il manifesto 31.3.16
Gli argomenti deboli di chi sostiene la riforma
di Francesco Pallante
In
queste prime settimane di dibattiti sulle riforme, volti a informare la
cittadinanza, due argomenti tornano con una certa frequenza nei
discorsi dei sostenitori del Sì: (1) che non si può giudicare il
progetto di revisione della Costituzione alla luce della nuova legge
elettorale; (2) che, in ogni caso, la contrarietà alla riforme è frutto
di una presa di posizione «ideologica».
Si tratta di due argomenti inconsistenti ma potenzialmente insidiosi, sui quali vale la pena di soffermarsi.
Il
primo argomento ammette implicitamente l’indifendibilità di un sistema
basato sulla revisione costituzionale in atto e sull’Italicum, e cerca
di preservare comunque la revisione costituzionale sostenendo che, con
una diversa legge elettorale, la forma di governo potrebbe risultare
meno squilibrata a favore dell’esecutivo. Per quanto improbabile (visto
lo stretto legame instaurato dal governo stesso tra i due
provvedimenti), naturalmente ciò è astrattamente possibile: è ovvio, per
esempio, che una legge elettorale proporzionale renderebbe meno salda
la presa dell’esecutivo sul sistema. Difficile, tuttavia, sentirsi
rassicurati. E non tanto perché un’ipotesi remota ben poco può contro
una realtà imminente. Quanto, piuttosto, perché si tratta di un modo di
ragionare che si colloca al di fuori della logica del costituzionalismo.
Se è vero, infatti, che il costituzionalismo nasce, nell’ambito della
filosofia politica, come corrente di pensiero che, rifuggendo ogni
assolutismo, propugna la separazione e la limitazione del potere a
tutela dei diritti dei cittadini, ne consegue necessariamente che una
buona costituzione non è quella che protegge i cittadini quando tutto va
bene, ma, al contrario, quella che protegge i cittadini quando tutto va
male. Facile dire che non si verificano pericolose concentrazioni di
potere quando non ci sono i presupposti per concentrare il potere; il
difficile è riuscire a dire lo stesso quando quei presupposti si
verificano. Negli anni passati, la Costituzione vigente ha saputo, sia
pur con molte difficoltà, impedire che forze politiche ampiamente venate
da autoritarismi di destra avessero mano libera nel governare il Paese.
E se oggi la stessa Costituzione non riesce a fare altrettanto contro
le pulsioni del governo in carica, è perché è stata violata da un
parlamento eletto con una legge ampiamente censurata dalla Corte
costituzionale. Se il partito democratico non avesse potuto godere
dell’illegittimo raddoppio dei seggi conquistati nelle urne grazie al
Porcellum, oggi non saremmo qui a discutere di revisione costituzionale.
In definitiva, non solo il primo argomento del fronte del Sì non vale
realmente a sostenerne le ragioni, ma è, all’inverso, un’altra freccia
nella faretra dei sostenitori del No, dimostrando che la revisione
costituzionale del governo fallisce proprio laddove non devono fallire
le costituzioni: nella peggiore delle ipotesi – la più delicata e
pericolosa – non impedisce la concentrazione del potere. Dunque:
tecnicamente, non è una costituzione.
Il secondo argomento
ritiene, invece, di poter screditare chi si oppone alle riforme non
controbattendo alle critiche nel merito, ma bollandole come frutto di un
pregiudizio «ideologico». Ora, anche a sorvolare su quanto di
ideologico vi sia nell’utilizzo in senso denigratorio della parola
«ideologia», risulta difficile capire quale sia questa inaccettabile
ideologia che oscurerebbe la ragione dei sostenitori del No. I numerosi
contributi pubblici proposti dai critici insistono, forse fin troppo
doviziosamente, sui difetti di queste riforme: l’abnorme premio di
maggioranza, la mancanza di una soglia minima per l’accesso al
ballottaggio, il finto (o comunque molto parziale) ritorno delle
preferenze, la contraddittoria composizione del senato, l’assurda
complicazione del procedimento legislativo, l’ingerenza del governo
nell’agenda parlamentare, l’abbassamento della maggioranza richiesta per
eleggere il presidente della Repubblica, ecc. Questo atteggiamento
sarebbe «ideologico»? Affrontare il merito delle riforme e denunciarne
le gravissime debolezze? La cosa davvero curiosa, peraltro, è che
proprio i fautori dell’accusa di ideologismo si ritrovano sovente ad
affermare che le riforme vadano comunque sostenute, nonostante i loro
innegabili limiti, perché l’Italia è da troppo tempo vittima del proprio
immobilismo ed è necessario dare un segnale di cambiamento, quale esso
sia. Ora, facili ironie a parte (anche introdurre una teocrazia sul
modello iraniano sarebbe un rinnovamento…), la domanda diventa
inevitabile: e il culto del cambiamento a tutti i costi, la celebrazione
delle riforme in quanto tali, l’idea che il nuovo è comunque meglio del
vecchio: tutto ciò non è, invece, frutto di un pregiudizio ideologico?
Che
le cose, in Italia, vadano male è fuor di dubbio. Che la colpa sia
della Costituzione pare, invece, ancora tutto da dimostrare.