il manifesto 10.3.16
Ungheria anti-migranti: «Stato d’emergenza»
Rotta
balcanica. Il governo Orbán schiera polizia e militari alle frontiere,
invoca poteri speciali e annuncia un referendum contro le quote europee
di accoglienza
di Massimo Congiu
BUDAPEST Il
governo ungherese ha dichiarato lo stato di emergenza in tutto il paese
in relazione alla crisi migranti. La decisione, ha precisato il ministro
degli Interni Sándor Pintér, si è resa necessaria in seguito alle
misure straordinarie introdotte da diversi paesi della rotta balcanica –
Slovenia, Croazia e Serbia – che hanno chiuso i loro confini ai
migranti, nella notte tra martedì e mercoledì, bloccando l’ingresso a
chiunque sia sprovvisto di passaporto e visto validi. L’esecutivo di
Budapest sottolinea di sentirsi toccato direttamente da queste misure,
«non sappiamo di preciso quali potranno essere le reazioni dei migranti
presenti nei paesi interessati di fronte all’introduzione di queste
regole», ha dichiarato Pintér. Per questo motivo le autorità ungheresi
hanno deciso di rinforzare i controlli alle frontiere e di ricorrere
allo stato di emergenza. Più precisamente il governo prevede di
aumentare il numero di agenti di polizia e di militari a guardia dei
confini, di costruire una via di transito agevolata perché
all’occorrenza le forze dell’ordine possano raggiungere le frontiere
interessate nel più breve tempo possibile, di illuminare a giorno i
punti di confine per facilitare le operazioni di pattugliamento e
controllo.
In precedenza, il primo ministro Viktor Orbán aveva
dichiarato alla radio pubblica di temere la minaccia del terrorismo
legata al fenomeno dell’immigrazione, invocando misure drastiche in
presenza di informazioni su possibili attentati. Tra esse il coprifuoco,
il divieto di trasmissioni radiotelevisive, l’oscuramento di Internet,
il ricorso a perquisizioni domiciliari anche senza mandato e l’arresto
dei sospetti in nome della sicurezza nazionale.
Il Fidesz, il
partito del premier, aveva già presentato in parlamento la proposta di
legge per attribuire poteri eccezionali al governo, progetto osteggiato
dall’opposizione di centro-sinistra. Così Orbán, privo ormai della
maggioranza parlamentare di due terzi, ha dichiarato il mese scorso di
voler indire un referendum popolare per superare gli ostacoli posti dai
partiti dell’opposizione.
Più di recente, un Orbán in vena di
referendum ha annunciato un’altra consultazione nazionale sul sistema
delle quote obbligatorie di accoglienza che il governo di Budapest
respinge fermamente. «Condivide il fatto che, senza l’autorizzazione del
Parlamento nazionale, l’Unione europea obblighi l’Ungheria ad accettare
ricollocamenti di cittadini stranieri sul suo territorio?» è la domanda
che le autorità ungheresi intendono rivolgere ai loro connazionali
nell’ambito di un referendum voluto sostanzialmente per mostrare
l’ostilità della popolazione verso il meccanismo delle quote. A questo
proposito è già stata presentata la domanda all’Ufficio Elettorale
Nazionale e da tempo il partito di governo è impegnato in una raccolta
di firme. Ce ne vogliono in tutto 200mila. «Gli attivisti del Fidesz
riusciranno senz’altro a raccoglierle» dicono diversi osservatori che
aggiungono di prevedere una maggioranza di no ai ricollocamenti nel caso
si andasse effettivamente al voto. Orbán fa notare che quello delle
quote obbligatorie è un aspetto che tocca direttamente la popolazione
ungherese e non lo si può imporre contro la volontà di quest’ultima,
perciò bisogna dar luogo ad una consultazione nazionale.
I
costituzionalisti e gli esperti di diritto internazionale obiettano
dicendo che la Legge Fondamentale ossia la Costituzione voluta dal
governo del Fidesz ed entrata in vigore il primo gennaio del 2012, vieta
in effetti i referendum sugli accordi e gli obblighi internazionali,
quindi la proposta potrebbe essere contrastata dalla Corte
Costituzionale. «In ogni caso – affermano gli esperti – il risultato del
voto non avrebbe valore vincolante nei confronti degli organi dell’Ue»,
cioè non potrebbe in alcun modo influenzare le decisioni di questi
ultimi. Quello del referendum è stato definito «un bluff» dal quotidiano
di opposizione Népszabadság; appare chiaro che il capo del governo
intende mostrare all’Unione che non è solo l’esecutivo di Budapest a
respingere la politica delle quote, ma gli stessi ungheresi che, secondo
Orbán, sono dalla sua parte e lo sostengono in questa lotta per la
salvezza del paese e dell’intera Europa.
All’interno del Gruppo di
Visegrád (V4) l’Ungheria di Orbán occupa una posizione di punta nella
critica alle politiche Ue sul fronte migranti e insieme alla Slovacchia
di Robert Fico esprime una protesta particolarmente feroce verso
Bruxelles e il suo modo di gestire questa emergenza. Per il primo
ministro ungherese e per i suoi più diretti collaboratori l’unica
soluzione è la difesa dei confini, e i veri responsabili di questa crisi
sono i dirigenti dell’Unione europea colpevoli di «non fermare il
flusso migratorio»: «Non vogliamo importare terrorismo, criminalità,
omofobia e antisemitismo» ha di recente affermato Orbán sentendo di
interpretare il sentimento della stragrande maggioranza degli ungheresi
in questa crisi.
Il primo ministro ungherese ha fatto queste
dichiarazioni in un periodo caratterizzato da proteste accorate da parte
dei settori più progressisti della società civile che sono scesi in
piazza diverse volte per manifestare contro la politica del governo,
soprattutto nei settori dell’istruzione e della sanità.
A febbraio
gli insegnanti e i loro sindacati sono stati in prima linea nella
contestazione che ha coinvolto tutto il paese con manifestazioni
pubbliche definite da fonti locali tra le maggiori mai organizzate
contro questo governo. Gli insegnanti e gli studenti criticano il
sistema fortemente centralizzato dell’istruzione pubblica concentrato
nelle mani del governo. Quest’ultimo controlla i programmi, la scelta
dei libri e secondo la lettera scritta da un insegnante di Told, piccolo
centro abitato con una nutrita popolazione rom, «il sistema scolastico
ungherese crea sfiducia e incertezza e uccide la creatività». Per István
Pukli, preside di un liceo di Budapest e, per diversi suoi colleghi,
«il sistema voluto dal governo lascia poco spazio alla creatività del
corpo docente e lo obbliga a pesanti obblighi amministrativi». A queste
affermazioni si aggiunge quella di László Mendrey, presidente del
Sindacato democratico degli insegnanti, secondo il quale l’esecutivo «ha
fatto tornare indietro di cento anni la scuola ungherese». Le
manifestazioni per la scuola sono state appoggiate da altre categorie
lavorative a dimostrazione del fatto che nella società ungherese c’è un
malcontento diffuso. Il problema è riuscire a concepire una
rappresentanza politica ben definita che, a differenza dell’opposizione
attuale, sia capace di proporre un progetto diverso da quello
governativo, creare consenso e fare davvero breccia nella roccaforte
costruita da Viktor Orbán.