il manifesto 10.3.16
Roma rimanda la guerra libica, ma in segreto è già partita
Il
ministro Gentiloni al Senato nega l'intenzione di voler lanciare
un'operazione senza governo di unità, ma il Pentagono ha già pronto da
settimane l'opzione bellica
di Chiara Cruciati
Di
fronte al Senato il ministro degli Esteri italiano Gentiloni lo ha
ribadito: nessun avventura militare in Libia senza una richiesta del
governo legittimo e dopo un apposito voto del Parlamento. Parole che
seguono a settimane di escalation bellica, che ha avuto il suo tragico
apice nell’uccisione di due degli ostaggi italiani rapiti nel luglio
2015 vicino Sabratha.
Ieri il ministro ha ribadito che le salme di
Piano e Failla sarebbero rientrate ieri in Italia, dopo l’autopsia
condotta dalla procura generale di Tripoli senza il via libera da parte
di Roma. Ieri le autorità italiane avevano confermato l’arrivo di un
medico dell’esercito all’esame autoptico. Il procuratore libico, nel
pomeriggio, ha fatto sapere che l’autopsia si è conclusa e che entro la
serata l’aereo diretto a Roma sarebbe partito con le due salme a bordo.
Un’iniziativa
che ha fatto infuriare le famiglie delle vittime che da giorni chiedono
spiegazioni su quanto sia successo. Sul perché gli altri due ostaggi,
Pollicardo e Calcagno, siano riusciti a liberarsi, sul perché i loro
cari siano morti poche ore prima.
Di notizie certe ancora non ce
ne sono: Gentiloni dice solo che nessun riscatto è stato pagato e che i
rapitori non sono ricollegabili allo Stato Islamico, aggiungendo che
«l’ipotesi più accreditata è quella di un gruppo criminale filo-islamico
operante tra Mellita, Zuwara e Sabratha». Poi assicura: «Il governo non
si farà trascinare in avventure inutili e perfino pericolose per la
nostra sicurezza nazionale. Non è sensibile al rullar di tamburi e a
radiose giornate interventiste ma interverrà se e quando possibile su
richiesta di un governo legittimo».
Quale governo? Di esecutivi di
unità, nonostante accordi e promesse, non è ancora nato nessuno. E se
anche i parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk dovessero trovare un punto
di convergenza definitivo, si dimentica l’attuale realtà della Libia,
frammentata in autorità rivali, poteri più o meno palesi, che corrono
dalle tribù alle milizie islamiste. Da loro, di certo, non arriverà
alcun via libera ad un intervento internazionale.
Eppure i
progetti di divisione del paese sono già in corso: una guerra occulta si
sta già combattendo, con truppe internazionali dispiegate sul campo di
battaglia (e nel caso francese, attive) e piani di spartizione dal
sapore coloniale. La Tripolitania all’Italia, la Cirenaica alla Gran
Bretagna, il Fezzan alla Francia. Sullo sfondo una coalizione di 19
paesi pronta a lanciare l’intervento. Il piano – rivela il New York
Times – sarebbe già sul tavolo del presidente Obama dal 22 febbraio,
impacchettato dal Pentagono ufficialmente in chiave anti-Isis.
Mentre
Gentiloni contava i miliziani islamisti («Secondo le nostre analisi, ci
sono circa 5mila combattenti di Daesh in Libia»), i consulenti per la
sicurezza nazionale di Washington discutevano di campagne militari.
Secondo il quotidiano statunitense, l’ipotesi è quella di bombardamenti
contro campi di addestramento, depositi di munizioni, obiettivi militari
e centri di comando islamisti: in tutto, 30 o 40 target in quattro
diverse zone della Libia, obiettivi strategici per danneggiare
seriamente le capacità militari del gruppo. I raid serviranno a spianare
la strada a milizie armate locali sostenute dall’Occidente.
Le
ambizioni belliche del Pentagono, aggiunge il Nyt, non sarebbero però
condivise da una parte dell’amministrazione Usa, che teme che simili
operazioni possano mettere in pericolo il già travagliato processo di
unità nazionale.
E mentre ieri il parlamento di Tobruk restava
impantanato per l’ennesima volta sul voto in merito al governo
presentato dal premier designato al-Sarraj, sul campo di battaglia la
tensione rimaneva alta. Epicentro degli scontri è ancora il confine tra
Libia e Tunisia: le forze di sicurezza tunisine hanno ucciso ieri sette
uomini armati, che si aggiungono ai 36 ammazzati negli ultimi giorni
intorno alla città di Ben Guerdane.
Gli attacchi di lunedì, in cui
sono morti anche 7 civili e 13 membri delle forze di sicurezza, sono
stati definiti da Tunisi il tentativo dell’Isis di infiltrarsi nel paese
e quindi la dimostrazione dell’efficacia della barriera in costruzione
alla frontiera.