il manifesto 31.3.16
Boualem Sansal
I Lumi perduti dell’Islam
Un’intervista
con lo scrittore algerino, in Italia per presentare il nuovo romanzo
«2084» (Neri Pozza), accusato «di islamofobia»
intervista di Guido Caldiron
«Siamo
in guerra e dobbiamo comportarci di conseguenza». Dopo le stragi di
Bruxelles, la reazione a caldo di Boualem Sansal non lascia spazio a
dubbi quando invoca una risposta adeguata alla minaccia del terrorismo
jihadista. I mezzi sono ovviamente culturali, ma poi aggiunge che
occorre anche una «risposta militare». Lo scrittore algerino che dagli
anni Novanta ha contrastato nel suo paese sia l’ascesa dell’islamismo
armato che la deriva autoritaria del regime di Bouteflika, è stato
allontanato dal ministero dell’Industria a causa delle sue prese di
posizione critiche contro il regime algerino, ha messo del resto da
tempo al centro del suo lavoro proprio la denuncia del fondamentalismo
islamico, arrivando appunto a prospettare una risposta militare. Del suo
percorso sono testimoni i romanzi.
Dopo Les serment des barbares
(2008) e Il villaggio del tedesco (Einaudi), Sansal ha immaginato con
2084 (Neri Pozza, pp. 254, euro 17), romanzo che gli è valso il gran
premio dell’Académie française e la nomination per il Nobel per la
letteratura nel 2014, che una gran parte del mondo, ribattezzata come
Abistan, al termine di una feroce guerra santa, di cui nessuno conserva
però più memoria diretta, sia stata sottomessa da un regime autoritario
islamista la cui vita quotidiana è scandita da pellegrinaggi senza fine e
da punizioni pubbliche. Un romanzo che sembra interrogarsi anche sulla
drammatica attualità rappresentata dall’emergere del sedicente Stato
Islamico.
Il suo romanzo sembra iscriversi, fin dal titolo, nella
stessa prospettiva distopica inaugurata da George Orwell con «1984»: il
riferimento ai regimi autoritari del Novecento può perciò aiutarci a
comprendere appieno la minaccia jihadista di oggi?
Forte della
lezione della sua epoca storica, Orwell osservava come fossimo tutti
destinati a vivere prima o poi all’interno di regimi totalitari. Così,
con il suo celebre romanzo ha cercato di decodificare le strutture
portanti di una organizzazione totalitaria della società: il ruolo e il
profilo del «capo», il controllo esercitato sulla Storia, la lingua e
via dicendo. Da quando ho letto la prima volta 1984, negli anni
Settanta, mi sono chiesto quali punti di contatto avesse quanto vi era
descritto con la realtà che stava crescendo intorno a me.
In
Algeria, avevo dapprima assistito all’instaurarsi di un sistema
poliziesco e militare e quindi all’emergere di un sistema altrettanto
minaccioso ma di natura religiosa. Perciò, ho cominciato a interrogarmi
sulla possibilità che gli elementi su cui si era concentrato Orwell,
potessero essere validi anche per il totalitarismo di matrice religiosa
che stava emergendo nel mio paese. Questo perché solo se si capisce il
contesto in cui siamo precipitati possiamo trovare il modo di reagire e
intraprendere il cammino verso la libertà.
Ne «Il villaggio del
tedesco», nel quale provocatoriamente suggerisce un parallelo tra
l’islamismo e il nazismo, lei racconta dell’ascesa di un nuovo fenomeno
politico-religioso nelle periferie delle metropoli europee, come
accaduto a Bruxelles. Di cosa si tratta?
Sì, per documentarmi sul
contesto nel quale era cresciuto il personaggio di Malrich, figlio di un
criminale di guerra nazista rifugiatosi in Algeria dopo il 1945, vale a
dire la periferia di Parigi, ho fatto una sorta di viaggio in quei
luoghi. Mi sono recato sul posto e ho incontrato gli abitanti, i
genitori e gli amici di questi ragazzi reclutati dai predicatori
islamisti nelle moschee più radicali. Nelle banlieue, il fatto che molti
non musulmani abbiano scelto progressivamente di trasferirsi altrove ha
finito per alimentare la deriva comunitarista e il senso di isolamento
che si vive tra le famiglie di origine immigrata.
In questo
contesto, l’influenza degli islamisti, che hanno poco per volta
rimpiazzato il tradizionale islam pacifico e solidale dei quartieri
dell’immigrazione con una sorta di bizzarro bricolage, nervoso,
aggressivo, diffuso da degli «imam fai da te», ignoranti e capaci solo
di ripetere in continuazione «Allah Akbar», non ha fatto che crescere,
fino alla drammatica situazione in cui ci troviamo ora. In molti di
questi quartieri l’intera comunità si trova ostaggio di un islam
grottesco, di facciata, che si mostra attraverso quella sorta di divisa
rappresentata dalla barba lunga per gli uomini e dalla gandura e il velo
per le donne. Simboli che intendono incutere paura e rispetto con
l’obiettivo di attirare i piccoli «duri» del quartiere, per
trasformarli, come accaduto per esempio a Parigi e Bruxelles, in
terroristi.
Nel mondo descritto in «2084» il tempo sembra essersi
fermato. Quasi un’evocazione del clima che ha regnato a lungo, e
continua a regnare anche oggi malgrado le primavere di rivolta degli
scorsi anni, in buona parte dei paesi arabi, apparentemente immersi in
un eterno presente senza prospettiva che ha finito per alimentare la
crescita dell’islamismo. È così?
In molti paesi del mondo arabo e
musulmano gli orologi si sono fermati ormai da tanto tempo. E in ogni
caso si tratta di un mondo che non funziona con gli stessi tempi, per
esempio, dell’Europa. La scena è dominata da un immobilismo politico in
grado di sopravvivere anche a scosse significative ma che non riescono
mai a condurre a cambiamenti definitivi. Non a caso, i figli dell’élite
al potere, come in Algeria, vivono lontani, spesso negli Stati Uniti ed
in Canada, e quando rientrano in patria per prendere il posto dei loro
genitori alla testa di questo o quell’apparato del regime, esprimono una
mentalità paternalistica nei confronti dei loro connazionali
considerati alla stregua di bambini che non potranno mai davvero
crescere e assumersi delle responsabilità. Del resto, se ciò avvenisse,
questi caid perderebbero tutti i loro privilegi. Così, almeno
all’inizio, in molti casi si è preferito aprire agli islamisti perché
continuassero a tenere buona la società procedendo, come accaduto
proprio nel mio paese, verso una sua revisione per così dire in chiave
religiosa. Dopodiché, «i barbuti» hanno cercato di prendersi l’intero
potere.
Le sue posizioni sono state talvolta tacciate di
islamofobia e c’è chi l’ha paragonata a Michel Houellebecq, l’autore di
«Sottomissione». Cosa risponde?
Non sono islamofobo. Soltanto
rifiuto ogni ideologia autoritaria, religiosa o laica che sia. Certo
combatto e continuerò a combattere con tutte le mie forze gli islamisti
radicali. Forse manca semplicemente un termine per descrivere ciò che
provo e che scrivo: dovremmo coniare un neologismo come «islamistafobo»
ma non ha un bel suono. In ogni caso, libertà significa anche poter dire
che non si ama l’islam wahhabita dell’Arabia Saudita o l’islam tout
court, senza per questo odiare nessuno. Le persone hanno il diritto di
criticare ogni cosa, religioni comprese e soprattutto tutte le religioni
se lo ritengono opportuno. Quanto a Houellebecq non saprei che dire.
Con il suo romanzo si è occupato di questi temi ma ora è già passato ad
altro. Per me è diverso: questa è la mia principale fonte d’ispirazione.
Ho
cominciato a scrivere in un paese in guerra per colpa degli islamisti,
dell’islamismo politico radicale. Sono cresciuto dentro questo
conflitto. La comunicazione degli jihadisti ha puntato molto sul senso
di colpa dell’Occidente, ma si deve fare molta attenzione a non finire
per considerare gli aguzzini alla stregua delle vittime. Il vero
problema è però rappresentato dal fatto che l’Occidente non oppone più
alcuna idea e alcun valore alla minaccia jihadista, se non quella
incarnata dall’ideologia del mercato e del denaro. Se non si tornano a
difendere con forza i valori della libertà individuale e della
democrazia, questa guerra è già persa in partenza.