Corriere 5.3.16
La scoperta raccontata da Carlo Rovelli
Storia delle onde gravitazionali
. Lo spazio s’increspa come un lago
Cento
anni dopo la teoria di Einstein l’annuncio in diretta mondiale sul web:
«Abbiamo rilevato le onde gravitazionali». Il trionfo di un piccolo
gruppo di ostinati ricercatori
di Carlo Rovelli
Il
mondo della fisica era in fibrillazione da settimane. Le regole del
gioco, che servono per ridurre il rischio di falsi allarmi, imponevano
riserbo fino all’annuncio ufficiale, e i colleghi tenevano la bocca
cucita. Ma lo scintillio dei loro occhi li tradiva. In fondo è un Nobel
praticamente certo. Ieri, in un’emozionante conferenza stampa seguita in
diretta sul web nel mondo intero, è arrivato l’annuncio ufficiale:
rilevate le onde gravitazionali. Per i fisici è un momento estatico.
Fino al giorno prima, le uniche onde fondamentali osservate dall’uomo
erano le onde elettromagnetiche, quelle di cui sono fatti i segnali
radio e la luce. Ieri è stato osservato un altro tipo di onda. È come se
dovessimo riscrivere la Genesi, sostituendo «Fiat lux» con «Fiat lux et
gravitatis fluctus». Sono onde un po’ simili a quelle
elettromagnetiche, ma anche qualcosa di diverso e strano: sono
oscillazioni dello spazio. Lo spazio si increspa e oscilla come la
superficie di un lago.
Ne conoscevamo già l’esistenza molto prima di vederle
L’aspetto
più spettacolare di questa storia non è la stranezza della Natura, né
la maestria degli scienziati che hanno costruito l’antenna capace di
rilevare le onde di spazio. Quello che è straordinario è che noi
conoscevamo l’esistenza di queste onde molto prima di vederle: la loro
esistenza è predetta della relatività generale di Albert Einstein, di
cui abbiamo appena festeggiato il centenario. Se la Natura benigna
voleva onorare Einstein a cent’anni dalla sua teoria, ha trovato il modo
più elegante. Difficile immaginare un’indicazione più chiara della
forza di un pensiero che, appoggiandosi sugli indizi e sulla ragione, è
capace di vedere così lontano; tanto che occhi e mani hanno bisogno di
un altro secolo per seguirlo. Per arrivarci, è stata necessaria una
vasta collaborazione internazionale, dove gli italiani hanno — ancora
una volta — un ruolo maggiore. Eravamo convinti che queste onde
esistessero. Ma una cosa è essere convinti che esistano leoni. Un’altra è
cercare un leone vero e guardarlo negli occhi. La differenza è ciò che
chiamiamo «scienza».
Sono state prodotte dallo sfracellarsi di due buchi neri
L’esistenza
di queste «onde di gravità» è conseguenza del fatto che niente va più
veloce della luce. La luce impiega otto minuti per arrivare dal Sole a
noi. Se il Sole fosse spazzato via adesso, magari da una stella di
neutroni che pazzia per la galassia (evento improbabile), che
succederebbe nei successivi otto minuti sulla Terra? Risposta: niente.
Perché non c’è modo qui di sapere che il Sole non c’è più, nessun
messaggio ha avuto il tempo di arrivare. Ma la gravità del Sole tiene la
Terra sulla sua orbita, quindi per otto minuti la Terra sarebbe ancora
attratta dal Sole, anche se il Sole non c’è più! Nel corso di questi
otto minuti, qualcosa deve viaggiare nello spazio, portando
l’informazione che il Sole non c’è più, e l’attrazione del Sole deve
spegnersi. Questo qualcosa, è un’onda gravitazionale: il propagarsi
rapido di una minuta deformazione dello spazio. Le onde osservate ora
dal Ligo (Laser interferometer gravitational-waves observatory:
osservatorio di onde gravitazionali a interferometria laser) sono state
prodotte da un evento catastrofico: lo sprofondare di due buchi neri uno
nell’altro. Erano ciascuno pesante diverse decine di volte il Sole, e
nel loro sfracellarsi spiraleggiando l’uno sull’altro hanno irradiato
nello spazio una quantità di energia pari a tre interi «Soli»
vaporizzati in pochi istanti. La violenza dell’evento ha prodotto onde
che come uno tsunami galattico hanno viaggiato milioni di anni nello
spazio interstellare e ora sono arrivate a sciabordare, indebolite,
sulle nostre antenne.
Il ruolo dei fisici italiani
Un’antenna
per osservare queste deformazioni dello spazio è semplice in linea di
principio. Basta prendere due oggetti, due palle appese a un filo, e
misurare con precisione la distanza fra loro. Un’onda gravitazionale fa
cambiare, oscillare, la distanza, perché lo spazio si stira e si tira
come un filo per stendere che oscilla al vento. Il problema è che il
cambiamento è piccolo, e rilevarlo richiede ingegneria avanzatissima.
Ligo misura la distanza fra due grandi masse sospese a distanza di
qualche chilometro, per mezzo di un laser che rimbalza fra le due e fa
interferenza con un secondo laser che rimbalza fra due masse disposte a
novanta gradi. Per questo le antenne sono costruzioni con due lunghi
bracci perpendicolari. Il leggero sfasamento fra i due bracci è quello
che si misura. In Italia c’è una simile antenna presso Pisa, chiamata
Virgo, parte integrante della vasta collaborazione che ha portato al
risultato di ieri. Anche Virgo ha due bracci lunghi qualche chilometro. È
uno spettacolo visitarli. Virgo non era accesa quando c’è stato
l’evento celeste visto da Ligo, ma i fisici italiani che hanno costruito
Virgo hanno giocato un ruolo essenziale. L’Italia è in primissima fila
nel mondo e la ricerca delle onde gravitazionali è di antica tradizione
da noi — risale alla lungimiranza di Edoardo Amaldi, allievo di Enrico
Fermi, padre nobile della fisica italiana del dopoguerra e del
dipartimento di Fisica a Roma — ed è stata condotta su molti fronti.
Ricordo, studente a Trento, le esplorazioni artigianali e geniali di
Massimo Cerdonio e Stefano Vitale che, forse troppo in anticipo sui
tempi, provavano a usare i superconduttori come piccole antenne per
rilevare le onde di spazio… Un briciolo di amarezza di non essere stati i
primi a «vedere», ma anche per i fisici delle onde gravitazionali
italiani è momento del trionfo: Virgo è, come Ligo, un macchina
straordinaria che ora diventa un fantastico telescopio per osservare
l’universo. Perché quello di ieri non è un punto di arrivo, è un punto
di partenza: abbiamo aperto nuovi telescopi sull’universo. Siamo al
punto in cui Galileo, dopo aver perfezionato il suo cannocchiale, è
riuscito a usarlo per vedere il cielo. Quello che vedremo, nuovamente,
ci stupirà.
Quella cena con Isaacson negli anni Novanta
Alla
costruzione di queste antenne hanno partecipato decine di fisici,
tecnici, ingegneri, e torme di studenti. Per decenni. Nei primi anni
Novanta ero giovane professore in America, e Richard Isaacson era venuto
a Pittsburgh, dove insegnavo. Richard era il responsabile per la fisica
della gravitazione della National science foundation, l’agenzia
americana che assegna i fondi per la ricerca scientifica. Aveva appena
deciso, in prima persona, come si usa in America, di investire fondi
cospicui per Ligo. L’obiettivo era rilevare le onde in cinque anni. Io
avevo manifestato perplessità. Lui, di passaggio da Pittsburgh, voleva
capirne i motivi. Cenavamo assieme a un piccolo tavolo in uno di quei
simpatici ristoranti etnici che costellano le zone universitarie
americane. Mi chiese se avessi dubbi sull’esistenza delle onde
gravitazionali. «Praticamente nessuno». Critiche al principio della
misura? «No», tutto limpido. Allora? Le onde sono deboli, ricordo gli
risposi, e prima che la tecnologia arrivi a vederle, passerà tempo. Gli
chiesi cosa gli desse la convinzione che ci si potesse arrivare. La
risposta fu netta: la fiducia in Kip Thorne. Kip è uno dei grandi
relativisti. Lavorava a Caltech. È lo stesso Kip Thorne che ha
partecipato alla scrittura del film Interstellar: merito suo se oggi
anche l’uomo della strada si è convinto che sia possibile rincontrare la
propria figlia, più anziana di sé. Qualche anno dopo, incontratolo a
una conferenza, gli chiesi cosa gli avesse dato la sicurezza per
convincere Isaacson della fattibilità della misura. Kip ha aspettato a
lungo prima di rispondere, guardandomi negli occhi. Poi mi ha chiesto:
«Secondo te non dobbiamo provarci?». Sono passati venticinque anni.
Finalmente ho capito: aveva ragione Kip. Oggi abbiamo visto le onde
gravitazionali.
La fede nella ragione
È un trionfo per la
scienza, un ennesimo trionfo per Einstein, un trionfo per Thorne e
Isaacson, e la loro scommessa da poker. È un trionfo per una piccola
comunità di ostinati ricercatori, in America come in Italia, che ha
passato la vita a costruire delle macchine fantastiche, con
finanziamenti molto più piccoli di quelli del Cern, inseguendo un sogno:
vedere onde di tipo completamente nuovo, che nessuno aveva mai visto
prima. Un sogno basato su una fede strana, la fede che la ragione
scientifica funzioni: che le deduzioni logiche di Einstein e della sua
matematica siano affidabili. Solo che la fede nella ragione è una fede
peculiare: una fede a cui non si crede davvero fino in fondo, si chiede
sempre di controllare. Abbiamo controllato. Ci sono. È un grande giorno
per la scienza. Per fortuna Isaacson non ha badato ai miei dubbi.
Quella cena con Isaacson negli anni Novanta
Alla
costruzione di queste antenne hanno partecipato decine di fisici,
tecnici, ingegneri, e torme di studenti. Per decenni. Nei primi anni
Novanta ero giovane professore in America, e Richard Isaacson era venuto
a Pittsburgh, dove insegnavo. Richard era il responsabile per la fisica
della gravitazione della National science foundation, l’agenzia
americana che assegna i fondi per la ricerca scientifica. Aveva appena
deciso, in prima persona, come si usa in America, di investire fondi
cospicui per Ligo. L’obiettivo era rilevare le onde in cinque anni. Io
avevo manifestato perplessità. Lui, di passaggio da Pittsburgh, voleva
capirne i motivi. Cenavamo assieme a un piccolo tavolo in uno di quei
simpatici ristoranti etnici che costellano le zone universitarie
americane. Mi chiese se avessi dubbi sull’esistenza delle onde
gravitazionali. «Praticamente nessuno». Critiche al principio della
misura? «No», tutto limpido. Allora? Le onde sono deboli, ricordo gli
risposi, e prima che la tecnologia arrivi a vederle, passerà tempo. Gli
chiesi cosa gli desse la convinzione che ci si potesse arrivare. La
risposta fu netta: la fiducia in Kip Thorne. Kip è uno dei grandi
relativisti. Lavorava a Caltech. È lo stesso Kip Thorne che ha
partecipato alla scrittura del film Interstellar: merito suo se oggi
anche l’uomo della strada si è convinto che sia possibile rincontrare la
propria figlia, più anziana di sé. Qualche anno dopo, incontratolo a
una conferenza, gli chiesi cosa gli avesse dato la sicurezza per
convincere Isaacson della fattibilità della misura. Kip ha aspettato a
lungo prima di rispondere, guardandomi negli occhi. Poi mi ha chiesto:
«Secondo te non dobbiamo provarci?». Sono passati venticinque anni.
Finalmente ho capito: aveva ragione Kip. Oggi abbiamo visto le onde
gravitazionali.
La fede nella ragione
È un trionfo per la
scienza, un ennesimo trionfo per Einstein, un trionfo per Thorne e
Isaacson, e la loro scommessa da poker. È un trionfo per una piccola
comunità di ostinati ricercatori, in America come in Italia, che ha
passato la vita a costruire delle macchine fantastiche, con
finanziamenti molto più piccoli di quelli del Cern, inseguendo un sogno:
vedere onde di tipo completamente nuovo, che nessuno aveva mai visto
prima. Un sogno basato su una fede strana, la fede che la ragione
scientifica funzioni: che le deduzioni logiche di Einstein e della sua
matematica siano affidabili. Solo che la fede nella ragione è una fede
peculiare: una fede a cui non si crede davvero fino in fondo, si chiede
sempre di controllare. Abbiamo controllato. Ci sono. È un grande giorno
per la scienza. Per fortuna Isaacson non ha badato ai miei dubbi.