mercoledì 30 marzo 2016

Corriere 30.3.16
La verità della follia
di Cristina Taglietti

BUDRIO (Bologna) — Si godono la mattina di sole anche i «mattucchini» di Budrio, in fila per due nelle strade del paese, in libera uscita da Villa Rosalinda. Nel tempo questa cittadina nella pianura bolognese ha accolto nei suoi due istituti psichiatrici persone con i problemi più vari: orfani, alcolisti all’ultimo stadio, disadattati sociali, portatori di handicap, psicotici. Bisogna partire da qui, dal centro gotico di Budrio dove negli anni Sessanta circa 600 persone su 14 mila erano riconosciute come matte, per parlare del nuovo libro di Simona Vinci. Qui la scrittrice vive da quando aveva cinque anni. «Adesso ne sono rimasti pochi di questi mattucchini, ma quando ero piccola era pieno, li incontravi per strada, facevano parte del paesaggio umano».
Nello studiolo ricavato in un garage della villa con orto e giardino dove abita, Simona Vinci parla de La prima verità , il nuovo romanzo in uscita da Einaudi Stile libero. Un’opera che mette insieme la ghost story, il memoir, il romanzo storico, il reportage, la poesia sempre seguendo il filo della follia. Da Budrio, dalla storia personale (e famigliare) della scrittrice, arriva fino a Leros, isola greca che ha ospitato un ospedale psichiatrico-lager costruito per accogliere tutti quei pazienti sparsi per la Grecia considerati incurabili. Tra il 1958 e il 1981 più di quattromila persone vennero scaricate nei 15 padiglioni (più un sedicesimo dove finivano gli elementi più pericolosi), fino a quando, negli anni Novanta, l’Europa ne impose la chiusura.
«La prima verità» raccoglie molte storie, molti personaggi, tutti legati dal filo della follia.
«Probabilmente lavoravano dentro di me da molto tempo. Sette anni fa un percorso di analisi junghiana le ha fatti emergere. Avevo cominciato a soffrire di attacchi di panico. Non potevo fare niente, per un anno sono stata chiusa in casa. Avevo sempre bisogno dell’aiuto degli amici, come Carlo Lucarelli che, a volte, mi veniva a prendere in macchina per farmi uscire. Io lo costringevo a fare sempre la stessa strada, l’unica che sopportavo. In quegli anni di lavorio psicologico ho cominciato ad avere una serie di visioni, di immagini. Ero attratta da vicende di disagio psichico e quando ho incontrato Leros è stato come se quelle immagini prendessero un corpo».
Lei parla anche di sua madre, della sua malattia che, da piccola, non capiva. Scrive: «Rivedere a distanza di trent’anni le sue fotografie di allora è un colpo al cuore. Vivevo con lei, la vedevo tutti i giorni, il cambiamento era graduale e non mi rendevo conto di quello che stava accadendo».
«Ero una ragazzina che stava diventando una donna. Mentre io sbocciavo lei aveva un’involuzione e io non riuscivo bene a capire. Poi c’è stata una sorta di rovesciamento. Forse, nella vita si attira sempre un certo tipo umano che corrisponde a qualcosa che si ha dentro. Ho incontrato moltissime persone con disagi di vario genere. Loro si sentivano attratti da me e io da loro, forse perché pensavo di poterli aiutare. Fino a quando mi sono accorta che non stavo bene neanche io».
Quanto c’è di sua madre in questa storia?
«Come sempre l’io che parla è un io letterario. C’è qualcosa di noi, c’è qualcosa di più, qualcosa di diverso e molto manca. Poi è chiaro che quando vai a raccontare storie di persone che sono vive e quindi ti leggono c’è sempre una difficoltà, un pudore. Nel rapporto tra me e mia madre però c’è sempre stato questo patto implicito, da quando ho cominciato a pubblicare: la mia scrittura deve essere libera. E infatti non mi sono mai sentita limitata».
Nell’isola greca di Leros come arriva?
«Avevo letto qualche articolo sulla situazione del manicomio e poi avevo trovato delle fotografie. Dentro i padiglioni ora non si riesce ad andare, tutte le descrizioni sono ricostruite dalle foto. Mio padre aveva un laboratorio fotografico, io lavoro molto sulle immagini, fanno parte della mia formazione. Avevo trovato due servizi, uno di Antonella Pizzamiglio, con cui poi ho fatto lunghe conversazioni, e un altro di Alex Majoli che è andato in anni più recenti. Le foto di Antonella sono state scattate nell’urgenza più assoluta, di nascosto, facendo finta di essere un’amica di uno psichiatra che lavorava lì. Tutto questo si lega anche a quello che è successo in questi anni in Europa, con i migranti. E non è un caso che l’isola dei matti sia diventata l’isola dei profughi».
Nel libro a raccontare ciò che accade sull’isola è Angela, una volontaria che sbarca nel ’92 insieme a un gruppo di operatori per lavorare alla deistituzionalizzazione dell’ospedale. Da dove viene Angela come personaggio?
«Da un forum di psichiatria dove ero andata a cercare notizie. Era un uomo che si firmava Artemide e raccontava di essere stato volontario in quegli anni sull’isola. Però diceva chiaramente: io voglio parlarne questa volta e mai più. Era un lunghissimo pezzo, molto angoscioso, lucido e al tempo stesso emotivo su ciò che aveva visto, sulla condizione disumana di queste persone. Sotto c’era una sequenza infinita di commenti, ma lui non ha mai più risposto, come se avesse scritto solo per liberarsi».
Durante la dittatura dei colonnelli a Leros vennero deportati anche i dissidenti politici. Nel romanzo lei immagina che tra questi ci sia Stefanos, un poeta che assomiglia molto a Ghiannis Ritsos. Il titolo, «La prima verità», è un suo verso.
«Per me sono essenziali i poeti, più che i romanzieri. Ho cominciato scrivendo poesie e me ne vergogno, infatti non ho mai pubblicato niente. Ritsos è uno dei miei preferiti. Non volevo raccontare la sua storia, anche perché sarebbe stato difficilissimo, avrei dovuto lavorare in tutt’altro modo. È stata un’ispirazione libera. I tempi infatti non sono tutti coincidenti, ci sono episodi della sua vita a cui mi sono ispirata, altri sono inventati. Volevo usarlo ma non abusarne. Quello di Stefanos è un personaggio a cui sono molto affezionata, anche perché ho cercato di metterci qualcosa di Stefano Tassinari, l’amico a cui è dedicato».
In questo libro ci sono anche i fantasmi. Quelli che, racconta, vivevano nella casa in cui stava quando era bambina. Quelli della mente. E quelli letterari...
«Mi piacciono moltissimo le ghost story , sono le uniche che mi fanno veramente paura. Ci sono persone che ai fenomeni soprannaturali credono molto, si concentrano in maniera ossessiva. Io li lascio lì, nel senso che per me hanno un valore simbolico, la letteratura va a risvegliare i fantasmi, ascolta le loro storie. Nel corso della vita mi sono capitate tante cose strane, apparizioni, misteriosi incroci tra spazio e tempo o, appunto, i rumori che di notte si sentivano nella casa dove abitavano».
A volte i fantasmi bussano alla sua porta.
«Nella scrittura c’è scelta fino a un certo punto. Spesso sono le storie che ti chiedono di essere raccontate. Dare voce a vicende di cui nessuno parla è una cosa che sento sempre di più. Sono come eredità del passato che vengono e ti dicono: adesso questa storia la prendi in carico tu».
La follia la porta fino in Sierra Leone. Anche lì, quasi per caso, si ritrova in un ospedale psichiatrico.
«Quell’ospedale di Freetown è il più antico dell’Africa. Sono andata con Carlo Lucarelli e un altro amico. Loro volevano scrivere della guerra civile, dei bambini-soldato. Mi hanno invitata e ho accettato, ma non sapevo bene che cosa avrei fatto. Quando mi sono ritrovata lì ho capito perché c’ero andata».
«Dei bambini non si sa niente» è uscito nel 1997, quasi vent’anni fa. Lei aveva 27 anni. Che cosa ricorda di quell’esordio?
«L’ho vissuto nell’assoluta inconsapevolezza. Avevo sempre scritto, ma nell’ingenuità più totale che, peraltro, tuttora mi appartiene. D’altronde non è detto che un artista debba essere per forza intelligente. Difendo anche la mia ignoranza. Non si può sapere tutto, avere sempre una visione precisa di ciò che succede. Si possono usare le parole e tuttavia non essere intellettuali. Io mi sento più un’artista. Per me un libro è come un dipinto. Procedo per scatti lirici, a volte il quadro mi si costruisce nella testa, a volte no. Da questo punto di vista mi sento come mi sentivo a 20 anni. L’impatto con il mondo editoriale è stato abbastanza scioccante. Quel romanzo ha avuto un’eco internazionale molto forte e l’accoglienza all’estero è stata diversa da quella in Italia, dove c’è stato un po’ di gioco al massacro. Dissero cose assurde, che era un libro costruito a tavolino. Invece avevo fatto leggere un racconto a Carlo Lucarelli che lo aveva dato a Severino Cesari di Stile libero. Lì era nato tutto. Ma non ero attrezzata per gestire tutto questo, ho avuto un sacco di proposte che non ho voluto cogliere. I giovani scrittori di oggi mi sembrano più abili nel gestirsi, più aggressivi nel proporsi. Lo vedo da come usano la Rete, per esempio, anche se poi quella visibilità non corrisponde a copie vendute o a un lavoro remunerato».