giovedì 24 marzo 2016

Corriere 24.3.16
«Il radicalismo nichilista che nasce in famiglia»
di Lorenzo Cremonesi

«Anche questa volta abbiamo una coppia di fratelli tra i terroristi. Oggi Khalid e Ibrahim el Bakraoui, come ieri Salah Abdeslam e suo fratello Brahim. Oppure i due fratelli Kouachi nel caso del massacro a Charlie Hebdo . Si ripete lo stesso modello di radicalismo famigliare, molto intimo, ristretto a piccoli circoli di persone connesse con legami di sangue che si conoscono sin da bambini. È parte integrante di questo nuovo nichilismo che islamizza la radicalizzazione originaria dei suoi adepti». Olivier Roy commenta per il Corriere le informazioni che giungono da Bruxelles sull’identità dei terroristi. Professore all’Istituto universitario europeo di Firenze, orientalista e politologo di origine francese, da tempo Roy esamina la crescita di quelli che definisce «nuovi nichilisti» nelle nostre città.
Dunque la cellula belga non è molto diversa da quelle che hanno colpito in Francia?
«Fanno parte dello stesso fenomeno. Sono nichilisti puri. Non cercano di costruire nulla. Non scappano in Siria a combattere. Non hanno un loro circolo, neppure cercano di fare proseliti. Vogliono semplicemente uccidere il massimo numero di persone con la massima pubblicità possibile. Tutti vengono dalla criminalità comune. Sino a pochi mesi fa non praticavano la loro religione. A un certo punto si sono radicalizzati in modo estremamente rapido. Dallo spaccio di droga e i piccoli crimini comuni sono passati ad ammirare Isis. Per loro l’ideologia e la pratica della violenza jihadista sono stati un modo per affrancarsi da una vita di marginalizzazione. Non contavano assolutamente nulla e improvvisamente sono diventati importanti, il mondo intero parla di loro».
Un familismo radicale?
«È un fenomeno generazionale, ma non popolare e non sociale. La radicalizzazione avviene tra gruppi minuscoli. Tra fratelli, appunto, ed eventualmente nel circolo degli amici più intimi. Rifiutano il modello offerto dai loro genitori, rifiutano la religione della moschea dove sono cresciuti. Quando scoprono Isis vorrebbero forse spiegarlo ai loro genitori, ma falliscono e si chiudono ancor più dal resto del mondo».
Sono popolari?
«Niente affatto. E a loro non interessa esserlo, si situano ai margini delle loro comunità».
Però abbiamo visto i ragazzini di Molenbeek tirare pietre contro polizia e giornalisti.
«La popolazione di quei quartieri semplicemente è stanca di intrusioni esterne. Praticamente però nessuno accetta il terrorismo di Isis. Tutt’altro. A tirare pietre sono ragazzini di 14 e 15 anni, o poco più. Ma non si tratta di un fenomeno di massa come a Belfast tre decenni fa. È tipico dei giovanissimi in questo tipo di quartieri. Lo fanno ora, ma lo facevano anche dieci anni fa, ben prima di Isis. I giornalisti ne parlano perché lo scoprono adesso».
È rilevante il fatto che le loro famiglie siano originarie del Maghreb?
«Certamente. In genere il problema degli immigrati maghrebini, specie di seconda o terza generazione, è che sono vittime della massima perdita di identità culturale. Sono sradicati totali e dunque più proni ad aprirsi alle ideologie più estremiste».
Può spiegare?
«In grande maggioranza turchi, siriani, egiziani e tanti immigrati provenienti dal mondo islamico tendono a mantenere legami forti con i Paesi di origine. Molti vanno nelle loro moschee, guardano i telegiornali dei loro Paesi, ogni tanto tornano per trovare parenti rimasti e amici. Ma nel caso del Maghreb tutto questo non vale, o vale molto meno. In genere le nuove generazioni non parlano più la lingua dei padri, più facilmente di altri perdono l’abitudine delle preghiere o di recarsi alla moschea. Insomma sono deculturalizzati al massimo. E proprio questa totale perdita dell’identità originaria culturale, linguistica, comunitaria e religiosa, li spinge più facilmente di altri a cercare risposte radicali e violente».