Corriere 7.3.16
Il vice premier di Tripoli: «Non mandateci 5.000 soldati ma armi e dottori»
Ahmed
Amhimid al Hafar, 45 anni, vice premier del governo di Tripoli. Una
parte della sua famiglia è originaria di Sirte, la città fortezza di
Gheddafi ora nelle mani dell’Isis: «I loro miliziani vengono
dall’estero»
intervista di Lorenzo Cremonesi
TRIPOLI
Il vice-premier del governo di Tripoli, Ahmed Amhimid al Hafar, è uno
degli uomini più influenti della capitale, nato 45 anni fa nell’oasi di
Sabah, una parte della famiglia originaria di Sirte. Lo abbiamo
incontrato ieri sera alle 21 e 30 dopo che per larga parte della
giornata si era occupato del rimpatrio delle salme dei dipendenti della
Bonatti. «I corpi dei due tecnici italiani stanno per essere spediti a
Roma. Mancano alcune procedure burocratiche e mediche. Questione di
ore».
Avete fatto l’autopsia sulle salme?
«La questione è in
mano al procuratore generale dello Stato. I due stranieri andavano
riconosciuti e occorreva verificare che non vi fossero errori
d’identità».
Che messaggio vuole inviare alle famiglie in Italia?
«Sono
addolorato per la morte dei loro cari. E allo stesso tempo sollevato
per il fatto che due italiani siano vivi. Spero si capisca che abbiamo
fatto del nostro meglio per liberarli tutti. L’auspicio è che un giorno
tornino a lavorare in una Libia pacificata».
Lei sa che in Italia
si sta dibattendo sulla questione dell’intervento militare in Libia.
Avete bisogno di aiuto per battere Isis?
«Noi libici abbiamo i
soldati necessari e la volontà per combattere Isis. Ma ci servono armi,
munizioni e sostegno logistico. Abbiamo visto come gli americani e i
loro alleati hanno sprecato tante forze per cercare di battere Isis e
l’estremismo islamico in Iraq, Siria e Afghanistan. Non vorremmo che da
noi si ripetessero gli stessi errori».
Come agire?
«Occorre
cooperare al meglio. Qualsiasi contributo della comunità internazionale
deve essere concordato con il governo di Tripoli, che è l’unico
legittimo in Libia. Ma non servono soldati stranieri, piuttosto sostegno
logistico alle nostre forze militari, che sono ben determinate a
battere Isis».
L’ambasciatore Usa a Roma ha suggerito che l’Italia invii cinquemila soldati .
«Preferiremmo tecnici, dottori, ingegneri. Ci servono civili per ricostruire la Libia, non soldati per distruggerla».
Come intendete cooperare con il governo di Tobruk?
«Il
generale Haftar, che lavora per loro, ha dimostrato che non intende
combattere l’Isis. A Derna i jihadisti del Califfato sono stati cacciati
dalla popolazione. Haftar ha contribuito a devastare Bengasi con le
bombe, non fa nulla contro le roccaforti di Isis a Sirte».
Crede alla formula del governo di unità nazionale tra Tobruk e Tripoli quale premessa per combattere Isis?
«Certo che ci crediamo. Ma non in quella elaborata l’anno scorso dall’inviato dell’Onu, Bernardino León».
Cosa direbbe al premier Renzi se lo incontrasse oggi all’ombra del dramma sofferto dai tecnici della Bonatti?
«Che
il 95% dei libici odia Isis. La sua forza sta nei volontari jihadisti
stranieri che arrivano dall’estero. I miei parenti a Sirte raccontano
che sono in maggioranza giovani tunisini, egiziani, sudanesi,
marocchini, vengono dal Ciad e dal Mali. Non è un caso che liberando gli
italiani a Sabratha i nostri uomini abbiano scoperto che i loro
rapitori erano tunisini».