Corriere 26.3.16
La lotta continua con la materia
Così ascoltava le voci delle cose
I lavori dagli anni 30 (quando «dichiarò guerra» alla pittura) agli 80
di Roberta Scorranese
All’alba
del 1930, a Mosca Vladimir Majakovskij si conficcava un proiettile nel
cuore; a Rapallo, Ezra Pound pugnalava il moderno sistema finanziario,
accusando gli interessi dominanti del capitalismo; a Parigi, Joan Miró
decideva di uccidere per sempre la pittura.
Un’invisibile ma
dirompente forza distruttiva ha attraversato le avanguardie tra le due
guerre mondiali. E la mostra che si apre al Mudec di Milano, Joan Miró:
la forza della materia , è il racconto di questo annientamento dell’arte
che il catalano decise di compiere quando, quasi quarantenne, entrò in
una grave crisi.
Andava e veniva da Parigi, città dove il
Manifesto Surrealista di André Breton aveva sancito la predominanza
degli automatismi psichici «in assenza di qualsiasi controllo esercitato
dalla ragione» e dove poeti come Paul Éluard scrivevano versi quali
«Villages de la lassitude/Où tous les êtres sont pareils». Che senso
poteva ancora avere la pittura tradizionale? Non era forse meglio
lasciar parlare la materia, scavare nei supporti (tavola, tela, carta,
ferro) e fare in modo che quelle voci incastrate lì dentro da millenni
si esprimessero finalmente con la propria lingua? Gruppo di personaggi
nel bosco del 1931 apre il viaggio (curato dalla Fundació Joan Miró di
Barcellona sotto la direzione di Rosa Maria Malet).
Gli
sfregamenti sulla tela, come un ossessivo interrogare le cose inerti,
lasciano tracce che si ribellano al colore dello sfondo. Ferite. Come La
voce umana , dramma dell’anno prima scritto da Jean Cocteau: la donna
abbandonata che inutilmente interroga una voce dall’altra parte del
telefono, che non risponde mai. Questa sordità delle cose turbava
profondamente Miró, che prese a immaginare figure biomorfe, uccidendo le
identità e persino i nomi: se negli anni precedenti era arrivato a
chiamare le sue opere «X» perché (sinceramente) non sapeva più che cosa
fossero, adesso sceglie denominazioni come Senza Titolo o Personaggi e
uccello (in mostra). Che cosa fare? All’inizio degli anni Quaranta,
quando Picasso rifletteva sull’allegoria giorgionesca con Le tre età
dell’uomo , Miró ingaggiava un corpo a corpo con la carta, raschiava la
superficie, scartavetrava la parte colorata.
E si allontanava
sempre di più da quell’umanità imbarbarita che stava distruggendo il suo
Paese e il mondo intero. Le costellazioni hanno origine da questo
costante senso di estraneità rispetto al vivere — l’acquerello Donne,
uccello, stelle è del 1942, lo stesso anno in cui uscì Lo straniero di
Camus, romanzo mosso da un eguale istinto distruttivo.
E tale
ininterrotto duello con la pittura raggiunge il sublime con Dipinto ,
del 1960: sottilissimi segni e macchie di colore su una tavola di legno,
la vera protagonista dell’opera, con tutti i suoi difetti (nodi e
cicatrici). Un manifesto: l’arte è anche quello che non si vede. È
l’incertezza del tratto, è la scultura volutamente istrionica (molto
belle quelle in mostra), è il disegno sottostante, è la poesia di un
legno rovinato dal tempo e dalla pioggia.