Corriere 10.3.16
I cittadini e il diritto di contare
di Sabino Cassese
I
votanti diminuiscono, i partiti si svuotano, i sindacati divengono
afoni. Ha ragione Ferruccio de Bortoli ( Corriere della Sera , 5 marzo
2016) nel rilevare che si apre un fossato tra cittadini e istituzioni.
Il
divario tra «Paese reale» e «Paese legale» - come si diceva
nell’Ottocento - è un problema che si riaffaccia periodicamente, ma in
termini nuovi, in tutte le democrazie. Una volta era questione di
ampiezza del suffragio. Conquistato il suffragio universale, è divenuto
problema di canali di comunicazione tra società e Stato, prima tenuti
aperti da partiti e sindacati (di lavoratori e di datori di lavoro).
Questi hanno sempre meno iscritti, sono meno vitali, meno diffusi sul
territorio. Non assicurano, quindi, quella trasmissione di domande
sociali alle istituzioni che costituisce il loro compito principale.
Contemporaneamente,
nelle istituzioni, c’è dovunque la necessità di un accentramento dei
poteri, imposto dalla globalizzazione: basti pensare ai diversi vertici
europei e mondiali, ai quali non possono certo partecipare gli interi
governi e che richiedono la presenza dei soli capi degli esecutivi.
Questo
malessere, se non crisi, della democrazia, emerge in un momento nel
quale, paradossalmente, l’offerta di istituzioni democratiche aumenta,
gli stessi partiti si aprono, il «capitale sociale» cresce. Basti
pensare alla diffusione mondiale di organismi intermedi, tra Comune e
Stato, chiamati Regioni, territori, comunità, per dare un’altra voce ai
cittadini.
Basti pensare alla introduzione di elezioni primarie,
sull’esempio americano, per aumentare il tasso di democraticità degli
stessi partiti (che, da strumento della democrazia, divengono essi
stessi obiettivi della democrazia) e all’aumento del «capitale sociale»,
costituito da quelle reti di cooperazione che arricchiscono il tessuto
comunitario e danno occasione ai cittadini di «svolgere la propria
personalità», come dice la Costituzione. L’apparente contraddizione si
spiega in un solo modo: accanto all’aumento di offerta di democrazia,
all’apertura dei partiti e alla crescita sociale, si registra anche un
aumento della domanda di democrazia. Dopo un ciclo secolare o
semisecolare — a seconda degli Stati — di vita del suffragio universale,
i cittadini si sentono padroni e questo fa emergere la debolezza
originaria della democrazia moderna: essa è in realtà una oligarchia
corretta da periodiche elezioni delle persone alle quali è affidato il
potere (democrazia delegata o indiretta).
Di qui la ricerca di
rimedi, surrogati o alternative. I referendum, che si prestano però ad
appelli al popolo di tipo gollista. La democrazia detta deliberativa,
cioè la consultazione dei cittadini sulle politiche pubbliche, che però
non può esercitarsi su tutte le decisioni e non può condurre a una
integrale socializzazione del potere (un sogno inseguito da varie
correnti del socialismo nell’Ottocento e all’inizio del Novecento). Il
ricorso alla rete, con tutte le arbitrarietà alle quali si presta. In
Italia il malessere dei cittadini è più accentuato perché non funzionano
male solo i rami alti, ma anche quelli bassi delle istituzioni, scuole,
ospedali, università, trasporti, strade, giustizia. Ne sono un segno i
periodici sondaggi sulla fiducia dei cittadini, che mettono in alto
forze dell’ordine, chiesa, autorità indipendenti e molto in basso
amministrazioni pubbliche, servizi a rete, corti. Giustamente Maria
Elena Boschi (Corriere della Sera del 6 marzo 2016) punta su «un Paese
più semplice e più giusto», perché il malfunzionamento dei rami bassi
produce diseguaglianze tra chi non può fare a meno di servizi pubblici e
chi ha i mezzi per evitare di ricorrere a essi.