sabato 26 marzo 2016

Corriere 26.3.16
La giacchetta di Joan Miró
di Andrea Nicastro


Non sono passati politici all’inaugurazione della nuova mostra su Miró che si è aperta al Mudec. Meglio così. Da qualche anno Joan Miró non è più soltanto «il più surrealista di tutti noi» (copyright Andrè Breton), la firma contesa in aste milionarie, l’artista della musica su tela (e tanto altro ancora), ma è diventato un marchio prezioso anche per la politica.
La sua fama nasce tra le due Grandi Guerre assieme all’arte ribelle della Parigi che affollata com’era di profughi (già, fuggiaschi dai combattimenti e dalle dittature come i siriani di oggi) si trasformò in capitale morale e intellettuale del mondo. L’ultima parte della sua vita, invece, coincise con la svolta democratica spagnola del 1976 e così Miró offrì il suo pennello allegro e colorato per rappresentare la Spagna della movida e della ritrovata liberà. Dopo la morte, l’ultima giravolta: Miró viene promosso profeta del catalanismo, artista con il sogno inconfessato di vedere la sua Barcellona indipendente. Povero Joan, tirato per la giacchetta sporca di colori… lui così schivo, poche parole e una sola moglie, così lontano dall’effervescenza di quel Pablo Picasso che gli scriveva «Ma come puoi resistere tanto con la stessa donna?».
Due anni fa la vice presidente del governo spagnolo Soraya Saenz de Santamaria tenne un discorso all’apertura di una grande esposizione al Museo Albertina di Vienna. «Miró è un pezzo fondamentale della genialità di Catalogna e della storia di Spagna. Miró è spagnolo, è catalano, ma anche di tutti coloro che si avvicinano alla sua opera» disse Santamaria. Sembravano parole di circostanza, invece apriti cielo. Erano i giorni della Diada, la marcia in favore dell’indipendenza catalana, e arrivò una grandinata di critiche. «Miró era spagnolo di passaporto, non lo si può negare — scrisse ad esempio Joan M. Minguet sul sito web dell’Associació Catalana de Crítics d’Art —, ma vale ricordare che Miró ha sempre dichiarato la sua catalanità dalla famosa intervista del 1928 con il francese Trabal, fino al discorso del 1979 per la laurea honoris causa dell’Università di Barcellona; se ciò non bastasse la sua ossessione per i paesaggi catalani, la sua iconografia mediterranea». Insomma, altro che spagnolo, Miró era super catalanista.
L’appropriazione era cominciata qualche anno prima. Nel 2011 alla Tate di Londra, Vicenç Villatoro, presidente del centro catalanista Institut Ramon Llull, teorizzo la necessità dell’acquisto: «Miró non ha bisogno di noi per proiettarsi nel mondo, al contrario è la cultura catalana che necessita di ambasciatori della caratura di Miró per presentarsi al mondo» teorizzò senza vergogna. Difficile resistere alla tentazione d’iscrivere un tale campione nel proprio campo.
Chi non ci riuscì mai fu il regime franchista. Miró esule, Miró dissidente, Miró fu democratico e anti fascista, sempre e senza esitazioni. Anche quando, tornato a vivere in Spagna e il franchismo da dittadura era diventato dittablanda , l’artista non si mostrò mai affiancato al regime. «Dopo la Guerra Civile del ’36 — racconta Roberto Baravalle, scrittore e critico d’arte — tutti gli esuli erano anti franchisti. Erano i rappresentanti della Spagna oppressa, non della Catalogna occupata. Barcellona era serbatoio di opposizione, ma come tante altre regioni. Da lì ad accaparrarsi in chiave localistica il mito di Miró, ce ne passa».
Negli anni giovanili, il catalano Miró aveva lavorato al tentativo di francobollo Ayuda Espana e, in tarda età, aveva autorizzato l’utilizzo di due suoi simboli per la campagna di promozione turistica della nuova Spagna. Il «sole di Miró» è forse il marchio turistico più longevo del marketing internazionale, rivaleggia quanto a riconoscibilità con il cuore rosso di «I (love) New York». Abc, un giornale super unionista, mette l’artista tra le dieci ragioni perché la Catalogna non si stacchi dal resto di Spagna e cita proprio l’ok del genio all’uso del suo «sole» sui cartelli turistici: «Per il re e per il governo, tutto gratis». Il contrario di ciò che sostengono i catalanisti. Per loro, Miró era un cripto-indipendentista. In occasione del dono al museo di storia cittadina del manifesto del 1977 «Votem l’Estat», «Votiamo lo Statuto», il consigliere (indipendentista) alla cultura Joan Manuel Tresserras si lanciò in una lettura pro domo sua dell’opera. «Osservando bene le lettere, si può notare che l’artista suggeriva un secondo livello di lettura, non Votem l’Estat, ma Volem l’Etat, cioè vogliamo lo Stato». Teresa Montaner, curatrice responsabile della Fondazione Miró di Barcellona, si tiene lontana dalle polemiche: «Il catalanismo dell’artista è indiscutibile — dice —, nelle sue fonti di ispirazione, nel primitivismo contadino. Ma è un catalanismo vitalistico, non politico». Per favore, attenti a quella giacchetta.