il manifesto 30.3.16
I colpevoli roghi della storia europea e le lotte delle donne
«Calibano
e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria» di Silvia
Federici per Mimesis. Una lettura dell’accumulazione originaria di
Marx, per riscoprirne centralità e tuttavia parzialità. E la narrazione
politica della caccia alle streghe come «guerra di classe»
di Anna Curcio
«Come
le recinzioni espropriarono i contadini dalle terre comunali, così la
caccia alle streghe espropriò le donne dal proprio corpo, liberato, a
funzionare come una macchina per la produzione della forza-lavoro».
Questa in sintesi l’ipotesi teorica che Silvia Federici propone in
Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria,
edizione riveduta e aggiornata di Il grande Calibano – classico del
femminismo marxista che Federici scrisse con Leopoldina Fortunati negli
anni Ottanta – finalmente anche in traduzione italiana (Autonomedia
2014, ora Mimesis, pp. 234, euro 30,00). Ripensare lo sviluppo del
capitalismo da un punto di vista femminista, considerando cioè
l’accumulazione e riproduzione della forza-lavoro. Non solo dunque
accumulazione di «lavoro morto» come beni espropriati con la recinzione
delle terre o attraverso la razzia coloniale che Marx considera, seppur
con peso tra loro differente, ma anche accumulazione di «lavoro vivo»
sotto forma di esseri umani, resi disponibili allo sfruttamento dal
controllo esercitato sul corpo delle donne.
Nell’assumere il
proletariato industriale salariato quale protagonista dell’accumulazione
originaria Marx ha perso di vista le profonde trasformazioni che il
capitalismo ha introdotto nella riproduzione della forza-lavoro e nella
posizione sociale delle donne. Intorno a questa ipotesi Federici
intreccia la trama, spesso taciuta, delle lotte che hanno accompagnato
la transizione al capitalismo. Così donne, contadini, piccoli artigiani e
vagabondi, perlopiù cancellati dalla storia, assurgono in Calibano e la
strega a veri protagonisti. Ripercorrendo la storia della caccia alle
streghe nel Medioevo, il volume evidenzia i processi di
criminalizzazione e degradazione sociale che colpirono le donne, il loro
lavoro, i loro saperi e pratiche all’indomani della crisi demografica
seguita alla Peste Nera europea. Allo stesso tempo, intreccia i destini
delle streghe in Europa a quello dei sudditi coloniali nel Nuovo Mondo,
insistendo sui processi di inferiorizzazione e sulla costruzione di
gerarchie razziali che accompagnano l’espansione coloniale.
L’accumulazione
capitalistica che Federici marxianamente indaga è soprattutto «di
differenze», di ineguaglianze e gerarchie costruite sul terreno del
genere e della razza; processi di segmentazione sociale costitutivi del
dominio di classe. Per questo la femminista non ha dubbi: la caccia alle
streghe è «guerra di classe portata avanti con altri mezzi».
Due
secoli di «terrorismo di stato», tra il XVI e il XVII secolo, avrebbero
dunque insegnato agli uomini a temere il potere delle donne, soprattutto
il controllo esercitato sulla funzione riproduttiva. Mentre la donna
«prodotta» come essere sui generis, «lussuriosa e incapace di
governarsi» fu sottoposta al controllo maschile. Federici ribadisce così
il carattere artificiale dei ruoli sessuali nella società
capitalistica. La stessa sessualità femminile venne sanzionata,
criminalizzando quelle attività non orientate alla procreazione e al
sostegno della famiglia; la prostituzione, la nudità e le danze furono
proibite e la sessualità collettiva al centro della vita sociale nel
medioevo divenne «incontro politico sovversivo» del sabba. Le nuove
coordinate della femminilità si orienteranno allora tra «lavoro di
servizio all’uomo e all’attività produttiva», monogamia e una nuova
concezione della famiglia «con il marito sovrano e la moglie suddita del
suo potere», mentre il corpo della donna diventava macchina della
riproduzione. In questo senso, la caccia alle streghe è soprattutto
«lotta contro il corpo ribelle»: il tentativo messo in atto da chiesa e
stato per trasformare le capacità dell’individuo in forza-lavoro; cosa
che mistificherà, da lì in avanti, il lavoro orientato alla riproduzione
come destino biologico. Il corpo – l’utero in particolare – si fa
dunque «macchina da lavoro»: bestia mostruosa da disciplinare da una
parte, involucro e «contenitore» della forza-lavoro dall’altra, salendo
alla ribalta del pensiero politico del tempo (da Hobbes a Descartes)
come prerequisito per l’accumulazione capitalistica. Non sorprenderà
allora che ogni pratica abortiva o contraccettiva sia stata condannata
come maleficio, così le donne espulse da quelle attività come
l’ostetricia o la medicina che avevano fin lì esercitato sulla base di
saperi tramandati nel tempo.
Una vera e propria «politica del
corpo» sottolinea Federici, in cui il corpo non è fattore biologico né
il «soggetto universale, astratto, asessuato» della Storia della
sessualità di Foucault, precisa, bensì è un corpo situato, denso di
«rapporti sociali» (non solo di «pratiche discorsive») fonte di
sfruttamento e alienazione e al contempo spazio di resistenza. E nella
misura in cui, come Federici tra altri sottolinea, l’accumulazione
originaria è un processo che si ripete in ogni fase dello sviluppo
capitalistico e dentro le sue crisi, il corpo e le attività legate alla
riproduzione restano oggi, come agli albori del capitalismo, un campo di
battaglia. E qui si rintraccia l’estrema attualità di Calibano e la
strega.