«Il conflitto condannerebbe certamente il leader del Pd a perdere un
altro pezzo di elettorato di sinistra, senza conquistare un altro pezzo
di elettorato moderato»
Corriere 4.3.16
Le pressioni internazionali e la speranza di Renzi di evitare la guerra (e le possibili rappresaglie)
di Francesco Verderami
ROMA
Ancora due settimane di speranza, ancora due mesi prima di dover
assumere una decisione definitiva: Renzi confida che accada qualcosa per
evitare la guerra. Spera che entro la metà di marzo nasca un governo
libico, per quanto debole e con una legittimità internazionale
forzosamente accreditata. Spera che una migliore valutazione dei
costi-benefici di un simile intervento — il doloroso calcolo di vittime
civili e militari — porti a un cambio di scenario.
E intanto
impreca in Consiglio dei ministri, dopo aver letto sul Corriere la
rivelazione del decreto con cui ha stabilito la linea di comando per le
possibili operazioni sul campo. È furioso per la «crepa nella gestione
di atti secretati della presidenza del Consiglio», mentre ricorda come
«in Francia, per settimane, nemmeno il ministro dell’Interno seppe delle
decisioni che intanto aveva assunto Hollande».
Per il premier è
anche un modo di scaricare la tensione che va accumulando a causa delle
pressioni internazionali: si sente sotto assedio, si vede sospinto con
gli scarponi sul bagnasciuga libico, stretto nella camicia di forza
diplomatica già confezionata, con le notizie «top secret» sull’Italia
che la stampa americana continua a pubblicare e che vengono interpretate
come altrettanti segni d’impazienza dell’alleato Oltreoceano.
La
promessa delle basi di supporto, della copertura aereo-navale, di un
contingente di duemilacinquecento uomini dei reparti speciali, non basta
più: a Renzi viene chiesto il passo seguente, che poi sarebbe il
preludio del conflitto. Ma il premier resiste, spera ancora che accada
qualcosa per evitare che accada qualcosa, per evitare di esporre
l’Italia alla rappresaglia terroristica e per evitare di scoprire che la
guerra non è la soluzione del problema ma un altro frutto avvelenato
della scellerata idea con cui Sarkozy pose fine al regime di Gheddafi e
diede inizio alla destabilizzazione dell’area.
Da avamposto
dell’Isis, la Libia rischia di trasformarsi nella portaerei del
Califfato nel Mediterraneo, per questo — fa sapere l’inviato dell’Onu
Kobler — «bisogna essere cauti e pazienti se si vogliono superare le
diffidenze delle tribù locali»: perché l’accordo tra Tripoli e Tobruk
«può anche reggere», ma l’ipotesi di una spartizione del territorio,
anche solo l’impressione che «l’aiuto sia un’invasione», potrebbe
«suscitare una reazione contro il processo di stabilizzazione». Le
conseguenze non sarebbero calcolabili.
E Renzi teme
l’imponderabile. Non aveva messo nel conto la guerra quando mosse verso
palazzo Chigi, e si sarebbe risparmiato di vivere ciò che visse il suo
punto di riferimento politico, quel Blair a cui gli inglesi ancora
rinfacciano l’intervento in Iraq. Adesso che gli restano due settimane
di speranza, è preoccupato non solo per le incognite sul campo ma anche
per «l’effetto arcobaleno» che la guerra potrebbe (di nuovo) provocare
nell’opinione pubblica italiana.
Il conflitto condannerebbe
certamente il leader del Pd a perdere un altro pezzo di elettorato di
sinistra, senza conquistare un altro pezzo di elettorato moderato. Lo
dicono i sondaggi, che descrivono un Paese schizofrenico: favorevole a
combattere il terrorismo ma contrario — in larga maggioranza —
all’intervento, dato che solo un terzo degli italiani auspica la
missione. «Non farlo», gli consigliano i rivali di un ventennio, quei
Prodi e Berlusconi a cui aveva fatto la guerra senza immaginare un
giorno di dover andare alla guerra.