il manifesto 16.3.16
Le vecchie strade del centro-sinistra
La
mossa di D'Alema. Nel nostro Paese c’è bisogno di un partito di
sinistra, che abbia intelligenza del tempo presente, radicamento nella
società, progetto e visione. Non di un’alleanza per vincere le elezioni
di Piero Bevilacqua
L’analisi
sferzante e sarcastica che D’Alema ha fatto del suo partito, nella nota
intervista al Corriere, seguita da tanto rumore, colpisce più per
l’autorevolezza del vecchio dirigente e per il campo da cui proviene,
che per la sua originalità. Non pochi commentatori avevano già mostrato
per tempo che cosa fosse diventato il Pd di Renzi. Non lo dico per
sminuire l’efficacia politica di quel messaggio, utile quanto meno per
svegliare tanta parte del popolo della sinistra (forse anche qualche
vecchio intellettuale) che crede ancora di appartenere al partito che fu
di Berlinguer. Ma lo sottolineo per più sostanziali ragioni. Intanto la
mossa tattica nasconde una grave insidia. Sarebbe un errore non vedere
le complicazioni che una scissione del Pd, capeggiata da D’Alema,
creerebbe al nascente soggetto politico della sinistra. La tentazione di
dar vita a una riedizione del centro-sinistra diventerebbe così forte
da esercitare un irresistibile potere di attrazione su alcuni dei
protagonisti oggi al lavoro, disarticolando l’intero progetto. È un
timore che non nasce certo dalla pretesa settaria di costruire in
purezza un partito privo di contaminazioni con la realtà e con la
storia. Ma che al contrario è fondato sull’analisi storica. Il bisogno
drammatico del nostro Paese è oggi la costruzione di un partito di
sinistra, che abbia intelligenza del tempo presente, radicamento nella
società, progetto e visione. Non di una formula di alleanza per vincere
le elezioni.
Occorrerebbe notare che mai è venuta dai dirigenti
del Pd (e delle sue precedenti incarnazioni) una seria autocritica delle
scelte compiute da questa mutevole formazione negli ultimi 30 anni, mai
un serio sforzo di ricostruzione storica per comprendere in profondità
quel che era avvenuto nei rapporti tra il partito e la classe operaia
italiana, le grandi masse popolari, le figure intellettuali, un tempo
forza e punto di riferimento del vecchio Pci. Allorché gli intellettuali
concorrevano allo sforzo di comprendere un mondo che si aveva
l’ambizione di trasformare, e non servivano per vincere dei turni
elettorali. Senza questa riflessione storica l’avvento di Renzi appare
come un caso fortuito, ed è invece la continuazione coerente di un
percorso. Il jobs act del presente governo conclude un itinerario
avviato nel 1997 con la prima riforma del lavoro firmata da un ministro
di centro-sinistra. La «buona scuola» e l’emarginazione dell’Università,
pur con tutti i distinguo necessari, continua sulla scia delle riforme
avviate da Luigi Berlinguer, ed è continuata senza soluzioni di
continuità tra governi di centro-destra e di centro-sinistra. La
filosofia della contrattazione programmata, quella politica che ha dato
mano libera ai costruttori di devastare senza vincoli le nostre città,
di cementificare il territorio, è stata accettata di fatto da tutti i
governi nazionali degli ultimi 30 anni e ora viene rinvigorita dal
cosiddetto «sblocca Italia». E si potrebbe continuare.
In realtà è
mancata e manca, anche in chi critica Renzi, non solo la capacità di
guardare dentro la natura del riformismo del centro-sinistra, ma di
vedere a quali imperiosi interessi dell’epoca esso di fatto ha finito
col rispondere. Perché dopo 1989 nulla è più stato come prima. Il
tracollo dell’Urss non ha messo all’angolo solo i vecchi partiti
comunisti, ha colpito anche la socialdemocrazia europea. Il potere del
capitalismo occidentale, rivitalizzato dai governi della Thatcher e di
Reagan, e coadiuvato dalla nuova intellettualità neoliberista, ha
affondato la sua critica demolitrice anche contro la burocratizzazione
del welfare, la rigidità corporativa dei sindacati, il crescente peso
fiscale dello Stato: tutte costruzioni, in buona parte, della sinistra
europea del dopoguerra. Debolezze che racchiudevano tuttavia conquiste e
diritti. E questo bisogna proprio dirselo: la sinistra, tutte le
sinistre maggioritarie europee, hanno accettato quella critica, l’hanno
fatta propria. Se non si comprende tale passaggio si capisce ben poco
della storia europea degli ultimi decenni. Dopotutto, di che stupirsi?
Le teorie neoliberistiche non prospettavano una società pauperistica. Al
contrario, esse promettevano una straordinaria ripresa dello sviluppo,
cioé del processo di accumulazione capitalistica, sol che la macchina
economica fosse stata liberata da “lacci e laccioli”. Maggiore
produzione di ricchezza che si sarebbe ripartita automaticamente fra
tutti. Nessuna meraviglia, dunque, se, in seguito all’accettazione di
tale lettura, i vecchi partiti popolari si son dovuti muovere in uno
spazio ristretto e in un’unica direzione: indietreggiare, indietreggiare
lentamente, lasciare sempre più libertà ai gruppi industriali e
finanziari e nel frattempo gestire presso i ceti popolari il processo di
riduzione progressiva del welfare. Una ritirata, diventata sempre più
ardua quando gli effetti della globalizzazione si sono manifestati in
tutto la loro pienezza. Allorché le imprese occidentali delocalizzate
hanno messo in concorrenza i salari operai del Bangladesh con quelli di
Stoccarda e di Torino. La costituzione dell’Ue poteva essere
un’occasione per battere nuove strade. Qualcuno si ricorda della
promessa di costruire una “economia sociale di mercato”? Com’è noto, né
gli ex comunisti italiani, né gli altri partiti della sinistra europea
sono stati in grado di incidere sulla filosofia neoliberistica dei
trattati su cui si veniva costruendo l’Unione, sulla fragilità
costitutiva dell’euro, sull’architettura complessiva dei poteri, alcuni
dei quali, come la Bce, sottratti a ogni controllo democratico.
Ebbene,
la vicenda di questi ultimi 30 anni trova pochi storici dentro il
vecchio schieramento della sinistra perché il tentativo riformatore,
compiuto nel cono d’ombra del nuovo potere del capitale, è fallito. E’
morto con la Grande Crisi esplosa nel 2008. Sia il progetto neoliberista
di un Nuovo Ordine mondiale dello sviluppo, che il tentativo di una sua
gestione riformista, sono caduti insieme. E tale verità trova nuove
verifiche nel presente. Mentre la Bce inonda di denaro le banche del
continente, la disoccupazione resta fuori controllo, i ceti medi si
assottigliano, si espandono le aree di povertà, le diseguaglianze si
fanno più aspre, si riduce il welfare, si restringono gli spazi della
democrazia, il lavoro si compra ormai con un voucher come un viaggio ai
tropici. Ebbene, nonostante questo debordante potere del capitale (o
esattamente per questo?) l’agognata crescita non riparte. Il capitalismo
pare una balena spiaggiata nelle secche delle sue iniquità.
Dunque,
un nuovo soggetto politico, che realisticamente si deve muovere su un
terreno riformatore, non può prescindere da una rilettura radicalmente
classista della storia recente del mondo. Occorre porre al centro, come
ha ricordato Gallino, la consapevolezza che il capitale sta muovendo
guerra al lavoro e alle sue conquiste storiche. E tale presa d’atto non
può venire da una riedizione del centro-sinistra e dal ripescaggio dei
suoi vecchi protagonisti. Il tentativo in corso di cambiar strada deve
avere l’ambizione di lasciarsi alle spalle il vecchio industrialismo
sviluppista, unico orizzonte culturale degli uomini e delle donne di
quella pur illustre tradizione. Non può non nutrirsi delle nuove culture
ecologiche, di un ripensamento radicale delle forme della produzione
industriale e della durata del lavoro, di una nuova attenzione ai
caratteri del nostro territorio, al destino del bene comune delle città e
al loro carattere ecosistemico, ai limiti che il riscaldamento
climatico pone nell’uso delle risorse, a un nuovo immaginario – che è un
salto di civiltà – in cui il rapporto uomo natura sia dominato dalla
cura e non più dallo spirito di predazione.