di produzione di carbone
nei prossimi 3–5 anni. Ha stanziato 100 miliardi di yuan in fondi del
governo centrale per la cassa integrazione nei settori dell’acciaio e
del carbone nei prossimi due anni, secondo quanto affermato dal
vice-ministro dell’industria Feng Fei la scorsa settimana».