Corriere La Lettura 27. 3.16
Anni ’70 , i colori del piombo
C’erano anche voglia di vivere, creatività, irriverenza ma quel periodo cupo non merita di essere rivalutato
di Pierluigi Battista
I
brividi di «Porci con le ali», la ricerca artistica di Pablo Echaurren,
le innovazioni della pubblicità delineano un panorama meno buio di
quanto si potrebbe pensare. Restano però indimenticabili gli anatemi
contro Goffredo Parise, gli attacchi a Elsa Morante, il conformismo
denunciato da Sciascia
«La strage di Piazza Fontana
annuncia gli anni Settanta», scrive Guido Crainz all’inizio del capitolo
dedicato a quel decennio della sua Storia della Repubblica , appena
pubblicata da Donzelli. Con un annuncio così terribile e cruento, il
destino è segnato: quel decennio salutato da un avvenimento tanto
funesto non potrà che essere condannato, vituperato per l’eternità. E
infatti Crainz continua così: in quel decennio dannato e infernale «la
violenza politica conosce asprezze senza paragone con gli altri Paesi
europei. Sono centinaia le persone che perdono la vita in seguito a
stragi, atti terroristici, violenze di piazza: vittime nei primi anni
soprattutto dello stragismo e dello squadrismo neofascista, e poi del
terrorismo di sinistra». Anni bui, anni cupi, anni lugubri, anni di
sangue e di intolleranza. Anni di piombo, secondo una locuzione passata
alla storia anche se nata in un contesto nazionale diverso, raffigurato e
immortalato da un film di Margarethe von Trotta. Ma quella definizione
sembra attagliarsi perfettamente a un Paese «senza», come quello
tratteggiato da Alberto Arbasino in pagine di quell’epoca bulimicamente
saccheggiate da Crainz, quelle in cui si sferza un’Italia «vittima di
abbagli metalmeccanici e velleità petrolchimiche», dove «il cuore della
vita sono i gloriosi pensionati dello Stato, cioè gli operai delle
grandi imprese passive» cantati nei «trip accademici sulla metallurgia
wagnero-mirafior-marxista».
Troppo pessimismo di maniera? Troppa
scontata retorica anti-Settanta, troppi luoghi comuni, troppa voglia di
liquidare un decennio, su cui grava da sempre una spietata damnatio
memoriae , di condannarlo come la matrice e l’ispiratrice di ogni
nefandezza?
Va bene, proviamo a ribaltare il luogo comune.
Proviamo a dimenticare per esempio gli insulti che piovvero copiosi sul
capo del povero Goffredo Parise quando pubblicò nel 1970 il primo dei
suoi Sillabari , accusati dalla più impegnata cultura progressista,
quante volte lo ha ricordato Raffaele La Capria, di intimismo e di
ripiegamento disimpegnato. Dimentichiamo la rozzezza che passava per
afflato rivoluzionario del cinema politico degli anni Settanta, comprese
alcune opere glorificate dei più accreditati registi italiani.
Dimentichiamo la triste sorte della narrativa negli anni Settanta,
confinata negli scaffali più inaccessibili delle librerie, perché
nessuno ci poteva fare niente, né gli editori né i librai, se gli
scaffali più in vista traboccavano di saggistica e di opuscoli politici,
mentre la letteratura ristagnava, e per fortuna che c’erano i classici
che facevano la fortuna delle edizioni tascabili, oppure Cent’anni di
solitudine diventava il romanzo di una generazione politicizzata che ne
aveva fatto il suo manifesto. Ma un romanzo come La storia di Elsa
Morante, avendo spezzato questo clima di dittatura della grande Storia
su quella piccola, quella dei messi a margine nelle fanfare e nei domani
che cantano, venne gratificato da una gragnuola di stroncature.
Proviamo a ribaltare il luogo comune, dunque: e se invece non fosse
stato tutto così plumbeo? Se non fosse poi così vero che la creatività,
la dimensione dei sentimenti, l’attenzione all’estetica e alle forme
abbiano sofferto così tanto?
Per esempio: uno dei libri che hanno
rotto quell’atmosfera è stato Porci con le ali di Lidia Ravera e di
Marco Lombardo Radice. Venne pubblicato nel cuore degli anni Settanta
dalla Savelli, la casa editrice del «Movimento», nella collana
intitolata al «pane e le rose», lo slogan poetico in cui si diceva
quanto fosse urgente che alla dimensione della necessità economica del
«pane» dovessero affiancarsi la bellezza e la gentilezza e il sogno di
una «rosa». Ovvio, tanti anni dopo. Ma allora non lo era. E non lo era
la rivendicazione espressa in quel romanzo che fosse necessario
esplorare una dimensione esistenziale non tutta riducibile al lessico
della politica, ma ricca di turbamenti, brividi, dolori, piaceri: di
vita, insomma. Bene, la copertina di quel libro era di Pablo Echaurren,
il giovane artista del Movimento che in quel decennio fu tra quelli che
si ostinarono a saldare testardamente politica ed estetica, forme,
trasgressione e visione alternativa del mondo.
Per una fortunata
coincidenza oggi si può proprio partire da Echaurren per rileggere gli
anni Settanta con altre lenti. È la coincidenza di una grande mostra che
ne ripercorre l’opera alla Galleria nazionale d’arte moderna, raccolta
nel catalogo Contropittura , con la pubblicazione di un piccolo libro
proprio su Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani
metropolitani , edito da Postmedia-Books, dedicato appunto a un artista
che ha contribuito, scrivono i curatori, a quel «repentino processo di
«massificazione dell’avanguardia» individuato all’epoca da Umberto Eco e
Maurizio Calvesi: guardando alla ricerca artistica del primo Novecento e
del decennio, il movimento si appropria di pratiche come il
détournement , il collage , lo happening per arrivare a una
trasformazione dei linguaggi dominanti. I curatori continuano così,
ricreando l’atmosfera in cui dipinse e disegnò Echaurren, figlio del
grande Roberto Sebastián Matta, negli anni Settanta: «L’anti-Edipo di
Deleuze e Guattari costituisce una lettura fondamentale per la cultura
antirepressiva e antigerarchica del ’77 nella quale abbondano
riferimenti più o meno diretti ai concetti di “macchine desideranti” e
alla “schizoanalisi” teorizzati appunto nell’anti-Edipo, e in cui il
classico sistema ”verticale” di conoscenza e di informazione,
simboleggiato dalla tradizione occidentale della figura dell’albero,
viene sostituito da un nuovo modello di sapere rizomatico, orizzontale,
diramato e frammentario».
È vero. Ed è vero che nel ’77
affiorarono slogan come «siamo tutti Duchamp», ci si consacrò al fascino
del situazionismo, si giocava con i motti di spirito, l’irriverenza, la
trasgressione. Ma basta questo per rileggere con nuovi punti di vista
gli umori e le atmosfere estetiche dei vituperatissimi anni Settanta?
Tanti
libri usciti in questi ultimi tempi, con linguaggi completamente
diversi, sembrano non accontentarsi degli stereotipi e dei luoghi
comuni. Nel suo libro uscito da poco dalla casa editrice Rizzoli, e di
cui ha lungamente scritto sul «Corriere» Paolo Mieli, I nemici della
Repubblica. Storia degli anni di piombo , Vladimiro Satta smonta le
imponenti costruzioni dietrologiche che hanno offuscato la percezione di
un decennio annunciato, come ha scritto Crainz, dall’orrore della
strage di Piazza Fontana, e arriva a dichiarare che le istituzioni
repubblicane, sanguinosamente sfidate dal terrorismo e dallo stragismo,
«hanno vinto e hanno vinto abbastanza bene, nel complesso».
La
lamentazione sul decennio più cruento della storia repubblicana si
rovescia nella constatazione che tutto sommato le nostre istituzioni
hanno retto, e hanno retto «abbastanza bene», addirittura. Non è
un’edulcorazione del giudizio storico, ma la sottolineatura di un
bilancio storico che la vulgata dominante degli anni Settanta non vuole
nemmeno prendere in considerazione. Lo stesso Crainz, partendo da un
punto di vista radicalmente diverso da quello di Satta, vuole ricordare
nelle sue pagine tutto ciò che negli anni Settanta non poteva essere
rinchiuso nelle sbarre di un decennio esclusivamente dedito alla
violenza e alla pratica dell’intolleranza: il riconoscimento
internazionale del design italiano con una grande mostra nel 1972 al
Museum of Modern Art di New York; le «nuove forme di comunicazione
pubblicitaria rivolte spesso ai giovani», dal «Chi Vespa mangia le mele»
alla campagna di Pirella e Toscani per i jeans Jesus «con l’evocazione
di frasi sacre (“Non avrai altro jeans all’infuori di me”; “Chi mi ama
mi segua”)», mentre Giuliano Zincone scopriva, dietro gli slogan
stentorei dell’operaismo dell’epoca, come persino nella classe operaia
mitizzata si stessero annidando i germi detestati dell’«individualismo» e
del «consumismo» disimpegnato.
Certo, resta il fatto che mentre
gli «indiani metropolitani» facevano i beffardi coniando slogan
stralunati e trasgressivi contro Luciano Lama, i gruppi di violenti si
stavano preparando, nella stagione della P38, a cacciare con la forza
militare il dirigente della Cgil, buttato fuori dall’Università di Roma.
E nella memoria e nella letteratura, gli anni Settanta restano come
qualcosa in cui la dimensione della violenza, ma anche della
disperazione, del disagio esistenziale, del dolore umano sembrano
consustanziali a quel decennio, come dimostra il romanzo uscito lo
scorso anno da Einaudi Gli anni al contrario di Nadia Terranova, una
scrittrice nata nel cuore dei Settanta. Un decennio di contrasti,
durezze, storie finite malamente, destini spezzati, come è evidente nel
romanzo di Elena Venditti Non mi abbracciare , pubblicato da Aliberti
Wingsbert House.
E sarà pure un segno troppo labile, ma è comunque
significativo che un bestseller in America e ora pubblicato in Italia
da Mondadori, Città in fiamme di Garth Risk Hallberg, prenda le mosse da
una grande catastrofe, da un evento apocalittico che colpì New York e
che questo evento apocalittico sia irrimediabilmente intrecciato a un
episodio svoltosi negli anni Settanta. Fino alla meritoria pubblicazione
presso Adelphi dei saggi letterari di Leonardo Sciascia, raccolti sotto
il formidabile titolo Fine del carabiniere a cavallo , in cui appare
una polemica di Sciascia contro i detrattori dogmatici dei nouveaux
philosophes , usciti dalla Francia attorno alla metà degli anni
Settanta, e contro una sinistra ancora fortemente incline a demonizzare
chi, anche dalle proprie file, osava «percepire il prurito sotto la
pelle della storia» e mettere in discussione i luoghi comuni della
storia ufficiale: «Siamo inveteratamente condizionati, quietamente
abituati, a considerare di destra, a relegare nella destra tutto ciò che
possa nuocere alla sinistra così com’è».
Questa inveterata
abitudine, un po’ ricattatoria, non si è proprio estinta. C’è bisogno di
rimpiangere il decennio in cui ha mietuto i suoi trionfi?