Corriere 29.3.16
Paganesimo al tramonto
di Paolo Mieli
I tentativi d’incontro e le persecuzioni nel rapporto tra l’impero e i cristiani
L
a memoria, sostiene Giancarlo Rinaldi nell’introduzione a Pagani e
cristiani. La storia di un conflitto (secoli I – IV) di imminente
pubblicazione per i tipi dell’editore Carocci, «condanna gli sconfitti».
È capitato alla vasta produzione pagana di contenuto anticristiano, che
pure ha avuto una parte fondamentale nella cultura dei quattro secoli
iniziali del primo millennio. I documenti della «reazione pagana» sono
scomparsi e quella che era la «voce della parte soccombente»,
all’indomani del trionfo della Chiesa, fu «deliberatamente ostracizzata e
cancellata perché ritenuta perniciosa». Sicché gli storici sono
costretti a lavorare su frammenti e citazioni «tutte punte di iceberg
che ci fanno intravedere la profondità e la vivacità di un dibattito»
che in quei quattrocento anni fu «ampio e serrato».
Ma, a dispetto
di questa ricchezza, nei manuali si è soliti ricavare un misero
capitoletto nel quale vengono confusamente ricordati i principali
polemisti anticristiani, relegandoli così «in una sorta di circoscritta
riserva indiana». Per di più in «note avulse dal complesso della
ricostruzione storica generale la quale è invece ricavata di norma da
fonti cristiane». A guardar bene, però, molte delle argomentazioni
anticristiane messe in campo, secoli dopo, dall’Illuminismo fino ai
nostri giorni, «possono considerarsi alla stregua di ombre sbiadite
delle riflessioni di un Celso, un Porfirio o un Giuliano imperatore».
Il
libro davvero importante di Rinaldi costituisce, perciò, un doveroso
tentativo di avviare una ricostruzione dell’identità pagana. E, nel
contempo, di comprendere come fu possibile che una forma di cultura
religiosa così ben radicata del mondo antico, sia potuta soccombere di
fronte all’avanzata di un nuovo credo religioso. Il cristianesimo era
allora «una variante marginale della religione del popolo giudaico», il
quale, a sua volta, veniva considerato «un’etnia esotica e circoscritta
prodotta dalla piccola provincia della Giudea, detta poi Siria
Palestina, terra estremamente periferica mortificata dal fallimento
delle insurrezioni del 66-70, del 115-117 e del 132-135». In più, quella
cristiana, a differenza della religione giudaica, non «ebbe carattere
di liceità», se non dall’epoca dell’imperatore Gallieno (260) e poi da
Galerio (311) e, in modo più definitivo, dall’editto di Costantino (313)
in poi.
Che cosa fu allora che rese a tal punto fragili i culti
pagani da farli soccombere sotto i colpi di una religione all’epoca
minoritaria e praticata fuori dalle leggi? E che cosa fu in sé il
paganesimo? Questi temi sono stati ben affrontati, tra gli altri, da
Pierre Chuvin in Cronaca degli ultimi pagani (Paideia) e, in tempi più
remoti, da Pierre De Labriolle, da Wilhelm Nestle nella Storia della
religiosità greca (La Nuova Italia) e da Robert Louis Wilken in I
cristiani visti dai romani (Paideia). Ma è solo con il saggio di Rinaldi
che si tenta di dare una risposta definitiva e compiuta agli
interrogativi di cui sopra.
Ai pagani, scrive l’autore, parve che
la religione predicata da Gesù e tramandata dai suoi seguaci fosse una
proiezione del giudaismo. I cristiani furono «schiacciati dall’ingente
coacervo di giudizi e pregiudizi antigiudaici diffusi nel mondo
ellenistico romano e dalla loro carenza del requisito dell’antichità che
i giudei invece possedevano». Giudei nei confronti dei quali la
polemica pagana era stata reiterata nei tre secoli che precedettero la
nascita di Cristo. Da parte di Ecateo di Abdera all’epoca di Tolomeo I
Sotere (323-283 a.C.), da Manetone, sacerdote di Eliopoli e
collaboratore dello stesso Tolomeo per la promozione del culto di
Serapide. E ancora da Lisimaco, che descrisse gli ebrei come un popolo
di accattoni malati dediti all’assassinio e alla profanazione. Da
Timagene, un personaggio influente nella Roma augustea.
I
cristiani avrebbero potuto non essere contagiati da quel pregiudizio.
Secondo l’ Apologeticum del cartaginese Tertulliano (155-230),
l’imperatore Tiberio avrebbe ricevuto da Ponzio Pilato una relazione
quasi rivoluzionaria in margine proprio al processo a Gesù. Pilato che,
secondo Tertulliano, «già nel suo intimo era divenuto cristiano»,
avrebbe spiegato all’imperatore che i seguaci di Gesù non avevano, a
differenza dei giudei, atteggiamenti antiromani e lo esortava, di
conseguenza, a sottoporre al Senato un parere di legittimità a favore
del nuovo culto. Tiberio avrebbe fatto sua l’iniziativa suggerita da
Pilato, ma il Senato avrebbe respinto la proposta, ritardando di due
secoli e mezzo la conciliazione di Roma con il cristianesimo. Una grande
quantità di storici ha preso le distanze da questa ricostruzione
ritenendola «inficiata da una finalità apologetica». Ma altri si sono
spesi a favore della credibilità di queste tesi: Giovanni Papini, Luigi
Pareti, Carlo Cecchelli, Edoardo Volterra e, in modo assai argomentato,
in I cristiani e l’impero romano (Jaca Book), Marta Sordi.
Pilato
«divenuto cristiano»? Come si concilia quel che scrisse Tertulliano con
il processo a Gesù? E perché sarebbe stato deciso di incolpare gli
israeliti? In un notevole libro appena pubblicato, Ponzio Pilato. Un
enigma tra storia e memoria (Einaudi), Aldo Schiavone scrive che
Tertulliano probabilmente sapeva del processo a Gesù cose che non ci
sono state tramandate. In particolare, che gli fosse nota una tradizione
secondo la quale il comportamento di Pilato veniva spiegato come «un
arrendersi alla potenza della profezia di Gesù su se stesso,
all’inevitabilità della morte del prigioniero». Era, sostiene Schiavone,
una verità complicata da raccontarsi, che poteva essere facilmente
fraintesa, e «spezzare quel delicato bilanciamento tra libero arbitrio e
precognizione del disegno di Dio». Un equilibrio fra natura umana e
divina di Gesù, che faceva del sacrificio del Figlio «una tragedia senza
confronti e non la recita di un copione prestabilito». E qui si giunge
alle «colpe» degli ebrei.
Perché il rischio di cui sopra venisse
evitato, prosegue Schiavone, occorreva che fossero indicati chiaramente e
senza dubbi i responsabili della morte di Cristo, che erano stati
liberi di decidere: fra Pilato e i sacerdoti la scelta non poteva che
restare ambiguamente aperta; senza dire dell’idea, maturata subito, di
spostare sull’intero popolo di Giudea la colpa per quanto era accaduto.
Se si fosse ammesso che il prefetto aveva ceduto a quel che aveva
ritenuto la manifesta volontà di Gesù, si sarebbe aperta la strada a
mille interpretazioni, tutte potenzialmente fuorvianti rispetto
all’impianto teologico della nuova religione. Interpretazioni che
avrebbero potuto sminuire il valore di quel gesto letteralmente senza
eguali: il martirio del Figlio di Dio per la salvezza dell’intera
umanità. Sarebbe insomma venuta alla luce una «tacita intesa» tra Pilato
e Gesù, «favorita dalla stessa asimmetria fra i due interlocutori». In
seguito le due tradizioni, quella pagana e quella cristiana, avrebbero
fatto di tutto per occultare questa intesa «anche se al prezzo di
rendere l’intera vicenda quasi inspiegabile e di gettare su di essa
l’ombra dell’enigma e dell’incomprensibilità». Convincente.
Tanto
più che, ricorda Schiavone, la decifrazione di questa vicenda aveva
continuato «a rimanere per un certo tempo nell’aria, invisibile per la
sua stessa trasparenza, ma non del tutto cancellata». La prova? Alla
fine del IV secolo la Chiesa stabilì di aggiungere al ricordo della
morte di Gesù una curiosa menzione del nome del prefetto — «fu
crocefisso per noi sotto Ponzio Pilato» — senza peraltro indicarlo come
responsabile dell’uccisione del figlio di Dio. Schiavone giustamente
ritiene che ciò non sia accaduto per fissare una cronologia (nel caso
sarebbe stato indicato Tiberio), ma «per qualcosa di più sostanziale».
In quella scelta «c’era l’eco ormai lontana di un ricordo, di un conto
da chiudere, di una verità da non perdere del tutto». Quei nomi
«dovevano stare insieme, come in quella mattina in cui si consumò
l’indicibile».
Convinto da Pilato, riprende Rinaldi sulla scia
degli studi di Marta Sordi, Tiberio avrebbe voluto favorire la
diffusione del pacifico «movimento gesuano», conferendogli uno status di
religio licita . Ma il Senato si sarebbe opposto. C’è una prova logica
della plausibilità di questa tesi? Sì. Tertulliano era un apologeta
cristiano e non gli avrebbe fatto comodo rievocare una «bocciatura da
parte del Senato della religione che difendeva». Marta Sordi ha inoltre
ipotizzato che Tertulliano avrebbe derivato le notizie di cui qui si
parla dagli Atti del martire Apollonio, il quale nell’età di Commodo
sarebbe stato messo a morte proprio in virtù del senatoconsulto
negativo.
Dopo questo mancato incontro iniziale la storia dei
rapporti tra pagani e cristiani si è tradotta in una complicata partita
durata appunto quattro secoli, nella quale era parso a lungo che gli
antichi culti fossero destinati a prevalere. Persino all’epoca di
Costantino, cioè all’inizio del quarto secolo. Costantino infatti non
represse i culti pagani, ma si limitò a disciplinarli. L’ excursus di
Rinaldi degli anni che precedettero la svolta costantiniana è davvero
accurato nella descrizione dei dettagli di questo tortuoso tragitto, tra
persecuzioni, tolleranza, accettazione.
Dalla dichiarata ostilità
di Marco Aurelio (161-180) del quale Rinaldi scrive eufemisticamente
che «non nutrì soverchia simpatia nei riguardi del fenomeno cristiano».
All’aggressione del filosofo platonico Celso, che (intorno al 178) prese
di mira la pluralità dei Vangeli: «Alcuni dei fedeli poi, come se in
seguito all’ubriachezza arrivassero ad azzuffarsi tra loro, riscrivono
tre, quattro, tante volte la primitiva stesura della buona novella e la
rimaneggiano al fine di poterla rinnegare di fronte alle confutazioni»,
ironizzò. Dall’apertura di Settimio Severo (193-211), ingiustamente
consegnato alla memoria di un editto che vietava le conversioni al
giudaismo e al cristianesimo ma che, in realtà, si avvalse della
collaborazione del cristiano Marco Aurelio Pròsene. Alla «cordialità»
dei rapporti tra cristiani e domus imperiale ai tempi di Alessandro
Severo (222-235). Per concludersi con un singolare punto di convergenza
che si ebbe al momento della battaglia di Adrianopoli (378), allorché i
goti sconfissero sul campo i romani e uccisero il loro imperatore,
Valente.
In questa occasione cristiani e pagani ebbero un’identica
reazione alla tragedia. Gli uni e gli altri si persuasero, a un tempo,
che si trattasse di un castigo divino. Una vendetta, ritennero i seguaci
di Cristo, contro chi aveva favorito la fazione ariana. Una punizione
per non aver ostacolato la «novità cristiana», sostennero i pagani. Che
insistettero su questa tesi nel 410, quando Alarico, alla testa degli
stessi Goti, mise a ferro e fuoco Roma. «Il sacco di Roma», precisa
Rinaldi, «in sé e per sé non sembra aver avuto alcun effetto di
spartiacque nella storia». Ma, se si esaminano le riflessioni dei
pagani, ci si può rendere conto che l’avvenimento «fece emergere un
fiume carsico di paure e polemiche che partivano tutte dalla convinzione
che l’abbandono dei culti tradizionali aveva comportato per Roma (e il
suo impero) la rottura della pax deorum , dando la stura a un declino
che si stava trasformando in catastrofe». Catastrofe per Roma. E anche,
pressoché definitiva, per il mondo pagano.