Corriere 31.3.16
Fare industria con i soldi di tutti
Teoria, prassi e sperperi dello Stato imprenditore in un’analisi critica di Franco Debenedetti
di Antonio Polito
«Anche
nelle maggiori ristrettezze, i denari del pubblico si trovano sempre,
per impiegarli a sproposito». Alessandro Manzoni conosceva così bene il
nostro carattere nazionale (tendiamo facilmente a dimenticare che il
denaro pubblico è nostro), da meritarsi la citazione d’apertura nel
nuovo libro di Franco Debenedetti, vera e propria biografia di un’idea
(anzi, di «un’insana idea», come è definita nel sottotitolo). L’idea è
quella della «politica industriale», e cioè di una «politica in cui
l’attività industriale è svolta più o meno direttamente dal potere
pubblico», che ha percorso la storia d’Italia da Giolitti a Renzi, e che
ancora oggi resta popolare sia nel senso comune di molti italiani sia
nella prassi di tanti politici. La convinzione insomma che tocchi allo
Stato Scegliere i vincitori, salvare i perdenti della competizione
economica (come nel titolo del volume in libreria da oggi per Marsilio).
Ma
un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione. Lo sapeva bene
Giorgio Gaber, che aggiungeva: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto
la mia rivoluzione». E in effetti l’idea è di sinistra, ma in Italia
l’hanno mangiata altri, e ci hanno davvero costruito su una rivoluzione.
Prima Mussolini, che diede vita all’Iri credendola temporanea per
rispondere alla Grande Crisi del 1929. E poi, nello snodo cruciale del
dopoguerra, quando si trattò di decidere se sciogliere l’Iri o
confermarla, toccò alla Dc appropriarsi dell’idea fin dal Codice di
Camaldoli del 1943, che si ispirava insieme alla dottrina sociale della
Chiesa e al New Deal rooseveltiano. Mentre la sinistra del tempo, il
Pci, fu almeno all’inizio contraria: ostile a una programmazione di
stampo sovietico, ma anche a un riformismo socialdemocratico, «non
trovava altra soluzione che una ricaduta totale nel liberismo, nel
lasciar fare», come ha notato Vittorio Foa.
«In quegli anni si
affermò», scrive Debenedetti, «la convinzione tutta ideologica che
l’attività diretta dello Stato in economia possa rimediare ai mali —
disoccupazione, arretratezze, iniquità — e portare il bene — crescita,
protezione, innovazione — che, se può, deve, e se deve, che ottenerlo
sia un diritto». La politica si comportò insomma come il gran
cancelliere di Milano nei Promessi Sposi : «Costui vide, e chi non
l’avrebbe veduto, che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una
cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine
potesse bastare a produrla».
La prassi della politica
industriale, almeno nella senescenza della Prima Repubblica, più che una
politica per l’industria produsse industrie per la politica (ci fu un
tempo in cui l’Iri era della Dc, l’Eni del Psi e l’Efim del Psdi). Ma
l’idea ha avuto una sua grandezza e megalomania, anche in campi lontani
dall’industria. Pensate per esempio alla cultura. «Ancora oggi non c’è
praticamente discussione nella quale il modello Bbc non venga evocato
come platonica idea di servizio pubblico». Oppure pensate alla
giustizia. «Non mi vengono in mente», scrive l’autore, e devo convenire
che non vengono in mente neanche a me, «casi in cui l’intervento della
magistratura non vada nella direzione di aumentare il controllo da parte
dello Stato e di restringere la libertà dei cittadini come imprenditori
e consumatori. E non ne ricordo nessuno in cui l’intervento vada invece
nella direzione di eliminare ostacoli all’iniziativa economica
privata... L’articolo 41 della Costituzione è specchio di questo
pregiudizio: dichiara l’iniziativa economica ‘”libera’ ma fintantoché
“non in contrasto con l’utilità sociale”».
D’altra parte, oltre
che la biografia di un’idea questo libro è anche una autobiografia.
Perché la politica industriale e l’autore hanno la stessa età (l’Iri e
Debenedetti sono nati entrambi nel 1933); perché l’autore ha un lungo
passato di dirigente d’industria che ha militato in entrambe «le metà
del cielo», come lui chiama l’industria pubblica e quella privata, e
dunque ha osservato da vicino le conseguenze negative che la politica
industriale ha avuto anche sull’impresa privata (rivelate per esempio
dalle inchieste di Tangentopoli); e anche perché l’autore ha un
fratello, Carlo De Benedetti, che in molte delle vicende narrate nel
libro si è mosso da protagonista, vincendo o perdendo, e dunque il
racconto di Franco va letto con un grano di sale perché inevitabilmente,
e spesso dichiaratamente, partigiano.
La fine della politica
industriale è stata segnata dall’accordo Andreatta-Van Miert del 1993
che diede il via alla grande stagione di privatizzazioni, ma dura ancora
lo strascico di polemiche che si è lasciata alle spalle. Per esempio da
parte di chi la rimpiange come un’occasione ormai perduta di avere
grandi industrie e campioni nazionali. Debenedetti risponde con
puntiglio alla teoria dei «fallimenti di mercato», ripercorrendo le
travagliate vicende di Olivetti e Telecom. E contrattacca ciò che resta
oggi, al tempo di Renzi, del dirigismo: «Il posto dell’ideologia è stato
preso da una sorta di pragmatismo, e proprio perché nessuno sembra
potergli attribuire propositi sistemici di politica industriale, Renzi
si ritiene libero di fare interventi che però ne hanno gli stessi
presupposti e conseguenze». Residuati bellici di una guerra ormai
finita, come il caso Ilva, il piano «banda larga», le ottomila aziende
municipali, le regolamentazioni inutili per tentare di fermare la
sharing economy . In definitiva, l’immarcescibile e pericolosa voglia di
chiunque entri nella stanza dei bottoni, di schiacciare qualche bottone
.