il manifesto 27.3.16
La forza di Xi Jinping e il giornalismo di stato
Cina.
Dopo la lettera che chiede le dimissioni del numero uno, la leadership
di Xi appare ancora più solida. E i media sono a disposizione
di Simone Pieranni
La
lettera che chiede le dimissione del presidente cinese (nonché
segretario del Partito comunista) Xi Jinping e le sue conseguenze
immediate, gli arresti e le detenzioni di persone ritenute coinvolte se
non nella sua stesura, quanto meno nella sua diffusione, indicano una
difficoltà della leadership di Pechino a rendere omogeneo tutto il
Partito, di fronte alla figura di un numero uno che si è via via
rivelato accentratore anche più dei suoi predecessori.
Significa
che quelle lotte intestine diventate pubbliche durante lo scandalo Bo
Xilai sono ancora lì, non sopite e pronte a scattare a ogni segnale di
debolezza del Partito. L’impressione è che si tratti di tentativi che
finiranno per consolidare ancora di più la posizione di Xi Jinping,
leader che si è saputo armare di validi scudieri in grado di eliminare
anche rivali contrari alla sua politica. I firmatari per altro hanno
inserito nella loro lettera alcuni avvertimenti macabri, come quelli che
si riferiscono all’integrità fisica di Xi e dei suoi famigliari, che
pongono perfino dubbi sulla veridicità del testo. Prendendolo per buono,
al presidente cinese vengono evidenziati tre problemi della sua azione:
in primo luogo il disastro economico dovuto al tonfo in borsa e la
perdita di soldi da parte di tante persone; in secondo luogo una
politica estera eccessivamente aggressiva, a dire loro, che avrebbe
finito per riportare gli Stati uniti ad un ruolo piuttosto pericoloso
nell’area (abbandonando così – secondo i firmatari – la teoria della
politica estera di Deng Xiaoping che puntava a «nascondere» la potenza
cinese sotto forma di una diplomazia più subdola e apparentemente più
accomodante).
Xi Jinping viene infine accusato di aver coltivato
un culto della personalità che avrebbe finito per sradicare la «guida
collegiale» del Partito.
I «fedeli membri del Partito» con questa
lettera finiscono però per dimostrare poca forza, prima di tutto. Nella
liturgia tutta cinese fatta di messaggi trasversali, quanto esce
pubblicamente – di solito – ha lo stampo della debolezza, al contrario
di imboscate interne capaci di partire del tutto silenti, salvo poi
ottenere risultati. In secondo luogo la lettera appare densa di
conservatorismo e volontà di mantenere lo status quo e quindi, dato il
percorso comunque intrapreso dal paese, i desiderata di chi l’ha scritta
sembrano inesorabilmente destinati a soccombere di fronte alla storia.
Più
interessante appare una lettura di tipo «comunicativo» che permette di
scorgere la necessità, da parte di chi contesta la presidenza, di
armarsi di strumenti in grado di incidere quella realtà ovattata creata
dal sistema informativo cinese, oggi ancora più sottoposto al potere
rispetto al passato. E questo secondo aspetto indica il sentiero di una
riflessione che avvicina Pechino alla gestione del consenso che possiamo
ritrovare anche in altri sistemi politici.
Xi Jinping di recente
ha compiuto una visita nel quartier generale dell’agenzia di stampa
cinese, la Xinhua, invocando la «fedeltà al partito» e ribadendo una più
generale necessità che i mezzi di informazione funzionino come cassa
propagandistica delle azioni di governo. Si tratta di qualcosa che ben
si inserisce nella considerazione, si permetta la generalizzazione, che
tanti cinesi hanno del giornalismo (compresi molti addetti ai lavori).
Ma in generale richiedere alla stampa una narrazione capace di
supportare, anziché puntellare e imporre al potere una condotta attenta,
non sembra oggi un desiderio esclusivo del leader cinese.