mercoledì 2 marzo 2016

Corriere 2.3.16
Le fiamme di Calais
La rabbia dei migranti che incendiano le baracche: «Ma dov’è l’Europa?»
di Marco Imarisio

CALAIS L’unico punto di luce è un bar dove soffia il generatore. La strada che porta a quel che resta della giungla è completamente accecata da un black out. I cronisti stranieri siedono in una piccola sala, con gli uomini di scorta fuori dalla porta. E proprio mentre il viceprefetto Vincent Berton dice con fare rassicurante che la situazione è sotto controllo, lo sgombero dell’area sud procede spedito e tranquillo, una esplosione risuona nell’aria. Un poliziotto accorre per dire che non è niente, soltanto una bombola a gas. Ma i fuochi e le urla che si levano dalla zona sotto sgombero, denominata Lotto 1, non ispirano certo un’idea di quiete.
I pompieri spengono i cinque incendi delle baracche e delle masserizie, circondati da un cordone di poliziotti in assetto anti-sommossa che agitando i manganelli impediscono a chiunque di avvicinarsi. Alcuni migranti hanno bruciato per protesta le pareti di legno ormai divelte e gli oggetti delle baracche che hanno abitato per mesi, per anni interi. «Una volta che avrete spaccato tutto» chiede Najm rivolto in maniera polemica alla squadra di operai addetti alla demolizione che sta lasciando il campo «noi dove andremo?». Nessuna risposta. Il giovane sudanese raccoglie un sasso e lo lancia in direzione del gruppo di uomini con il giubbotto arancione, ma in aria, stando bene attento a non colpire nessuno.
L’evacuazione della più grande bidonville d’Europa avviene in uno stato di calma apparente, tra comunicati ufficiali che tendono a sopire e manifestazioni di rabbia come quella di Ahmed, un anziano iracheno che si rifiuta di scendere dal tetto della sua baracca mentre una decina di agenti cerca di tirarlo giù afferrandolo per i piedi, e intanto mostra un lenzuolo con sopra la scritta «Dov’è l’Europa?».
Le associazioni umanitarie denunciano la violazione dell’ordinanza del tribunale di Lille, che nell’autorizzare lo sgombero aveva espressamente vietato l’impiego dei bulldozer. La replica delle autorità è che le macchine entrate nel campo servono a spianare il terreno mentre le casette vengono demolite a mano. Sono distinzioni che rivelano la precarietà di questa operazione destinata a durare settimane, dove nessuno può prevedere quel che potrà accadere.
«Il vostro avvenire non è qui, abbiamo delle proposte per voi, potete scegliere». Serge Szarzynski, capo dell’ufficio della coesione sociale del Pas-de-Calais, si aggira parlando al megafono ai profughi diposti in cerchio intorno a un fuoco acceso per sfuggire al freddo. Ci sono tre possibilità. La prima è quella di «un letto al caldo nei container che abbiamo preparato per voi» al Cap, il centro di accoglienza provvisorio proprio accanto alla giungla, delimitato da un poco invitante recinto di filo spinato. La seconda prevede l’assegnazione di una tenda blu della Protezione civile, sempre più lontano dal mare che tutti i profughi giunti fin qui desiderano attraversare. E infine la soluzione più caldeggiata dalle autorità, come testimoniano i pullman sul piazzale con il motore sempre acceso: la partenza immediata verso uno qualunque dei 102 Cao di Francia, i centri di accoglienza e orientamento dove la richiesta di asilo viene effettuata in automatico.
I profughi ascoltano, qualcuno annuisce, ma si capisce che lo fa solo per deferenza verso l’autorità. Si tratta di un dialogo tra sordi, lo dimostrano anche i numeri. Da quando è cominciato lo sgombero, e siamo ormai al secondo giorno, solo 130 sui 3.500 residenti della zona sud hanno accettato di partire. Almeno ottanta baracche sono già state rase al suolo. Ma quasi tutte le persone che le abitavano continuano a girare intorno alla bidonville. «Grazie, ma non vogliamo partire, e se foste al nostro posto anche voi fareste lo stesso». Una volta sceso dal tetto, Ahmed dà prova di saggezza. «Siamo scappati da Paesi in guerra, abbiamo vissuto tante violenze sulla nostra pelle, solo per arrivare in Inghilterra. Ormai ci siamo quasi, non potete rimandarci indietro».
È questa la tragedia, o il paradosso, della giungla di Calais. Migliaia di persone sono ferme da anni in Francia, un Paese dove non vogliono stare, perché sognano di andare in Inghilterra, un Paese che non vuole neppure sentir parlare di loro. Non accettano di tornare indietro, di allontanarsi dal mare. E sono disposti a tutto, anche al peggio.
A sera inoltrata il gruppo di Najm e gli altri ragazzi sudanesi compulsano i telefonini alla ricerca della strada più breve per arrivare a Dunkerque, sulla costa, a 35 chilometri da Calais. La loro meta è l’accampamento nel bosco di Grande-Synthe. Dallo scorso autunno ci vivono in condizioni disumane, immersi nel fango e nell’indifferenza, oltre tremila profughi curdi. È l’altra giungla, la più feroce. Quella dove davvero finisce l’Europa.