Corriere La Lettura 6.3.16
«Un nuovo cielo» Anche Shakespeare si ispirò a Galileo
«Antonio e Cleopatra», «Cimbelino»: la lezione del secolo che vide un’intersezione senza precedenti tra scienza e filosofia
di Edoardo Boncinelli
Le
ultime settimane sono state tutto un ribollire di furenti discussioni
politiche e di anniversari. Solo qualcuno ha ricordato, tra le altre, la
ricorrenza della nascita di Galileo (15 febbraio 1546). A riportarmi
alla realtà è stata una serie di messaggi su Twitter, che hanno
giustamente celebrato l’anniversario della nascita del nostro grande
scienziato-filosofo. Mi ha colpito in particolare il riferimento a un
libro del 2014 riguardante nientemeno che l’influenza delle scoperte del
nostro sulle opere di William Shakespeare. Il libro è The Science of
Shakespeare. A New Look at the Playwright’s Universe di Dan Falk. Vi si
afferma, tra l’altro, che chiunque sia stato, Shakespeare è vissuto in
un momento veramente speciale della nostra storia. Nato lo stesso anno
di Galileo appunto, definito dall’autore «un padre fondatore della
rivoluzione scientifica», e poco prima di Montaigne, Shakespeare è stato
testimone di un’intersezione senza precedenti fra scienza e filosofia,
nel momento in cui l’umanità cercava affannosamente di dare un senso
alla propria esistenza.
Non c’è dubbio che uno degli eventi che
allora contribuirono alla rifondazione di un tale senso sia stato lo
sviluppo e quasi l’esplosione dell’astronomia osservativa, che portò un
nuovo tocco di scientificità all’antica domanda sull’ordine che regna
nel firmamento.
«Devi allora scoprire un nuovo cielo, una nuova
terra», dice Antonio a Cleopatra nel dramma shakespeariano, e di nuovo
cielo e di nuova terra, espressione ripresa dall’Apocalisse, veramente
si trattò, allorquando si cominciò ad aprire gli occhi sulla struttura
del cosmo, fino ad allora inattingibile palcoscenico di entità
iperuranie, schermo fisso di realtà visibili come le stelle, ma
sfolgorante indizio di verità «superiori», a noi celate.
Non
possiamo ignorare, d’altro canto, le illuminanti parole di Giordano
Bruno, un altro grande di cui si è celebrata la ricorrenza in questi
giorni. «Non è che, rispetto all’universo, tu possa dire di essere più
al centro che in qualsiasi altro luogo; perché è evidente che tutto
all’intorno, ugualmente, da qualunque parte, si apre uno spazio
infinito, che contiene infiniti astri e mondi», dice Bruno nel De
immenso et innumerabilibus , e continua: «Considera come l’orizzonte,
osservato da un’altra torre, mostri che il convesso continua il piano;
quando sia impossibile correre oltre con lo sguardo, sarà come se la
natura progenitrice si sia eretta una muraglia dinanzi; ma se, al
contrario, sarà possibile superare ogni confine, si potrà vedere,
allora, intrecciarsi ciò che è e ciò che non è».
Il pensiero
filosofico era quindi pronto al gran salto, ma occorreva trovare
qualcosa di concreto che ci mostrasse «la potenza dei cieli» come una
cosa quasi terrena. Occorreva cioè portare il cielo sulla terra, come
fecero vari scienziati fra cui Galileo a quei tempi, e Isaac Newton
qualche tempo dopo, nonché Albert Einstein ancora dopo, in una vicenda
appassionante che ci fa oggi parlare di onde gravitazionali, come se le
vedessimo o addirittura le potessimo «cavalcare».
È noto che sulla
natura della forza che teneva la Terra avvinta al Sole — e le mele
sempre sull’orlo di cadere dal ramo — Newton non si volle esprimere.
«Hypotheses non fingo», non faccio ipotesi, affermò a tal proposito con
la ostinata e ostentata sobrietà dello scienziato. Ebbene, in questi
giorni abbiamo appreso che la forza di cui sopra viaggia come un’onda
dello spazio-tempo impiegando ad esempio poco più di otto minuti per
raggiungere il nostro pianeta partendo dal Sole. Come dire che le forze
gravitazionali viaggiano nel cosmo come onde, impegnando secondi,
minuti, ore, anni o miliardi di anni, secondo i casi. Detto così, sembra
un raccontino per ragazzi, ma consideriamo quanto tempo, quanto ingegno
e quanti sforzi materiali ci sono voluti per raggiungere una tale
consapevolezza! «Eppur si muove!», è il caso di esclamare con Galileo.
In tutto l’universo qualcosa si muove, e le azioni dei corpi che lo
popolano richiedono tempo per raggiungere i loro obbiettivi. Niente
viaggia a velocità infinita, anche se tanti si sciacquano continuamente
la bocca con la parola «infinito». Ognuno fa la sua parte nel cosmo; ciò
che è miracoloso e eccezionale è che noi lo stiamo comprendendo e
descrivendo, talvolta minuziosamente.
Questo è il clima inaugurato
da Galileo e respirato anche da Shakespeare e dai suoi contemporanei,
almeno alcuni. Stupore, ansia di infinito, senso e superamento del
limite e, nello stesso tempo, immanente trascendimento dell’umano,
figurano fra i temi portanti delle sue opere, e non si può negare che
descrivere le frenesie e le bassezze, ma anche le magnanimità, ha un
altro sapore e un altro valore prospettico se le gesta dei protagonisti
vengono proiettate contro una realtà fisica così prepotentemente
dilatata.
Dan Falk nel suo libro esplora la connessione fra l’arte
del famosissimo drammaturgo e lo spirito della rivoluzione scientifica,
concludendo che il Bardo stesso fu significativamente influenzato dal
progresso scientifico, e in particolare dall’astronomia dell’epoca. Una
delle osservazioni più interessanti è quella che egli fa a proposito
della commedia romantica Cimbelino . Riferendosi in particolare a una
strana scena, altamente simbolica, dell’ultimo atto del dramma, dove il
protagonista vede in sogno gli spiriti dei quattro membri defunti della
sua famiglia aleggiare intorno a sé dormiente, si chiede se i quattro
spiriti che gli volano intorno non possano essere un riflesso, magari
inconsapevole, delle quattro lune che ruotano intorno al pianeta Giove,
lune appassionatamente studiate e descritte da Galileo. Per fare una
tale affermazione, l’autore cita, ovviamente, un certo numero di
testimonianze sulle quali non possiamo soffermarci, ma basti dire che il
dio Giove figura effettivamente nella commedia in questione, ed è
l’unica volta che questi compare in un’opera di Shakespeare.
Possiamo
concludere con una citazione dallo stesso dramma. Iachimo, gentiluomo
italiano, dice, rivolgendosi alla figlia di Cimbelino: «Grazie,/
bellissima signora. Ma sono forse pazzi gli uomini?/ Dalla natura hanno
avuto gli occhi per contemplare/ la volta celeste e l’inesauribile
ricchezza/ della terra e del mare, per distinguere/ i globi di fuoco
lassù dalle pietre indistinte/ sparse lungo le spiagge, e non riescono/
con lenti tanto perfette a distinguere/ il bello dal brutto?». O il bene
dal male. Parecchi decenni più tardi Maria Mitchell, una pioniera
dell’astronomia moderna, ebbe a dire: «C’è un particolare bisogno
d’immaginazione nella scienza. Non è tutta matematica, né tutta logica,
ma è piuttosto un’esperienza di bellezza e di poesia».