il manifesto 23.3.16
Costituzione e governo, raccogliamo la sfida di Renzi
Referendum.
Il presidente del consiglio ha dichiarato di volere intendere questa
prova come un referendum sul suo operato. Prendiamolo sul serio e
leghiamo la battaglia sulla riforma alle politiche economiche, alle
nuove leggi contro i diritti sociali
di Leonardo Paggi
Dieci
anni orsono Berlusconi indiceva un referendum istituzionale che, come
quello su cui andremo a votare ad ottobre, puntava su un drastico
passaggio di potere dal parlamento all’Esecutivo. Il 61% degli italiani
difese lo spirito e la lettera della Costituzione contro il 38%. Nel
Mezzogiorno i No raggiunsero il 74%. Il paragone aiuta a capire tutte le
difficoltà dell’oggi. Esisteva allora un centrosinistra che, pur
variegato al suo interno, respingeva compatto la violazione della
legalità, tratto permanente e distintivo del governo di Berlusconi. Il
problema della forma istituzionale assumeva subito, in questo contesto,
concreti contenuti politici. Si trattava di un no ad personam e a uno
stile di governo che scandalizzava quotidianamente l’opinione pubblica
democratica anche nella sua componente più moderata e benpensante.
La
crisi del 2008 segna anche a questo proposito una scansione
fondamentale. La finanza internazionale, che ha soffiato sul fuoco delle
bolle speculative, si converte repentinamente all’austerity per
speculare sui debiti sovrani che si sono gonfiati in ragione dei
salvataggi bancari. In questo nuovo contesto la limitazione del poterei
dei parlamenti diventa una garanzia di attuazione delle “riforme
strutturali” che sono presentate come indispensabili per una strategia
di contenimento del debito.
Il 28 maggio 2013 J.P. Morgan, la
gigantesca banca d’investimenti protagonista della crisi dei subprime ,
mette in circolazione un documento di 16 pagine in cui si chiede
espressamente il superamento delle Costituzioni adottate in Europa dopo
la caduta del fascismo, per i loro eccessi di rappresentatività politica
e di contenuto sociale. La richiesta di J.P. Morgan è di fatto anche
quella della Ue che, impegnata dal 2012 nella politica rudemente
deflattiva del Fiscal compact, mette sistematicamente tra parentesi la
facoltà di decisione dei parlamenti nazionali adottando procedure di
governo che concentrano tutto il potere nel Consiglio europeo.
Le
riforme dell’attuale governo si collocano inequivocabilmente in questa
scia. La limitazione del controllo democratico non è più iniziativa di
uno stravagante cacicco, guardato con sospetto da tutta l’Europa come
frutto di un ancor più stravagante genio italico. È parte integrante di
una strategia internazionale costruita su quelle che vengono chiamate le
“svalutazioni interne” secondo cui, non essendo più possibile dopo
Maastricht svalutare con il cambio, è indispensabile realizzare gli
aumenti di competitività attraverso la limitazione dei diritti sociali
(del lavoro, pensionistici e previdenziali).
Scendo nella cronaca
con un esempio concreto. È del 18 marzo sul Corriere della Sera la
proposta di Michele Salvati di cercare in una ulteriore riduzione dei
salari il mezzo per ridare fiducia alle imprese, e quindi, a suo avviso,
per garantire la ripresa della crescita. Più che “di destra” si tratta
di una proposta insensata. È ormai convinzione comune che la stagnazione
dell’economia italiana, iniziata ben prima della crisi del 2008, è
dovuta proprio al crollo dei redditi con più alta propensione al
consumo, in primo luogo i salari, quale si profilava già negli anni
Novanta. Tornando al tema, mi viene da pensare che forse gli
editorialisti del Corriere della Sera (e la importante area di opinione
pubblica di cui sono espressione), che si scandalizzavano delle leggi ad
personam e dei festini di Berlusconi, non voteranno contro le riforme
di questo governo a cui, soprattutto dopo il crollo della destra, stanno
attaccati come ostriche allo scoglio, decisi a vedere in esso l’ultima
Thule della democrazia italiana.
Insomma la riforma del Senato e
l’Italicum non sono altra cosa dalla soppressione dello Statuto dei
lavoratori. Sono parte di una medesima linea politica, che nonostante le
sempre più patetiche richieste di flessibilità avanzate dal presidente
del consiglio, è saldamente inscritta all’interno degli indirizzi
economici e politici della Ue.
Alla luce di queste considerazioni
suggerirei che l’appello per sostenere le ragioni del No al referendum
costituzionale non ignori il contesto in cui si svolge la battaglia
politica nel nostro paese. Se sarà troppo racchiusa in considerazioni
giuridiche sulla forma istituzionale la campagna per il No rischia di
non convincere. Sembra che il testo eviti qualsiasi richiamo al rapporto
stretto che passa tra le limitazioni del sistema dei controlli
democratici e politiche economiche consapevolmente indirizzate ad
abbassare i livelli esistenti di protezione sociale. Niente si evince da
quell’appello sul qui e sull’ora della storia in atto del nostro paese e
a quali forze ci si intenda richiamare. Gli stessi firmatari, molti dei
quali sono per me stimati conoscenti e amici di una vita, non mi sembra
possano, né intendano, fornire una adeguata rappresentazione dello
scontro sociale in atto nel paese e di cui il referendum verrà ad essere
volenti o nolenti un importante momento riassuntivo. Vi sono stati
importanti pronunciamenti per il No dell’Arci e dell’Anpi. Ma la
posizione dei sindacati e del complesso sistema associativo del paese?
Il presidente del consiglio ha dichiarato di volere intendere questa
prova come un referendum sul suo operato di governo. Ritengo decisivo
per gli esiti del voto raccogliere questa sfida. Soprattutto in
considerazione della profondità degli scollamenti sociali che si stanno
determinando nel paese.
Voterà per il Si, anche se non pienamente
convinta nel merito, quella zona del paese che esprime un consenso
attivo verso la politica di austerità. Ma voterà per il Si anche quella
parte di opinione pubblica tradizionalmente orientata verso sinistra che
in assenza prolungata di una valida e forte posizione critica accetta
passivamente questa politica come un male inevitabile nei confronti del
quale non esiste alternativa. La sinistra interna al Pd (e l’area
elettorale forse non del tutto marginale che essa rappresenta) voterà
per le “riforme”. Lo ha dichiarato pubblicamente il governatore della
Toscana presentando la sua candidatura “alternativa” alla segreteria del
partito. Ma del resto già nel giugno del 2012 in coincidenza con il
Fiscal compact il riformista dal volto umano Pierluigi Bersani non aveva
messo in Costituzione il pareggio di bilancio che cancella di fatto
l’Articolo 3 ?
Il governo in carica ha portato fino alle estreme
conseguenze un rovesciamento della impostazione programmatica del Pd
iniziata nell’autunno del 2011, determinando così la crisi definitiva
del sistema politico bipolare su cui era rinata la Seconda Repubblica.
Il referendum può essere un’occasione importante per un riallineamento
della sinistra del nostro paese a patto contribuisca a riportare alla
luce il profondo malessere sociale che non trova espressione politica.
Per questo è necessaria una piattaforma programmatica che guardi oltre
quello che Paul Ginsborg ha chiamato “il ceto medio riflessivo” e si
domandi : come raccogliere consensi a Scampia?