Corriere 9.3.16
Istanbul Express
I primi quarant’anni del Novecento cambiarono volto alla città del Bosforo
Un libro di Charles King per Einaudi
di Pietro Citati
Un
viaggiatore fiammingo del Sedicesimo secolo scrisse così di Istanbul:
«Per quanto riguarda il sito della città, sembra che sia stato creato
dalla natura per ospitare la capitale del mondo». La limpida freschezza
dell’acqua, affollata di vascelli e di imbarcazioni di ogni dimensione e
Paese, i raggi del sole a mezzogiorno, che rivestono d’oro le
innumerevoli cupole, i minareti e i palazzi, illuminando un panorama
variegato, conferiscono a questo spettacolo — diceva un viaggiatore del
Diciannovesimo secolo — «una sorta di splendore fatato, che non trova
eguali nella realtà e può essere superato nell’immaginazione solo dalle
creazioni incantate della lampada di Aladino».
In un bel libro
pubblicato da Einaudi ( Mezzanotte a Istanbul , traduzione di Luigi
Giacone), Charles King racconta con estro ed efficacia quale fu e quale
apparve Istanbul nei primi quaranta anni del Ventesimo secolo. Era
minacciata dal fuoco: i grandi incendi erano frequenti e devastanti; i
roghi così familiari che entrarono a far parte della letteratura
folclorica col nome di «poemi epici del fuoco». Appena calava
l’oscurità, scoppiava qualche incendio, in un punto o nell’altro della
città, sul versante europeo o in quello asiatico. Quando la terra non
bruciava, tremava: terremoti radevano al suolo intere aree urbane,
permettendo ad arditi speculatori di ridisegnare il paesaggio secondo i
loro grandiosi progetti.
Verso la fine del Diciannovesimo secolo,
Europa ed Asia si avvicinarono prodigiosamente. Nel 1880 fu fondata la
Compagnie Internationale des Wagons Lits et des Grands Expresses
Européens. Tre anni dopo, in una domenica d’ottobre del 1883, ebbe luogo
il viaggio inaugurale dell’Orient Express: trainato da una potente
locomotiva a vapore, il treno era composto da una vettura-bagagliaio,
due vagoni-letto e una carrozza ristorante illuminata a giorno, oltre a
un vagone merci che chiudeva il convoglio. In ogni vettura, c’erano
venti cuccette, disposte a castello su due piani. Nel 1905 i viaggiatori
salivano sul treno a Parigi, e raggiungevano Istanbul senza mai
abbandonare la propria cuccetta: in quel momento, come scrisse un
giornale dell’epoca, «avvenne l’annessione di Istanbul al mondo
occidentale».
A Istanbul il viaggiatore europeo scendeva nel
quartiere più alla moda, Pera. Lì era stato costruito il Pera Palace
Hotel: il più grandioso albergo in stile occidentale nel cuore del più
grande impero islamico del mondo. Esso faceva parte di una fastosa
catena alberghiera, che comprendeva l’Avenida Palace a Lisbona e
l’Odyssée Palace a Parigi. Come diceva la Guide Bleu, era dotato di
tutti i moderni confort: ascensore, bagni, docce, caloriferi,
illuminazione elettrica; e offriva una magnifica vista sul Corno d’oro.
Snello
ed elegante, con i baffetti e un’incipiente calvizie, Prodromos
Bodosakis era l’immagine stessa dell’élite greca di Istanbul, urbana e
sicura di sé. Aveva acquistato l’albergo dalla società Wagons-Lits.
Ufficiali turchi, inglesi, francesi, tedeschi, imprenditori di ogni
nazione trovavano in lui un albergatore disposto ad accoglierli: mentre
venivano ossequiati festosamente da avventurieri levantini privi di
scrupoli, vere o false principesse decadute, ragazze greche ed armene
dalla moralità inconsistente. Nel 1927 il Pera Palace fu acquistato da
un uomo d’affari musulmano, che risistemò il bar, fece lucidare le
rifiniture in ottone dell’ascensore, riportò in vita la reputazione
dell’hotel come la meta più naturale per i viaggiatori provenienti
dall’Europa. Ogni sera la cena era accompagnata dal suono
dell’orchestra: alle diciassette del venerdì e della domenica, si teneva
un thé concert.
Subito a nord si trovava il locale notturno più
celebre di Istanbul, il Grand bar, aperto da ebrei immigrati dalla
Bulgaria. Ogni pomeriggio, dalle diciassette alle venti, vi erano
matinée musicali, a cui seguiva «ogni genere di bizzarria». Compagnie
musicali in tournée, provenienti da Vienna e Parigi, allestivano
spettacoli di rivista: funamboli e trapezisti si afferravano a volo
nell’aria. A metà degli anni Venti il locale più frequentato era la
grande salle del Maxim: gremito di russi aristocratici, di dilettanti
bohémien, che fumavano e bevevano, mentre una jazz band americana
suonava sul palco. Tutto mutava rapidamente. Con un semplice cambio di
cappello, gli ospiti indossavano il fez, trasformandosi da uomini di
mondo occidentali in signori turchi. Lungo la Grande Rue di Pera,
spuntavano altri locali, il Rose Noire, il Turquoise e il Kit-Kat. Vi si
mangiavano intrugli turchi dai nomi bizzarri: droghe come la canapa
indiana e l’oppio non impedivano di lavorare, lenivano i dolori,
suscitavano un fantastico senso di ebbrezza. La cocaina dilagava nei
nightclub, nei bar e persino nelle hall dei grandi alberghi: un
flaconcino di cocaina stava comodamente nascosto all’interno di un tacco
alto per signora.
La popolazione di Istanbul era variegatissima.
Nel 1923 venivano pubblicati undici quotidiani in turco, sette in greco,
sei in francese, cinque in armeno, quattro in ladino. Le cattedrali
greco-ortodosse si alternavano alle moschee, alle chiese cattoliche, e
ai luoghi di culto degli armeni cattolici, armeni gregoriani, caldei,
anglicani, protestanti tedeschi. Si diffusero gli eunuchi neri, che
avevano rinunziato ai loro organi sessuali in cambio di privilegi. Ma le
popolazioni non musulmane abbandonarono a poco a poco Istanbul:
cinquantamila greci la lasciarono alla fine del 1922.
L’impero
ottomano, questa creazione grandiosa che aveva dominato il Mediterraneo
per secoli, si dissolse. Nel 1923 il sultano ottomano fu deposto. Il
califfato, che aveva incarnato l’idea islamica del potere, scomparve.
Allora i turchi ruppero risolutamente con il passato, rifiutando
l’impero islamico pluriconfessionale. Proclamarono una moderna
repubblica laica, la Repubblica Turca, sotto l’esempio di quella
francese. Il nuovo capo della Turchia, Mustafa Kemal, spostò la capitale
lontano dall’Occidente, ad Ankara. All’improvviso l’ora e la data
diventarono quelle di Parigi e New York, e non di Mecca e Medina. Mentre
tutto tramontava, Istanbul si velò del sentimento di hüzün : quella
sorda e cupa malinconia che contemplava le mura in rovina e la fine di
tutte le cose, ma apriva la strada a un vago futuro.
A Istanbul
nacquero nuovi suoni. Per le strade, ai carri trascinati dai bufali si
mescolarono i tram elettrici e le automobili. Dai sobborghi saliva il
ritmo delle orchestrine jazz: il plettro armeno, le canzoni sentimentali
della malavita levantina; mentre nell’aria si diffondevano le sirene
delle ambulanze, delle camionette militari e delle autocisterne. I
richiami e le grida fastidiose lanciate dalle voci umane, le maledizioni
dei pazzi, gli appelli insistenti dei venditori ambulanti di spezie
gareggiavano con i rumori prodotti dalle tecnologie moderne.
Giunsero
gli europei: non come conquistatori, ma come sfollati e profughi,
vestiti di stracci, travolti dalla miseria e dalla disperazione; e si
mescolavano ai soldati mutilati dell’esercito ottomano. Molti impiegati
dell’amministrazione turca erano rimasti senza lavoro. Alla fine del
1920, le cucine delle truppe alleate sfamavano, a Istanbul,
centosessantacinque mila persone al giorno, quasi un quinto della
popolazione della città prima della guerra.
Giunsero i russi,
spesso aristocratici, fuggendo la rivoluzione sovietica. Quando
scendevano sulle banchine del porto, apparivano i rappresentanti del
Pera Palace Hotel e degli altri alberghi, cercando di accaparrarsi i
nuovi venuti. Durante il periodo dell’emigrazione, in nessun altro
Paese, neppure nei Paesi slavi, i russi si sentirono più a loro agio che
a Istanbul. Avevano portato con sé i resti delle vite passate: sui muri
grandi fogli di carta portavano impressa l’aquila bicipite dell’impero
russo. Nel quartiere di Pera i negozi dell’usato traboccavano di
detriti: argenti, porcellane, fotografie di famiglia, tabaccherie con lo
stemma dei Romanov, uova di Pasqua in porcellana, onorificenze
militari, coltelli cosacchi, icone incorniciate d’argento.
Come
scrisse un ufficiale bianco, Istanbul diventò «una città completamente
russa». Le strade di Pera erano piene di gente che gridava in russo:
«Ciambelle fresche ed appetitose», «noci del Libano!», «vendo a poco
prezzo una camicia assolutamente nuova!». Sulla porta di un ristorante,
il Grand Cercle Moscovite, stava un antico cosacco: il direttore aveva
posseduto una fabbrica a Kiev: lo chef del palazzo dello zar a Livadna
dirigeva le cucine: il maître d’hotel aveva lavorato allo Jar, il
ristorante più famoso di Mosca; tutti i camerieri erano stati ufficiali
dell’esercito zarista. Nella hall del Pera Palace Hotel si trovavano
cavalleggeri della Guardia Imperiale, ufficiali dell’Artiglieria a
cavallo, veterani della guerra russo-giapponese, burocrati dei ministeri
della Giustizia e degli Interni, deputati, medici, avvocati, scrittori,
buddisti provenienti dalla Siberia. Quando si incontrava un mendicante,
si poteva quasi essere certi che parlava russo. La città brulicava di
musicisti e suonatori scesi da Pietroburgo e da Mosca .
Durante
gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, gli ebrei d’Europa
cercavano di fuggire dalla Bulgaria e dalla Romania attraverso il
Bosforo. Il governo turco rifiutò di permettere che essi sbarcassero,
nel timore di cancellare il nome di Paese neutrale; e le autorità
inglesi della Palestina negavano alle navi cariche di ebrei il permesso
di fare rotta verso Haifa. I passeggeri si trasformarono in apolidi.
Giunti da una nazione che non era più la loro, non appartenevano ad
alcun percorso né avevano alcuna destinazione. La bandiera gialla della
quarantena venne issata sull’albero maestro della Struma: la nave venne
rimorchiata al largo: il capitano ricevette l’ordine di tornare in
Bulgaria, ma un sottomarino sovietico prese di mira la nave. All’alba
del 24 febbraio 1942, un’enorme esplosione squarciò lo scafo; e la
Struma si spezzò in due tronconi. Dei settecentoottantacinque ebrei che
erano a bordo soltanto uno sopravvisse .