Corriere 29.3.16
Renzo Piano
«Costruire le nuove città contro la barbarie. La politica? Voterò sì al referendum sul Senato»
intervista di Aldo Cazzullo
L’
atelier di Renzo Piano è a un passo dal Beaubourg, l’opera che
quarant’anni fa lo impose al mondo. Cento ragazzi da 18 Paesi diversi
lavorano a un ospedale in Uganda, alla biblioteca di Atene, al museo
archeologico di Beirut, al campus della Columbia a Harlem, a un centro
culturale alla periferia di Mumbai. Qui si pensano le nuove città contro
la barbarie. È vuoto il tavolo di Raphael, tedesco ucciso al Petit
Cambodge il 13 novembre scorso: era con altri otto colleghi, Emilie si è
presa una pallottola nella spalla; nessuno è scappato, tutti si sono
aiutati l’un l’altro. Un altro giovane di studio, americano, era al
Bataclan, è sopravvissuto. Renzo Piano sulla scrivania tiene le bozze
del libro in uscita per il Corriere. In tre ore di conversazione, Piano
ricostruisce il suo percorso e racconta i suoi progetti per questo tempo
terribile e grandioso che ci è dato in sorte.
Il giovane Renzo
«A
scuola ero un asino. Non che mi passasse in testa chissà che cosa; un
asino autentico. Non sapevo studiare. In compenso suonavo la tromba.
Gino Paoli è un mio amico d’infanzia: io ero lupetto, lui nei giovani
esploratori. Siamo “figli di un temporale”, come diceva un altro di noi,
Fabrizio De André: venuti fuori dalla guerra, cresciuti con la
convinzione che ogni giorno ci allontanava da quella tragedia, che tutto
— le strade, il cibo, il sorriso della mamma — sarebbe migliorato con
il tempo. Per questo, a 78 anni, credo ancora all’idea folle per cui il
tempo che passa migliora le cose: lasci perdere quel che non va, prendi
quel che va. C’è una cosa che non condivido con il mio amico Beppe
Grillo: la paura del futuro, che è l’unico posto dove possiamo andare».
Il Beaubourg
«Il
modo più feroce, più esplicito di ribellarsi all’idea del centro
culturale come mausoleo intimidente era fare una fabbrica. Una macchina
come quelle pensate da Jules Verne. Ma anche un villaggio medievale in
verticale, con le piazze sovrapposte. Una macchina urbana, aperta,
trasparente, flessibile: tutto quello che ingombra l’abbiamo portato
fuori, comprese le scale mobili, che svelano Parigi poco a poco. Il
Beaubourg ogni sabato ha 30 mila abitanti, in 40 anni l’hanno visitato
250 milioni di persone. Al concorso partecipammo in 681. Il Sessantotto
era finito da poco, Rogers e io vivevamo a Londra. Non pensammo di
vincere per un solo attimo».
L’importanza della musica
A
fargli notare che le opere successive sono molto diverse dal Beaubourg,
Piano risponde di badare alla coerenza, non allo stile: «L’importante è
svicolare dall’accademia, ribellarsi alle tendenze, andare alla fonte
delle cose. Respirare la realtà, farla cantare. Il cinema neorealista è
stato molto importante per me. Come lo è stata la musica. Con il tempo
da trombettista sono diventato liutaio: l’auditorium di Roma è una cassa
armonica. A Parigi collaborai con Pierre Boulez, che mi fece incontrare
John Cage, Karlheinz Stockhausen e due artisti che sarebbero diventati
amici della vita: Luciano Berio e Luigi Nono. Come gli architetti, i
musicisti lavorano sulla materia, che per loro è il suono; per Boulez,
il rumore. La vibrazione della corda per gli archi, l’aria per i fiati.
Una solida base d’ordine cui ti diverti a disobbedire. Come in
architettura, appunto».
I grattacieli
«Non ho mai fatto
grattacieli arroganti, ma macchine urbane». Lo Shard di Londra è la
torre più alta d’Europa. «Non mi interessa. Presto sarà superata. Ma è
una torre che non finisce, le schegge di vetro si perdono nel cielo,
esprimono uno slancio, un’aspirazione, al centro di un quartiere
risorto. Nel cantiere avevamo operai di 70 nazionalità diverse. A Osaka
avevamo 5 mila lavoratori: tutti giapponesi. Un cantiere è un’avventura
dello spirito e anche fisica: in Nuova Caledonia abbiamo avuto quattro
uragani con vento a 220 chilometri; in Giappone in 36 mesi contammo 35
terremoti. Sul cantiere del Beaubourg venivano Umberto Eco, Michelangelo
Antonioni, Marco Ferreri, Roberto Rossellini, Italo Calvino, che dava
suggerimenti su come pulire le pareti di vetro. Venne il signor Honda e
disse: “Mi piace, sembra una motocicletta”. Sul cantiere di Postdamer
Platz a Berlino ho conosciuto Mario Vargas Llosa. Anche lì c’erano 5
mila operai, tra cui cento palombari ucraini, per piantare le fondamenta
sott’acqua. Trovarono sei bombe della seconda guerra mondiale,
inesplose: “Sono russe, quindi non esplodono” dissero con un sorriso.
Ora qui nella banlieue di Parigi stiamo costruendo il Palazzo di
Giustizia: trasparente, come la verità; deve ispirare fiducia, non
mettere soggezione». Come trova i nuovi grattacieli di Milano? «Sono un
segno di vitalità, che è sempre una buona cosa. Ma la mia Milano è
quella delle periferie. Quando studiavo al Politecnico abitavo a
Lambrate, andavo a sentire il jazz in un locale in fondo ai Navigli, che
si chiamava non a caso Capolinea».
La scommessa delle periferie
«Le
periferie sono sempre associate ad aggettivi negativi. Sono considerate
desolanti, alienanti, degradate, brutte. Proviamo invece a guardarle
con occhio positivo, a cercare quel che c’è di sano. Le periferie sono
ricchissime di una bellezza umana e spesso anche di una bellezza fisica,
che è nascosta, che emerge qua e là. Come scrive Italo Calvino nella
postfazione delle Città invisibili, anche le più drammatiche e le più
infelici tra le città hanno sempre qualcosa di buono. Questo approccio
alla periferia è come andare a caccia di perle, di scintille. Viene da
lontano, dal mio essere genovese, uno che non butta via niente: Braudel
l’aveva capito, Genova stretta tra il mare e la montagna è stata educata
a non sprecare nulla. Così, quando Napolitano mi fece senatore a vita,
mi è venuto naturale pensare che il mio impegno politico sarebbe stato
far lavorare giovani architetti nelle periferie italiane. Quest’estate
porteremo i progetti alla Biennale dell’architettura».
Il Giambellino
I
progetti sono a Torino, Catania, Roma e Milano. Si tratta di «dare
forza e ossigeno a mille cose che già c’erano». Basta casette a perdita
d’occhio: «L’idea della città che cresce diluendosi si è rivelata
insostenibile. Come porti i bambini a scuola, come organizzi il
trasporto pubblico, come medichi la solitudine? Le città sono luoghi di
incontro, di scambio, in cui si sta insieme, si costruisce la
tolleranza, l’idea che le diversità non sono per forza un problema, sono
una ricchezza. La città ora cresce per implosione, riempiendo i buchi
neri. Al Giambellino vivono 6 mila persone, 18 etnie. C’è la signora che
d’estate invita la gente a scendere in cortile con la sedia e fa il
cinema. L’elettricista egiziano che aggiusta gratis i citofoni rotti dai
vandali. Abbiamo abbattuto il muro tra il parco e il mercato. Lavoriamo
con la gente del quartiere per costruire una biblioteca. Servono tanti
cantieri piccoli, microinvestimenti, microimprese: lavoro per le nuove
generazioni. Dobbiamo fertilizzare le periferie con edifici civici. Non
solo musei; librerie, ospedali, palazzi pubblici, stazioni della
metropolitana, posti dove la gente si ritrova. Allo scorso esame di
maturità uno dei temi era il rammendo delle periferie: sono stati
scritti 60 mila compiti; tutti ragazzi nati in periferia».
Il ruolo della politica
«Sono
lungi dal disprezzare la politica. In Senato ho provato ad andarci, ci
andrò ancora, ma sono più utile nel mio ufficio a Palazzo Giustiniani.
Comunque, ogni volta che metto piede nell’Aula sono davvero onorato,
fiero. È una grande istituzione. Al referendum di ottobre sulla riforma
costituzionale voterò sì. Se il Senato diventa più piccolo, meno
ridondante, se costa meno, è cosa buona. Non vorrei perdesse il suo
ruolo di guida morale del Paese: l’abbiamo inventato noi italiani,
l’abbiamo esportato ovunque. Deve rimanere il luogo in cui si discutono i
grandi temi della società».
«L’architetto è un mestiere politico.
La ricerca estetizzante della bellezza, quando è fine a se stessa, è
inutile. Ma Sengor, con cui lavorai in Senegal, mi ha insegnato che il
bello, quando è autentico, non è mai disgiunto dal buono. È l’idea dei
greci: kalos kagathos , bello e buono. È un’idea che ho ritrovato in
Libano. È il principio della civiltà mediterranea, oggi messa così a
dura prova». Farebbe il Ponte sullo Stretto? «Un vero costruttore è
sempre favorevole a gettare ponti, è sempre contrario ad alzare muri». E
qual è il costruttore della storia che ammira di più? «Brunelleschi. Il
primo a curvare la cupola, dopo secoli che l’uomo non ne era più
capace; e dimostra che è possibile costruendo un modellino di legno. Da
giovane faceva l’orologiaio: un artigiano diventato artista. Il percorso
contrario è molto più difficile. Fondere arte e tecnica: qui è la
grandezza».