il manifesto 31.3.16
L’«eredità» delle guerre jugoslave
Sempre più tour dei foreign fighters e gruppi jihadisti, qui la nuova frontiera europea
di Guido Caldiron
È
uno dei frutti avvelenati che la lunga guerra civile dei Balcani ha
lasciato agli stati nati dal collasso della ex Jugoslavia. Lo jihadismo,
sbarcato nella regione, ed in particolare prima in Bosnia, dove unità
speciali di “combattenti islamici” provenienti da tutto il mondo arabo
ma anche da Pakistan e Afghanistan furono integrate nel 1993 nell’Armija
BiH, l’esercito della repubblica guidata da Ali Izetbegovic, formando
il reparto “El Mudjahedin” forte di circa 2000 effettivi, e quindi nel
Kosovo, grazie alle associazioni caritatevoli wahabite e all’impegno
economico diretto dell’Arabia saudita, ma anche paradossalmente
dell’Iran sciita, non ha mai davvero deposto le armi. Al punto che la
jihad balcanica riappare sistematicamente da oltre un decennio in tutte
le indagini sulla rete terroristica globale, prima legata ad al Qaeda ed
ora al sedicente Stato Islamico.
In particolare, anche in seguito
alle stragi di Parigi e Bruxelles, i media internazionali hanno
lanciato l’allarme sul gran numero di foreign fighters partiti da queste
zone alla volta della Siria e poi tornati in patria. Attualmente oltre
800 volontari, in prevalenza provenienti da Bosnia-Erzegovina, Kosovo,
Albania, Macedonia e dalla regione del Sangiaccato nella Serbia
meridionale, farebbero parte delle forze impegnate dall’Isis contro il
regime di Assad. Tra i bosniaci, oltre la metà dei combattenti
proverrebbe inoltre dalla sola zona di Sarajevo.
Per il rapporto
dell’Onu 2015, sulla base delle informazioni fornite dall’intelligence
di 27 paesi, che fissava in oltre 15 mila il numero dei «volontari»
stranieri accorsi a sostenere le forze di al Baghdadi, cifra poi rivista
al rialzo fino a far parlare di almeno 25 mila combattenti stranieri
presenti tra Siria e Iraq, con un aumento di oltre il 70% rispeto al
2014, alcuni stati balcanici rientrano tra i primi 10 a livello
internazionale per numero di foreign fighters forniti alla causa della
jihad rispetto alla popolazione complessiva, Una inquientante classifica
che vede Albania, Bosnia e Kosovo affiancare paesi come Tunisia,
Marocco, Arabia Saudita, Giordania, Libano, Kazakhistan e Turkmenistan. E
il problema, com’è noto, non riguarda tanto coloro che sono partiti, in
particolare alla volta della Siria, quanto piuttosto chi da quel fronte
ha fatto ritorno con il suo carico di esperienza bellica, odio e
determinazione.
Dalle informazioni fornite sia dalla polizia
locale che dalle forze della Kfor/Nato, solo in Kosovo, paese che non
raggiunge i 2 milioni di abitanti, dal 2011 ad oggi avrebbero fatto
ritorno dalle guerre del Medio Oriente oltre 120 jihadisti, mentre
l’intero circuito del fondamentalismo radicale potrebbe contare su circa
un migliaio di adepiti. Dei 140 sostenitori dell’Isis partiti negli
ultimi anni alla volta della Siria, oltre una quarantina sarebbero
invece rientrati in Albania, dove negli ultimi mesi sono stati effettuti
numerosi arresti e perquisizioni negli ambienti integralisti.
Quanto
alla Bosnia, quarto paese al mondo per numero di foreign fighters, un
centinaio quelli partiti per la ridotta siriana nel solo 2015, la
minaccia jihadista non ha mai cessato di farsi sentire nel corso
dell’ultimo decennio. Dopo aver costituito delle comunità wahabite,
inizialmente con l’appoggio delle autorità, come quella sorta nel
villaggio di Gornja Maoca, nel nord del paese, intorno ad alcuni ex
combattenti della guerra civile, tra i fondamentalisti locali sarebbero
oggi presenti dei reclutatori dell’Isis e dei veri e propri centri di
addestramento paramilitare. Per la stampa internazionale, è questa la
nuova frontiera del network del terrore in Europa. gu. cal.