Corriere La Lettura 6.3.16
Mezz’ora di Bach per 13 euro e 6 centesimi
Uno
dei migliori violinisti d’Italia suona in una stazione del metrò: su
1.760 passanti si fermano in 11. Siamo sordi alla bellezza?
«La Lettura» ha chiesto a Carlo Maria Parazzoli di interpretare l’Adagio e la Fuga dalla prima Sonata per osservare le reazioni
di Federico Fubini
Irrigidito
nel gelo del primo mattino, ha sceso passo dopo passo le scale fino al
tunnel del metrò sotto via Lepanto. Portava una barba folta, capelli un
po’ lunghi sulla fronte, era senza cappotto anche se il termometro
segnava esattamente zero. Tutto ciò che aveva con sé quell’uomo era un
grosso pullover grigio, guanti di lana mozzati all’altezza delle dita e
un astuccio di pelle ammaccata fra le mani. Le quattro addette della
biglietteria della metropolitana lo hanno visto fermarsi proprio davanti
al loro sportello e aprire la sua scatola con cura. Ne ha tirato fuori
un violino. Ha poggiato il contenitore sul pavimento di linoleum nero,
ha sparso con metodo quattro monete d’incoraggiamento sul velluto rosso
della fodera. Ed è a quel punto che ha iniziato.
Se conoscete l’
Adagio e la Fuga della prima Sonata per violino di Johann Sebastian
Bach, sapete di che cosa si tratta. Ti lacera il corpo e ti strappa via
l’anima con una precisione matematica, te la porta allo scoperto e tu
non puoi farci niente. È anche una delle pagine per violino più
difficili mai scritte (1720), così innovativa e sconcertante che Bach
morì trent’anni dopo senza che nessun editore si fosse mai arrischiato a
pubblicarla. Un secolo e mezzo più tardi, Johannes Brahms non osò
comprare il manoscritto originale che gli veniva offerto perché dubitava
che fosse autentico. Sono meno di dieci minuti di musica ma si portano
dietro un’ombra d’incredulità fin dal primo momento.
Questa è la
composizione, e questi il tempo e il luogo: la fermata Lepanto sulla
linea A della metro di Roma, lunedì 18 gennaio. E quest’articolo è un
puro e semplice plagio, è bene dirlo subito. Nel 2008 Gene Weingarten
del «Washington Post» vinse il primo dei suoi due premi Pulitzer per le
feature , le storie più lunghe, con un testo che mise alla prova un
migliaio di passanti del metrò della capitale degli Stati Uniti e la
dignità di uno dei grandi maestri di questo secolo. Joshua Bell, ciò che
di più vicino a una rockstar esista nel mondo del violino, aveva
accettato d’improvvisarsi musicista di strada nel centro di Washington
un mattino presto all’ora di punta. Per 43 minuti aveva suonato la
Ciaccona di Bach e altri 5 pezzi, raccogliendo 32 dollari e spiccioli da
27 persone; quel giorno nessuno lo riconobbe e un solo passante adulto
si fermò ad ascoltarlo. Per 9 minuti.
Anche in questo lunedì di
gennaio l’uomo che raccoglie qualche moneta agitandosi contro la parete
del metrò è famoso, nel resto della sua vita. È un interprete solido e
raffinato, fra i più grandi d’Italia. Carlo Maria Parazzoli, 51 anni, da
poco meno di venti primo violino solista dell’Accademia nazionale di
Santa Cecilia. In carriera si è esibito con i più celebri direttori e
nelle migliori sale del mondo. Ha suonato musica da camera con Lang
Lang, Martha Argerich, con il mitico direttore e pianista Wolfgang
Sawallisch. Quando c’è lui l’incasso medio di una serata all’Auditorium
della capitale è di alcune decine di migliaia di euro, un buon posto ne
costa circa 50 e non sarà mai situato così vicino alla fonte del suono
come in questo corridoio a Lepanto.
Ma il pubblico nei teatri
conosce un codice non scritto, che detta concentrazione e silenzio in
momenti dati. Il mondo di Parazzoli è questo. E ciò che segue è il
risultato della fredda mattinata di gennaio. Il maestro ha suonato 30
minuti (dalle 8.04 alle 8.34), davanti a lui sono passate 1.760 persone,
nessuno l’ha riconosciuto, in 11 hanno offerto qualcosa, in 4 gli hanno
rivolto uno sguardo aperto e sostenuto per almeno qualche secondo e
quelle 4 persone avevano tutte lo stesso profilo demografico:
frequentano invariabilmente la scuola materna o le prime classi delle
elementari, hanno fra i 4 e i 6 anni di età.
Dopo la performance,
scaldandosi in un bar, Parazzoli prenderà atto che la distinta dei
ricavi presenta 2 monete da 2 euro, 6 da uno, 3 da 50 centesimi, 5 da
20, 3 da 10, 5 da 5 centesimi e una da un cent. Qualcuno deve averne
approfittato per svuotarsi le tasche. In tutto fanno 13 euro e 6 cent.
In uno dei grandi quartieri borghesi di Roma, dove le persone che usano
il metrò vengono da case piene di libri e si affrettano verso uffici —
spesso pubblici — di un qualche prestigio, lo 0,63% dei passanti ha
scelto di fare un’offerta per l’ Adagio e la Fuga di Bach interpretati
da Parazzoli. In un quartiere paragonabile di Washington, Joshua Bell
aveva raccolto contributi dal 2,4% di quelli che l’hanno incrociato.
Non
è un atto d’accusa. Piuttosto questo è un test su come lavorano i muri
che chiudono la nostra mente e quei binari invisibili che ci guidano
sempre verso una direzione data, anche quando ai lati appaiono panorami
stupefacenti. È un modo di riflettere sulla bellezza e sulla
sottigliezza che ci sfuggono tutti i giorni, semplicemente perché non
pensiamo che debbano essere qui. Non ora, non in questo luogo. Convinti
di essere nel pieno delle nostre facoltà, obbediamo al contesto anziché
ai nostri sensi. Confondiamo il valore con il prezzo, prendiamo il
secondo come misura esclusiva del primo. Alcuni studi mostrano che, alla
cieca, spesso tendiamo ad apprezzare vini meno cari ma improvvisamente
preferiamo i più costosi non appena qualcuno ci informa su quanto siano
stati pagati. L’aver speso per un prodotto acuisce la nostra mente e ne
affina la percezione.
Sapere è tutto. Ragguagliate di ciò che sta
realmente accadendo, le quattro addette della biglietteria si alzano in
piedi dietro il vetro dello sportello non appena Parazzoli accenna le
prime note. Non riescono più a lavorare, ascoltano incantate. Ma quando
poco dopo arriva un treno e un’ondata di gente si rovescia fuori dai
tornelli, nessuno degna quell’uomo in golf grigio di uno sguardo. Lo fa
solo una bambina in una giacca a vento bianca, cercando di mimare i
gesti del maestro al violino ma la madre non rallenta e anche la piccola
sgambetta via.
È in quel momento che arriva il direttore della
stazione Lepanto. Nervoso, chiede al maestro di mostrargli
l’autorizzazione per quella performance. Bastano un pezzo di carta, un
timbro. Non ne ha. «Cerchi almeno di abbassare il volume», fa lui. Il
direttore sparisce per qualche minuto, torna per un nuovo tentativo di
cacciare Parazzoli e alla fine si arrende: «Vabbè, dirò che ero in
bagno. Ma lei alle 8.30 se ne vada». Solo le donne si avvicinano per
lasciare dei soldi, gli uomini mai. Ma anche quelle sfuggono con gli
occhi. Depositano le monete sulla fodera rossa — non le gettano, per
rispetto — e si dileguano senza guardare il musicista. La loro pietà
viaggia sempre mista al fastidio. «Anche se al mio posto ci fosse stata
una tela originale di van Gogh, nessuno si sarebbe fermato. Non ci
avrebbero creduto. Abbiamo sempre paura che i nostri piani di giornata
siano sconvolti», dirà Parazzoli più tardi. Ma non per tutte è così.
Alberta Milone, un avvocato di 47 anni, nel tempo libero suona il liuto
rinascimentale e quella mattina sente subito qualcosa di speciale in
quel suono. Lascia due euro. «Ho capito che non era una persona
qualunque, perché non mi ha ringraziata».
Era il primo violino di Santa Cecilia, avvocato.
«Wow. È stato un momento intenso», razionalizza.
In
cima alle scale della metro Elvio Tiburzi, 61 anni, impiegato alla
Corte dei conti, aspetta la collega Gigliola Caratelli per avviarsi con
lei verso l’ufficio. Tiburzi da ragazzo ha abbandonato gli studi di
musica prima del diploma perché era diventato padre molto presto. «Poi
ho suonato un po’ nei piano bar, ma sono di formazione classica. Mia
figlia si è diplomata e ora suona quando la chiamano», dice con un
orgoglio controllato.
Quel mattino Tiburzi non resiste, scende le
scale della metro per controllare da dove viene quel canto di violino.
Vede Caratelli, la collega della Corte dei conti, che ha appena lasciato
una moneta («volevo mostrare che qualcuno capiva cosa stava
accadendo»). Tiburzi si ferma, assorbe ancora un istante di quella
musica sublime, poi un dubbio lo blocca. «Suonava troppo bene — ricorda —
allora ho pensato: mi sa che è un esperimento». E i due colleghi si
sono affrettati verso la Corte dei conti.