mercoledì 23 marzo 2016

Corriere
Il cuore ferito della città simbolo diventata la capitale di tutta l’Europa
Non è solo la sede della burocrazia, ma il luogo in cui si decidono i destini di milioni di persone
di Federico Fubini

Nessuno affiderebbe la sicurezza di Washington alla polizia del Distretto di Columbia o ai servizi segreti della Virginia. Nessuno sarebbe sfiorato dall’idea di proteggere così la Casa Bianca o il Congresso Usa, eppure è esattamente quanto accade a Bruxelles. La capitale dell’Unione Europea e sede dell’Alleanza atlantica, la città al centro di un sistema da 508 milioni di abitanti e di un’economia vasta come quella degli Stati Uniti, è protetta come un vecchio insediamento di campagna. Le sue difese dicono tutto della riluttanza dell’Europa ad accettare il ruolo politico che, perversamente, persino gli islamisti gli hanno riconosciuto attraverso il sangue versato ieri.
A Bruxelles si decide in questi mesi il futuro di milioni di profughi siriani e quello della seconda moneta del mondo. Angela Merkel vi si gioca la cancelleria di Berlino, e il suo posto nei libri di storia. Nel frattempo la sicurezza è nelle mani delle autorità belghe e della Région Bruxelles-Capitale. Questo significa che non può neanche contare su un corpo di polizia unificato — in città operano sei distinte forze, su base rionale e clientelare — né su un servizio segreto paragonabile anche solo a quello di una media potenza occidentale. Dopo gli attacchi a Charlie Hebdo a Parigi nel gennaio 2015, il governo belga scoprì che gli mancavano 150 su 750 agenti dell’intelligence; da allora ne ha reclutati 42 ma, scrive Politico , resteranno in addestramento per almeno due anni.
Forse il problema è che Bruxelles è troppe cose in una, riunisce troppe contraddizioni in uno spazio più piccolo di Milano. La popolazione araba è iniziata ad arrivare negli anni 50 dal Marocco, dalla Tunisia e dall’Algeria assieme a quella italiana, turca o portoghese: tutti reclutati nei loro Paesi per le miniere o le acciaierie della Vallonia. Oggi sono di religione musulmana 300 mila bruxellesi, poco più di un quarto degli abitanti della capitale; dal 2013 la Valonia, la regione francofona, ha rinominato la sosta natalizia nelle scuole «vacanze d’inverno» per non urtare nessuna suscettibilità. La grande maggioranza dei musulmani coesiste in pace con le altre comunità. C’è poi una minoranza ambigua abbastanza ampia da aver garantito per mesi la copertura del terrorista Salah Abdeslam a Molenbeek, a mezz’ora di bicicletta dalla Commissione Ue. Lì accanto, al mercato degli scannatoi di Anderlecht, si fatica a riconoscere una sola persona di origine europea in una folla da stadio.
A Bruxelles si cammina per pochi isolati, e può cambiare la lingua ammessa negli uffici pubblici (dal francese al fiammingo). Ancora più spesso in una passeggiata di cinque minuti cambiano gli odori e gli abiti dei passanti, dalle cravatte firmate, alle tuniche salafite, ai copricapo tribali del Congo. La Tour Madou, da dove i funzionari della Concorrenza della Commissione Ue decidono il futuro delle banche italiane, all’interno è perfettamente asettica. Pratica e disadorna in perfetto stile eurocratico. Fuori invece è avvolta dalla popolazione musulmana di Saint Josse, demograficamente debordante e sempre più spesso radicalizzata nei suoi giovani in cerca di identità. Dall’altra parte del quartiere europeo, alle spalle del nuovo e enorme Parlamento, le vie principali di Ixelles sono piene di caffé di gusto francese e di giovani laureati da ogni angolo d’Europa. Ma le piccole traverse sono disseminate di obsoleti Internet café dove figli di immigrati marocchini o bengalesi passano le notti sempre sugli stessi siti web in arabo.
Bruxelles è troppo complessa, importante e simbolica per considerare quello di ieri un attacco solamente al Belgio. Persino i nostri nemici, tragicamente, dichiarano con un atto di guerra che questa è la capitale politica d’Europa e per i cittadini come per i governi è tempo di trattarla come tale. Bruxelles si era preparata per mesi a questa giornata. Sotto Natale il governo belga aveva persino imposto un lungo coprifuoco; eppure ieri, più di un’ora dopo la prima strage in aeroporto, nessuno si era curato di fermare le metropolitane per prevenire il secondo colpo.
Lasciare la sicurezza di Bruxelles al governo belga e alle sue polizie rionali è come pretendere che il governo greco e i pescatori di Lesbo gestiscano da soli le ondate dei rifugiati. Serve una forza di sicurezza europea, lungo i confini e anche nel centro nevralgico dell’Unione. I terroristi che hanno colpito il cuore dell’Unione sembrano capire queste contraddizioni più di noi stessi europei. Facendo esplodere le bombe nell’aeroporto di Zaventem e nel metrò a due passi dalla Commissione e dal Paramento Ue trattano Bruxelles — nel loro modo orrendo — da capitale degli Stati uniti d’Europa. Si vedrà presto se la risposta sarà a questa altezza. O se dopo le lacrime prevarranno ancora le fughe illusorie dietro i muri o le piccole frontiere, dove proprio i nostri nemici vorrebbero rinchiuderci.