Corriere 24.3.16
Tony Blair
«Stiamo concedendo troppo la tolleranza finisce se toccano i nostri valori»
intervista di Paolo Valentino
«Concediamo
troppo, non possiamo farci intimidire», dice Tony Blair. Al telefono da
New York, l’ex primo ministro britannico, il leader politico che a
cavallo del millennio traghettò la sinistra europea verso i porti del
centrismo, difende la società multiculturale, ma denuncia la debolezza
politicamente corretta di chi rinuncia a proteggere i valori di base e
l’identità culturale europea, di fronte alle forze dell’intolleranza e
dell’estremismo.
Mr Blair siamo in guerra?
«Sì. I gruppi
terroristi che condividono questa ideologia di morte vogliono causare il
massimo di distruzione alle nostre popolazioni e al nostro modo di
vivere. Su questo non c’è dubbio, gli attentati di Bruxelles suonano
solo come una ulteriore conferma, perché è un impegno che perseguono da
molti anni».
Lei sostiene la necessità di «rispondere con forza alla sfida del terrorismo». Cosa significa concretamente?
«Io
credo che ci siano quattro cose importanti da fare. Nell’immediato,
dobbiamo migliorare radicalmente lo scambio di informazioni tra le
intelligence europee, che oggi non funziona come dovrebbe e in alcuni
casi non funziona affatto. La situazione è talmente grave che i servizi
di alcuni Paesi sono sovrastati dal compito immane che si trovano
davanti ed è quindi fondamentale che tutta l’Europa lavori insieme. La
seconda cosa è cercare di risolvere i conflitti che sono all’origine del
fenomeno terrorista: dobbiamo combattere Daesh ovunque si manifesti, in
Siria, in Iraq o in Libia, esser preparati a compiere le azioni
necessarie per sconfiggerli, anche costruendo, ed è il terzo punto, le
giuste alleanze dentro il mondo islamico con coloro che lo vogliono e
hanno una visione aperta e tollerante. Daesh può essere combattuto solo
insieme a chi è determinato a salvare l’Islam da questo scempio della
fede musulmana. Infine, dobbiamo lanciare quella che io chiamo un’azione
globale sull’educazione, in cui tutti i Paesi si impegnino a orientare i
loro sistemi scolastici per promuovere la tolleranza, eliminare il
pregiudizio religioso e la cultura dell’odio per chi è diverso. Oggi
l’istruzione è anche una questione di sicurezza e ci sono milioni di
giovani educati con una falsa idea della religione e una angusta visione
del mondo. Deve diventare un obbligo per tutti riformare i sistemi
educativi formali ed informali, perché l’estremismo comincia nelle aule
scolastiche».
Quando parla di azioni necessarie per sconfiggere lo
Stato Islamico, vuol dire che non ci sarà vittoria possibile in Siria o
Libia senza «boots on the ground», senza cioè impegnare truppe di
terra?
«Sicuramente non possiamo sconfiggerli senza stivali sul
terreno. La domanda è con gli stivali di chi? A mio avviso non dobbiamo
essere coinvolti in ogni situazione, ma dove c’è la necessità di
impiegare alcune delle nostre capacità sul terreno dovremmo essere
pronti a farlo. Gli americani lo stanno già facendo sia pure in modo
limitato. Ma l’importante è combattere Daesh ovunque è presente. E qui
penso che ci sia una sfida di lungo periodo per l’Europa, quella di
dotarsi di piena capacità su questo terreno. Non parlo di un esercito
europeo, ma del modo in cui sapremo costruire una vera cooperazione
militare tra le nostre nazioni in modo da essere in grado di agire
contro questi gruppi».
L’immigrazione è oggi il cavallo di troia del terrorismo in Europa?
«Il
problema che abbiamo oggi con l’immigrazione è che non controlliamo con
buona approssimazione tutti coloro che entrano in Europa, il che ne fa
automaticamente anche una questione di sicurezza. Ecco perché la gente è
ansiosa, preoccupata e noi abbiamo il dovere di capirla e farci carico
di quelle ansie. Dobbiamo essere molto chiari e decisi nel controllare e
identificare chi arriva nell’Unione Europea. Ma in ogni caso non
risolveremo il problema dei rifugiati a meno di non lavorare per
risolvere le cause, cioè i conflitti in Siria, in Libia, le crisi
dell’Africa subsahariana».
Lei pensa che l’accordo della Ue con la
Turchia, a cui di fatto è stata subappaltata la gestione dei rifugiati,
possa funzionare ed essere un modello?
«È chiaro che sarà
necessario molto lavoro per farlo funzionare. In linea di principio è
saggio avere i rifugiati ospitati e assistiti nella regione, cioè non
lontano da casa loro, ma non può essere per sempre e si torna sempre
all’urgenza di risolvere il conflitto siriano. Dico da anni che il
rischio è la disintegrazione del Paese e l’impatto devastante che
produrrà in Europa. Ciò che comincia nel Medio Oriente non rimane mai in
Medio Oriente. È vero in Siria ed è vero in Libia».
Resta il
fatto che l’ondata di rifugiati e migranti economici pone oggi una
concreta minaccia alla stabilità e alla stessa sopravvivenza dell’Unione
Europea. Lei si definisce sostenitore del multiculturalismo, a
condizione che non venga abusato. Cosa vuol dire? Esiste oggi un modello
praticabile di integrazione, al di là degli slogan della destra
populista che dice: via l’islam dall’Europa?
«È importante
definire cosa sia e cosa non sia il multiculturalismo. Penso che le
persone debbano essere libere di praticare la loro fede e seguire il Dio
che hanno scelto. Questo è un diritto umano fondamentale, la libertà di
culto è alla base delle nostre società, dove persone di fede diversa
possono coesistere in pace. Ma il multiculturalismo può funzionare solo
se si accetta che esista anche uno spazio comune dove certi valori, i
valori europei, siano accettati e rispettati da tutti. Democrazia, stato
di diritto, parità di diritti e di opportunità per le donne. Nessuno ha
il diritto di arrivare in un Paese e sfidare quello spazio comune. Chi
crede nelle società aperte e tolleranti dev’essere rigoroso nella difesa
di questi valori».
È questa la sua critica al cosiddetto «flabby liberalism», il liberalismo molle, non abbastanza rigoroso?
«Certo.
Non bisogna confondere il multiculturalismo con il permesso a chiunque
di rifiutare i nostri valori di base. I confini della tolleranza
finiscono quando si mettono in discussione quei valori. C’è questa
tendenza a concedere troppo, l’idea ridicola che sei parte di una élite
se pensi solo in termini di rispettosa tolleranza verso altre persone.
Uno dei problemi dell’Occidente è che riesce costantemente a sentirsi
colpevole, quasi a vergognarsi di se stesso. Ora non dico che noi
occidentali non abbiamo cose da rimproverarci, ma non dovremmo farci
intimidire da nessuno e costringerci a pensare che non ci sono valori
per i quali invece dobbiamo lottare. Io lo chiamo centrismo muscolare. E
come dicevo prima, tutto comincia dall’educazione».
Guardando
retrospettivamente il Medio Oriente e gli eventi degli ultimi 13 anni,
il fallimento delle primavere arabe, l’Isis, le crisi irrisolte, fu
l’intervento in Iraq la madre di tutti gli errori?
«Io dico due
cose. Primo non saremmo oggi in una situazione migliore, se accanto
all’incubo siriano avessimo Saddam Hussein ancora al potere in Iraq.
Secondo, le primavere arabe ci dimostrano come tutti questi regimi, dove
piccole minoranze si tenevano stretto il potere contro il volere della
maggioranza, fossero in ogni caso insostenibili. Sarebbe meglio oggi
avere ancora alcuni di quei dittatori in carica? Si può discutere. Ma le
popolazioni non lo avrebbero tollerato. Non fummo noi la causa. Noi
fummo coinvolti. Le cause affondano a molto tempo prima, probabilmente a
50 anni fa».