sabato 26 marzo 2016

Corriere 26.3.16
Karadzic e il genocidio la sentenza che non basterà
di Aleksandar Hemon


Permettetemi di esprimere un’ovvietà: il genocidio uccide, e uccide moltissima gente. Inoltre provoca traumi inauditi ai superstiti, mentre distrugge ogni punto di riferimento morale negli esecutori materiali. È questo il motivo per cui la sentenza emessa nei confronti di Radovan Karadzic all’Aia non ha accontentato nessuno in Bosnia-Erzegovina. Karadzic è stato ritenuto colpevole di dieci capi di imputazione su undici, per i quali è stato giudicato dal Tribunale penale internazionale della ex Jugoslavia e condannato a quarant’anni di prigione. È stato riconosciuto responsabile del genocidio di Srebrenica nel 1995, come pure di altri cinque reati contro l’umanità e quattro reati di guerra. Però è stato assolto dal reato di genocidio perpetrato in altri sette comuni bosniaci, dove le forze militari serbe da lui comandate si sono macchiate di esecuzioni e stupri di massa, hanno gestito campi di concentramento e perseguito alacremente una efficientissima campagna di «pulizia etnica», termine coniato dallo stesso Karadzic durante la guerra in Bosnia.
Benché sia assai probabile che Karadzic finirà i suoi giorni in carcere, il fatto che non gli sia stato comminato l’ergastolo ha scatenato la rabbia di moltissimi bosniaci. Il quotidiano di Sarajevo, Oslobodenje cita Ramiza Grudic, una madre di Srebrenica che ha perso marito e due figli, la quale definisce il verdetto «doloroso, vergognoso e tristissimo». Amir Kulagic, un superstite che ha perso una ventina di familiari, è altrettanto insoddisfatto: «La condanna che ha ricevuto sembra un premio per quello che ha fatto, non una punizione. Questa sentenza non rende giustizia nemmeno a una sola persona assassinata a Srebrenica, figuriamoci alle molte migliaia di morti». Agli occhi di Ramiza e Amir, il verdetto rispecchia appieno una narrativa etica secondo la quale le vittime non hanno avuto giustizia, e non l’avranno mai. Esse vivono in un mondo che le aveva abbandonate allora, e che al giorno d’oggi, davanti alle loro sofferenze, solleva quel minimo di interesse che serve ad archiviare la guerra una volta per tutte, per non pensarci più.
I crimini di Karadzic e dei suoi complici, perpetrati dalle strutture e dai meccanismi da essi stessi instaurati e gestiti, hanno alterato per sempre la compagine morale della realtà in cui vivono i bosniaci. Il mondo come casa comune è un concetto ormai annientato, e resterà per sempre un ideale irraggiungibile, a causa delle devastazioni inflitte dalla violenza. «Karadzic è vivo», dice Ramiza, che a distanza di vent’anni cerca ancora le ossa del figlio più giovane. «Lui vedrà i suoi familiari, mentre noi abbiamo perso i nostri. Noi soffriamo e tutto il nostro strazio ce lo teniamo chiuso in petto».
Ecco le conseguenze del genocidio: esso crea nuove realtà, eliminando le persone considerate scomode o indesiderate. Quello che Karadzic si era proposto di fare, con il pieno sostegno dello stato serbo, controllato da Slobodan Milosevic, era di creare un territorio esclusivamente serbo che un giorno sarebbe entrato a far parte della Grande Serbia. I suoi crimini non sono stati gli incresciosi effetti collaterali di una guerra selvaggia nei Balcani (quel luogo immaginario, assetato di sangue, dove varie tribù si massacrano con una certa regolarità), bensì lo strumento primario di un progetto militare e politico per restituire grandezza alla Serbia. Il suo progetto nazionalistico, ben definito e altrettanto ben studiato, imponeva l’eliminazione, con qualunque mezzo necessario, della popolazione di fede musulmana da gran parte del territorio bosniaco, e a questo compito Karadzic si era dedicato con il massimo impegno.
E ci è riuscito. Circa un terzo del territorio bosniaco antecedente il conflitto, compresa Srebrenica, è stato assegnato ai serbi come parte dell’accordo di pace di Dayton, stipulato dall’inviato di Bill Clinton, il defunto Richard Holbrook. Etnicamente ripulita da cima a fondo, la Republica Srpska, ovvero la parte della Bosnia controllata dalla Serbia, formalmente fa parte della Bosnia Erzegovina, un paese il cui governo oggi è composto da quelle persone che hanno combattuto e ucciso per distruggerlo. Lo spirito e il retaggio di Karadzic pertanto esercitano tuttora la loro influenza sulla Republica Srpska, uno staterello nato dalla guerra e dal genocidio da lui orchestrato. Pochi giorni prima della sentenza, la casa dello studente a Pale, cittadina dalla quale fu lanciato l’assedio di Sarajevo, è stata battezzata con il nome di Karadzic. Con tutta la pompa degna del varo di una nave, alla cerimonia ha presenziato Milorad Dodik, il presidente della Republica Srpska, come pure la moglie di Karadzic, per inviare un messaggio chiarissimo a tutti gli interessati: Radovan Karadzic è uno dei padri fondatori della Republica Srpska, dove le sue gesta sono ammantate di eroismo. E così una fantasia genocida si è trasformata in storia ufficiale.
In altre parole, tutto in Bosnia rispecchia gli ideali di Karadzic, tranne forse la speranza che gli venga assegnata una cella confortevole in un carcere del civile Occidente, dove vivrà di sicuro molto meglio dei superstiti dei suoi massacri. I bosniaci speravano che avrebbe ricevuto una sentenza non solo commisurata alle perdite umane da lui inflitte, ma anche consona alla folle ambizione del suo progetto criminale della Grande Serbia, per il quale si era tanto prodigato. Una sentenza capace di rendere giustizia alle vittime per il tragico stravolgimento della realtà umana avrebbe ricucito il tessuto sociale lacerato, ma tale sentenza non appartiene al mondo dei comuni mortali.
(Traduzione di Rita Baldassarre )