il manifesto 31.3.16
Un mondo a vocazione universale
«Medio
Oriente. Uno sguardo antropologico» di Ugo Fabietti per Raffaello
Cortina Editore. Sunniti, sciiti, parsi, cristiani ed ebrei. Un insieme
eterogeneo nel suo rapporto con l’Occidente
di Gian Paolo Calchi Novati
Soprattutto
arabi, naturalmente, ma in tutto il Nord Africa vivono i berberi con
una propria lingua e una propria memoria. Iran, Turchia e Israele hanno
proprie lingue nazionali. La popolazione curda, sparsa in tre o quattro
stati, potrebbe essere vicina a realizzare un vecchio sogno nazionale.
L’islam è la religione con cui spesso la regione viene identificata. Ma
la comunità musulmana è divisa fra sunniti e sciiti e ci sono ingenti
comunità di cristiani, ci sono gli ebrei, ci sono i parsi. La recente
esplosione del fanatismo islamico ha contribuito perversamente a
rivelare – con le violenze che sono state riservate a tutti i «diversi» –
la varietà e molteplicità di un mosaico che ci ossessiona e che
malgrado tutto non conosciamo abbastanza bene.
L’antropologia ha
come oggetto privilegiato i gruppi etnici nell’accezione più vasta
possibile, studiando le differenze e le somiglianze delle rispettive
identità. Il vasto e contestatissimo territorio che viene identificato
universalmente come Medio Oriente è sicuramente un terreno ideale per
«uno sguardo antropologico».
Il libro di Ugo Fabietti Medio
Oriente. Uno sguardo antropologico – Raffaello Cortina Editore, pp. 300,
euro 24 – spiega all’avvio quando e perché è stata introdotta o
inventata questa espressione, venuta da fuori, accomunando Maghreb e
Machreq, divisi o messi in comunicazione dall’Egitto, a cui non si
adatta benissimo la qualifica di «arabo-islamico» pur essendo uno dei
fulcri dell’intero sistema . Se mai, vanno rimossi i pregiudizi che
hanno inquinato l’approccio al Medio Oriente e più in generale
all’Oriente, inteso convenzionalmente come l’alterità, da parte della
cultura occidentale.
Deformazioni antiche
Le deformazioni
non sono state solo il portato del colonialismo, che aveva bisogno di
distinguere, classificare e gerarchizzare. Proprio la cultura alta,
anche se l’antropologia indugia di preferenza sulle pratiche della vita
quotidiana, si è distinta nel creare, argomentare e diffondere le tante
mistificazioni di cui poi si è impossessata la politica. L’approdo
ultimo è stato lo «scontro di civiltà», che mirava soprattutto se non
esclusivamente a mettere in risalto la «minaccia» portata dall’islam
all’Occidente, considerato di per sé il compimento della modernità.
Resta da stabilire, ed è uno degli obiettivi di quest’opera di Ugo
Fabietti, se l’Oriente così come storicamente si è inverato nel mondo
arabo-musulmano – scontando l’improprietà di siffatta dizione – tenda a
perseguire a sua volta, vivendo tensioni che non di rado contrastano i
processi di trasformazione, un’idea di progresso con l’adeguata corona
di diritti e doveri per tutti che l’Occidente ritiene insostituibili e
che ha infatti cercato e cerca ancora di esportare, anche con la forza,
spesso intorpidendo il quadro generale.
Come si ricava dalle
traversie dell’Afghanistan, la ricostruzione e lo sviluppo hanno bisogno
di valori condivisi dai gruppi locali più che di una pallida emulazione
della matrice occidentale. In Somalia come in Libia, la solidarietà
tribale è più attraente dell’idea di stato nazionale o pseudo-nazionale.
Su grande scala, il travaglio del Medio Oriente deriva anche dallo
sforzo di convincere i vari popoli a «rivedere» il proprio posto e ruolo
all’interno di stati in bilico fra dissolvimento e sparizione.
Orientalismo di maniera
Il
libro, oltre a dividersi nei vari comparti in cui vengono analizzati
gli aspetti più propriamente «antropologici» (l’unità comunitaria, il
genere e la donna, i costumi, la famiglia, la discendenza e le
rappresentanze in funzione del potere egemonico), procede fra sintesi e
dettagli oggetto di specifiche ricerche dell’autore o che l’autore
riprende e adatta da altri studiosi. L’analisi che ne emerge sembra
dimostrare che il Medio Oriente, troppo spesso visto come unificato,
soprattutto quando la geopolitica fa premio su tutto il resto, è
comunque variegato. Temi singoli, anche molto importanti per definire la
fenomenologia a cui il libro è dedicato, sono sciolti in modi diversi
dai soggetti in loco. Fabietti tiene il timone della sua specialità ma
gli avvenimenti e gli assetti descritti dipendono in tutto o in parte
dalle scelte «materiali» che l’orientalismo di maniera, bollato
addirittura come razzista da Edward Said nella famosa diatriba a
distanza con Bernard Lewis, aveva trascurato a vantaggio dei fattori
«filologici».
Le società del Medio Oriente, anche quando siano
agite dai protagonisti diretti, riflettono gli effetti del modo di
produzione, del livello delle istituzioni, delle capacità di interazione
con il mondo tutto. La vicinanza parentale ha valenze che incidono ai
vari livelli della competizione; i tribalismi contemporanei, più che
re-insorgenze della tradizione, sono la manifestazione di lotte o
concorrenze per accedere al potere e alle risorse. È il Corano o la
politica a istituire questa o quella oppressione? Nel libro se ne parla
anche a proposito del velo.
Un punto su cui Fabietti ritorna
spesso è che il contesto in cui si muove il libro è l’antropologia e non
la storia o la geopolitica. D’altra parte, l’antropologia culturale
confina con altre discipline, in primis la storia e la politica, e
sconfina in esse. Fabietti lo sa bene anche se si impegna maggiormente
in ciò che corrisponde alla sua vocazione, alla sua formazione e alla
sua esperienza di campo.
L’attentatore e il suo pubblico
Recentemente,
a proposito di una precedente opera di Fabietti (Materia sacra, uscita
nel 2015 presso lo stesso editore), Francesco Remotti ha riconosciuto
che a certi livelli l’etnografia ha lo stesso valore scientifico degli
studi storici. Dopo tutto, è nel fondamentalismo che i richiami alla
religione e alla storia come rappresentazione del proprio passato si
coniugano alla perfezione. In una pagina molto bella, si mette a fuoco
il rapporto che si stabilisce fra l’attentatore suicida, che compie così
un atto nello stesso tempo religioso e politico, e il suo pubblico.
Naturalmente
entrano nel gioco anche le forze esterne che gravitano nel Medio
Oriente e le loro interferenze fanno ulteriormente svaporare le
particolarità che gli attori propri del Medio Oriente si portano dentro
il loro «noi» profondo. Alla fine tutte le crisi si condensano in un
interrogativo angoscioso: noi popoli e stati del Medio Oriente siamo
stati «abbandonati» dall’Occidente o siamo periti per le insufficienze
dei nostri ordinamenti e delle nostre classi dirigenti?