il manifesto 10.3.16
Sulla Libia, la linea la detta Napolitano
L’ex
presidente si prende la scena e predice il futuro: vasta coalizione
internazionale contro l’Isis e supporto alla stabilizzazione libica
Oscurato Gentiloni che ha «frenato» rispetto al bellicismo di Renzi e Hollande
di Andrea Colombo
Ieri
sera i corpi di Salvatore Failla e Fausto Piano non erano ancora
arrivati in Italia. Forse nella notte: «Se Dio vuole«, come dice la
Procura generale di Tripoli. Dovrebbero partire «appena terminata
l’autopsia», la quale invece è stata fatta davvero. Senza alcuna
autorizzazione, anzi alla faccia delle proteste delle famiglie delle due
vittime.
La tragedia, dopo giorni e giorni di annunci
puntualmente smentiti, si è colorata con le tinte della beffa. Per sua
fortuna Renzi gode di un appoggio mediatico senza precedenti nella
storia repubblicana. Qualsiasi altro governo, dopo una figura simile,
sarebbe stato crocefisso, con l’assoluta mancanza di autorevolezza e
rispetto internazionali a far da chiodi. Una realtà già dimostrata dalla
nonchalance con cui gli americani, una volta scoperte le loro attività
di spionaggio, neppure si sono peritati di porgere formali scuse, e
soprattutto dalle continue prese in giro del governo egiziano dopo
l’assassinio di Giulio Regeni. Ma Renzi è Renzi e così tutti fingono di
non vedere e stringono il bavaglio. Tranne le famiglie delle vittime. La
moglie di Failla ha rifiutato i funerali di Stato per suo marito: «Lo
Stato non lo ha tutelato».
Ieri, dopo giorni e giorni, il governo
si è finalmente deciso a informare il Parlamento, senza scomodarlo a
decidere con voti di sorta. Il ministro degli Esteri Gentiloni si è
rivolto al Senato in mattinata, la responsabile della Difesa Pinotti al
Copasir, nel pomeriggio. Alle prese con l’aula di palazzo Madama,
Gentiloni ha escluso che sia stato pagato alcun riscatto, ma ha ammesso
che la vicenda degli ostaggi italiani presenta ancora «molti punti
oscuri». Quanto alla guerra, ha ripreso i toni e gli argomenti
rassicuranti adoperati dal premier nelle interviste domenicali,
glissando sul cambio di marcia dopo l’incontro con Hollande.
Parole
davvero ferme quelle del ministro degli Esteri: «Il governo non si farà
trascinare in avventure davvero inutili e persino pericolose per la
nostra sicurezza nazionale. Non è sensibile al rullar di tamburi e a
radiose giornate interventiste, ma interverrà se e quando possibile su
richiesta di un governo legittimo». Il richiamo alle «radiose giornate»
del 1915, quando l’impeto di una minoranza guerrafondaia impose una
guerra antiparlamentare, non è casuale: prepara il terreno
all’immancabile promessa di lasciare al Parlamento l’ultima parola. Come
Costituzione impone:
«Lavoriamo per rispondere a eventuali richieste di sicurezza del governo libico, solo dopo il via libera del Parlamento».
Gentiloni
non spiega perché mai, meno di 24 ore prima, il capo del governo, a
fianco del collega francese, avesse invece dichiarato che «i libici
devono sapere che il tempo a loro disposizione non è infinito». Nemmeno
risponde ai molti che gli chiedono come sia possibile che il governo
americano disserti nei particolari sulla quantità e qualità delle truppe
italiane che entreranno in azione. Al suo posto lo fa Giorgio
Napolitano, da par suo: «Forse gli americani hanno detto quella cifra,
5.000 uomini, perché più o meno tanti ne avevamo impiegati in
Afghanistan». Senza vergogna.
Non ha solo fornito la più ridicola
tra le spiegazioni possibili il presidente emerito. Ha parlato come se
fosse lui il capo dello Stato, e del resto persino nel cerimoniale del
Colle gode di un trattamento pari a quello di Sergio Mattarella,
rispetto al quale resta tuttavia ben più loquace. Il vero discorso del
governo, ieri, lo ha fatto lui, e ha illustrato nel dettaglio cosa il
«suo» Paese è disposto a fare e cosa invece è fuori discussione. Ci sarà
una vasta coalizione internazionale contro l’Isis, ha ripetuto per la
seconda volta in due giorni. L’Italia ne farà parte ma certo non col
ruolo di guida: «Sarebbe grottesco».
Altra cosa è la missione in
Libia, quella sì capitanata dal belpaese, ma solo con funzioni «di
supporto alla stabilizzazione istituzionale e politica e di supporto a
un governo legittimo capace di preservare l’integrità territoriale della
Libia». Il che non vuol dire escludere il ricorso alle armi in nome di
«un pacifismo di vecchissimo stampo che non ha ragion d’essere nel mondo
di oggi».
La palla è poi passata alla ministra Pinotti, che, di
fronte al Copasir, ha escluso interventi senza che un governo unitario
chiami l’Italia, mentre ha difeso a spada tratta l’invio di forze
speciali, di fatto sotto il diretto comando del primo ministro. Pinotti
ha anche insistito sulla necessità di evitare quella tripartizione della
Libia che era stata evocata in mattinata al Senato dall’ex ministro
Mauro Mauro e alla quale aveva fatto cenno lo stesso Napolitano. Un
passaggio che spiega molto sul reale stato delle cose, specie se sommato
agli equilibrismi di un governo capace di volteggiare in 24 ore dalla
presenza di un governo unitario come condizione imprescindibile per un
intervento, alla minaccia implicita di muoversi comunque se quel governo
non nascerà presto per tornare poi alle posizioni di partenza.
L’intervento
ci sarà, ma quando e con quanto impegno, sia militare che economico,
resta oggetto di un braccio di ferro internazionale, che vede l’Italia
da una parte, la Francia e gli Usa dall’altra. Così come il tema,
persino più scottante anche se inconfessabile, della spartizione delle
aree di egemonia e controllo. Qualcosa che somiglia molto da vicino a
una forma di neocolonialismo.