Corriere La Lettura 6.3.16
Non sanno il nostro nome E ci chiamano migranti
di Antonio Dikele Distefano
Tra tutte quelle persone che fuggivano dalla miseria c’ero anch’io.
Nei
nostri occhi da emarginati c’era tutto ciò che il nostro destino ci
obbligava a rivelare. Avevamo addosso l’odore dei poveri, tasche vuote e
lo sconforto di chi ha visto le proprie fantasie ritornare tristi.
In
Mali ho lasciato mia moglie e i miei figli, perché dove sono nato io
provvedere alla famiglia è una responsabilità degli uomini e in paese
non c’erano occasioni, non c’era nulla che mi avrebbe permesso di
aiutare le persone che amavo.
Quando le dissi che sarei partito,
lei sorrise in modo diverso e con debole protesta provò a convincermi a
non andare. Mi chiese di restare, disse che i soldi li avremmo trovati,
che aveva paura. I conoscenti raccontavano storie, qualcuno aveva perso
un parente durante il viaggio verso l’Europa, altri vivevano meglio
perché avevano chi era riuscito ad arrivare dall’altra parte del
Mediterraneo e mandava soldi a casa. Mi scosse con furia la sera prima
della partenza, mi ribadì che non ero obbligato a farlo, mentre io,
mentendo con il sorriso di chi la sa lunga, le dicevo che sarei tornato
il prima possibile, che se non avessi avuto certezze non sarei partito.
Salii
su un pullman per il Burkina Faso una mattina di giugno, con 1.600
franchi e poche cose, che non mi sarebbero servite per il viaggio ma a
ricordarmi da dove venivo. C’erano le foto dei miei figli, di lei, di
mia madre e le mie sorelle. Non avevo foto con mio padre, lui lavorava
sempre e io ero cresciuto con la sensazione che avrei fatto la sua
stessa fine.
La prima tappa mi illuse perché fu semplice, pagammo
al confine, attraversammo il Sahel e arrivammo a Ouagadougou dopo nove
ore di viaggio. Molti avevano solo i vestiti che indossavano e la paura
che ai posti di blocco ci avrebbero chiesto altri soldi. Ogni volta che
ci fermavano i militari, ci dicevano con tono minaccioso che per passare
bisognava pagare e che se non l’avessimo fatto non ci avrebbero
restituito il passaporto.
In Niger conobbi Matar, un ragazzo del
Mali come me. Avevamo fatto una parte della tratta assieme e diventammo
amici una sera che m’invitò a cenare con lui. Un pugno di riso, un po’
di patate e qualche cipolla soffritta. Mangiavamo con le mani da un
piatto al centro del tavolo fuori da un bar che restava aperto tutta la
notte. Matar si scioglieva in sorrisi doppi d’intensità quando cercava
di ricordare i motivi che l’avevano spinto ad «andare a morire in
Europa». Diceva proprio così, mentre con estrema cura accendeva la sua
unica sigaretta.
Chiesero a tutti noi altri 800 franchi per
lasciarci raggiungere il confine con la Libia, ci caricarono su un
pick-up. Eravamo in tanti, non parlava quasi nessuno, e chi lo faceva
teneva gli occhi bassi. Al confine l’autista ci consegnò ad altre
persone che ci fecero attraversare il deserto fino alla città libica di
Zuwara dove restammo cinque giorni sulla spiaggia, in attesa che
qualcuno dell’organizzazione si facesse vivo.
Ripartimmo il sesto
giorno, eravamo almeno in 400. C’erano anche donne e bambini. Il barcone
era condotto da quattro «soggetti», due ci controllavano, uno era al
timone e l’altro al motore. Prima di imbarcarci ci tolsero tutto, i
soldi, i pochi gioielli e i vestiti negli zaini. Eravamo ammassati uno
sull’altro, i bambini piangevano e chi chiedeva di uscire dalla stiva
per prendere un po’ d’aria non veniva ascoltato. Chi creava problemi
veniva picchiato, però molti insistevano lo stesso, volevano uscire
all’aperto, bere un po’ d’acqua, ma non era possibile, eravamo in
troppi. Il peschereccio imbarcava acqua, navigammo in quelle condizioni
per giorni. Persi la cognizione del tempo su quel barcone: senza cibo né
acqua, senza ripari dalla pioggia e dal freddo.
Finimmo in mare
dopo una tempesta. Ci eravamo spostati tutti su un fianco del
peschereccio per paura e quello si era ribaltato. A bordo non c’erano
giubbotti di salvataggio, solo urla. I ragazzi che non sapevano nuotare,
tra cui Matar, colavano velocemente a picco ingoiati dal Mare. L’acqua
era gelida, molti, nonostante muovessero le braccia, non resistevano e
venivano inghiottiti dal Mediterraneo. In quel momento non pensavo al
fatto che potevo morire, ma a mia moglie e ai miei figli, alle promesse
che avevo fatto e all’infinità di parole che avevo usato per
rassicurarli. Il mare sembrava non finire più, non c’era terra. Trovai
un resto del barcone e cercai con tutto me stesso di tenermi a galla,
qualcuno fece lo stesso, altri due si contesero un pezzo di legno ma
alla fine andarono giù entrambi.
Esattamente un anno fa ho messo
piede per la prima volta in Italia grazie a quegli uomini vestiti di
rosso che mi hanno teso un salvagente e mi hanno tirato fuori
dall’acqua.
Qui non ho trovato tutto quello che ho promesso a mia
moglie. Questo posto non assomiglia minimamente a tutto quello che mi è
stato raccontato da mio padre.
In Italia ci chiamano migranti,
come se questo servisse a far tacere il dolore e a rendere l’immagine di
una strage una cosa ordinaria, di passaggio. Ci chiamano migranti, come
se non avessimo un nome, un volto, come se non avessimo una storia. Ci
chiamano migranti perché è meglio che restiamo a casa nostra, che
moriamo nelle nostre terre, e non nel loro mare che chiamano «Nostrum».
Ci chiamano migranti, come se fossimo una categoria e non persone, come
se non fosse morto nessuno d’importante, nessuno che ha una famiglia.
Loro si sono chiamati coloni, turisti, esploratori quando nelle nostre
terre hanno portato il malessere che oggi ci costringe a fuggire. Ci
chiamano migranti, per ricordarci che al mondo ci siamo noi e loro. Loro
che hanno una famiglia, una casa, che se muoiono finiscono sui giornali
con il loro nome, loro che hanno tutto e non provano vergogna. Ci
chiamano migranti. Noi che non siamo niente, che non siamo gli ultimi e
nemmeno i primi.
Perché i primi partivano da qui, dall’Italia, e
avevano il volto dei loro nonni, gli occhi dei loro parenti, le valigie
dei loro amici di famiglia. E la speranza dei migranti.