il manifesto 10.3.16
Sanders riapre la partita, Trump prova a chiuderla
Si complica il percorso di Hillary Clinton in nome della Bernie Revolution
Nel Gop è panico: solo la Florida può fermare «the Donald»
di Luca Celada
LOS
ANGELES Come pronosticato, il Michigan si è rivelato potenzialmente
fondamentale per le primarie presidenziali più imprevedibili da almeno
una generazione. Lo stato più «arrugginito», paradigmatico della crisi
della old economy e cimitero di una classe operaia middle-class
rottamata da globalizzazione ed economia finanziaria, ha dato a Bernie
Sanders l’affermazione più importante di questa campagna. La vittoria è
stata tanto più significativa perché i sondaggi della vigilia lo davano
in svantaggio per almeno 15 punti. Invece il risultato (Sanders
49,8%-48,3% Clinton) ha confermato che esiste un vasto serbatoio di voti
mobilitati dal messaggio «radicale» di Sanders sulla diseguaglianza
sociale e l’influenza indebita delle oligarchie che minano il processo
democratico.
«La vittoria in Michigan per noi è un game-changer»
ha scritto Sanders ai propri sostenitori e la primaria di martedì
potrebbe rappresentare una svolta nella gara per la nomination
democratica alla successione di Obama. Robert Reich, l’ex ministro del
lavoro di Bill Clinton che si è convertito in uno dei principali
portavoce della Bernie Revolution ha aggiunto: «Washington deve capire
che queste elezioni in definitiva rivelano un rifiuto profondo
dell’ordine costituito. Gli elettori arrabbiati contro un sistema
politico economico tarato contro di loro hanno la scelta di un bigotto
autoritario ed un candidato politicamente rivoluzionario».
Queste
sono le prime elezioni che elaborano il trauma della crisi finanziaria
globale scatenata dalle speculazioni di Wall Street. Un contesto in cui,
secondo Reich politiche economiche di «neoliberismo illuminato» come
quelle dei Clinton e anche di Obama non basterebbero più ad imbonire gli
elettori traumatizzati.
Incentivi fiscali, incrementi graduali
alla riqualifica, regulation solo «cosmetica» di Wall Street e
contemporaneamente impulso al libero commercio globale, sono una ricetta
in definitiva favorisce la crescita vertiginosa dei profitti
corporativi a scapito del 99% della gente. Una deriva oligarchica la cui
ingerenza destabilizzante è rappresentata dai vertiginosi finanziamenti
privati necessari all’elezione dei politici (e da sentenze
costituzionali aberranti come quella che sancisce la «cittadinanza»
delle corporation). Sempre secondo l’economista di Berkeley «l’elefante
nella stanza» è il concentramento sempre maggiore di soldi e potere
politico ai vertici e non è più sufficiente «promettere una pagnotta a
coloro che vogliono riprendersi il forno».
In Michigan quei
democratici «arrabbiati» hanno dimostrato di avere i numeri per
imprimere una svolta ideologica al partito. Se Sanders dovesse ripetere
la vittoria nelle primarie che si terranno martedì prossimo in Ohio e
Illinois, altri due popolosi stati del rust belt con problemi speculari a
quelli del Michigan, sarebbe una conferma che il suo movimento potrebbe
dare del vero filo da torcere a Hillary Clinton. Se la «rimonta» in
Michigan ha smascherato la narrazione che passa ancora su molta stampa
ufficiale sulla «inevitabilità» di Clinton, la strada di Sanders rimane
in salita.
I voti delle primarie infatti si convertono in
«delegati» che nelle convention di luglio formalizzano, di solito
simbolicamente, la candidatura del vincitore. Ma in gare così combattute
il ruolo dei delegati promette di essere decisivo. L’arcano regolamento
del partito democratico prevede, oltre ai delegati assegnati dal voto,
anche un complemento di grandi elettori (circa 500) con facoltà di
appoggiare indipendentemente un candidato alla convention.
Di
questi 462 hanno già dichiarato che si schiereranno con Hillary Clinton
contro appena 22 per Sanders. Pur essendo stato assai competitivo nelle
elezioni proporzionali (la conta è di 673–477 delegati a favore della
Clinton con 2383 necessari per la nomination) il senatore del Vermont
sarebbe quindi in svantaggio per 1134-499, una volta conteggiati i
superdelegati.
Per prevalere su questo meccanismo progettato per
favorire il candidato istituzionale, Sanders ha quindi bisogno di
vincere una maggioranza dei delegati elettorali (i grandi elettori
avrebbero poi facoltà di passare dalla sua parte). In questo senso il
Michigan ha riaperto una partita che la Clinton sperava di aver già
chiuso.
Del tutto aperta anche quella altrettanto movimentata
della nomination repubblicana. Anche per Donald Trump la vittoria in
Michigan è stata fondamentale, sbattendo la porta sull’ipotesi di
rimonta dell’ultraconservatore «ortodosso» Ted Cruz che sabato scorso
aveva messo a segno vittorie importanti nel Kansas e nel Maine. I
risultati in Michigan, Mississippi e Hawaii hanno invece riconfermato la
forza apparentemente insopprimibile del demagogo populista e a Cruz è
rimasta la magra soddisfazione di vincere in Idaho, famigerato caposaldo
di miliziani e le frange più estremiste della destra suprematista.
Negli ultimi giorni Trump aveva subito l’attacco coordinato
dell’establishment che ha sguinzagliato contro di lui Mitt Romney e spot
elettorali per il valore di molti milioni di dollari, apostrofandolo
come dilettante, autoritario e pericoloso mitomane.
Ogni
sacrosanta verità scagliata contro di lui dalle élite di partito
abituate a strumentalizzare a proprio favore gli stessi identici
argomenti, è parsa solo invigorire il fervore di una base il cui astio
maggiore è riservato proprio per il proprio partito. La paradossale
situazione di un partito in guerra col proprio probabile candidato
alimenta il panico fra i ranghi istituzionali. Domenica è stato
convenuto d’urgenza un summit a Sea Island per formulare strategie atte a
contrastare la resistibile ascesa di Trump che molti considerano un
hostile takeover del Gop. Riuniti nel lussuoso resort al largo delle
coste della Georgia, strateghi economisti e capitani di industria
(compresi Tim Cook dell Apple e Larry Page di Google) hanno ascoltato le
esortazioni di Karl Rove, architetto delle campagne neocon e braccio
destro elettorale di George Bush e discusso di possibili piani per
deragliare Trump.
Ma le opzioni per farlo si stanno rapidamente
restringendo. Un’ultima possibilità è rappresentata dalle primarie di
martedì prossimo in Florida e Ohio, basi rispettivamente dei rivali
Rubio e Kasich. Se Trump dovesse prevalere anche su quest’ultima
resistenza la strada della nomination, in barba al suo stesso partito,
potrebbe essere definitivamente spianata.