Corriere 22.3.16
Lavacri e nostalgie, gli ex Msi e i conti con il passato mai fatti del tutto
di Pierluigi Battista
Una
 spina. Un prurito. Un’ossessione. Il lavacro di Fiuggi del ’95 non ha 
sradicato il passato in fondo al cuore. Il peso di una storia mai 
smaltita che si fa sentire fino ad oggi. «Io non sono mai stata 
fascista», dice di sé Giorgia Meloni rispondendo a Berlusconi che ha 
bollato con disprezzo usando l’epiteto (ancora?) infamante di 
«fascisti». «Mai» è molto impegnativo. Chissà perché allora il Msi ha 
sentito il bisogno di non chiamarsi più così e di ribattezzarsi Alleanza
 Nazionale. E perché nelle tesi di Fiuggi si è addirittura scomodato 
l’antifascismo come momento storicamente necessario al ritorno della 
libertà in Italia. E perché Gianfranco Fini, con il parere entusiastico e
 unanime dei colonnelli che via via gli hanno voltato le spalle fino ad 
arrivare all’attuale irrilevanza collettiva, ha sentito il bisogno nel 
’93 di andare in pellegrinaggio alle Fosse Ardeatine, e poi ad 
Auschwitz, e poi in visita commossa allo Yad Vashem di Gerusalemme, 
faccia a faccia con il «male assoluto» della Shoah, mentre in Italia 
borbottavano per quella kippah in testa.
Il fascismo è stata una 
storia grande e tragica. Con la fine della Prima Repubblica, fondata 
sull’antifascismo costituzionale, quella storia sembrava essersi 
esaurita. Hanno chiuso le insegne del comunismo e del fascismo. Restano i
 fantasmi, i residui, i ricordi che stregano le idee e le teste. E lo 
psicodramma che non si spegne mai.
Con lo spettro del fascismo il 
centrodestra berlusconiano ha duellato sin dall’inizio. Quando 
Berlusconi disse di optare per Fini come sindaco di Roma (la storia 
comincia nei pressi del Campidoglio e qui sta volgendo alla fine, 
potenza dei simboli e dei ricorsi), gli avversari gli misero un fez in 
testa: il Cavaliere nero. Bossi, alleato riluttante di governo, si mise 
in marcia sotto il diluvio nel 25 aprile milanese che sembrava rinato 
dal nulla, dopo anni di celebrazioni ufficiali stanche e sfibrate. Disse
 anche, con la sua prosa trattenuta e moderata, che i fascisti sarebbero
 stati inseguiti «casa per casa» e che con i fascisti mai più da nessuna
 parte. Poi invece il «da nessuna parte» diventò Palazzo Chigi. La 
sinistra impazziva per il «regime» in agguato. Ogni manifestazione del 
centrodestra nella Capitale diventava la «marcia su Roma». Berlusconi 
faceva finta di non sentire: scherzava addirittura sulle isole del 
confino fascista dipinte come ameni luoghi di vacanza. I missini smisero
 di essere tali: divennero aennini. Sparirono saluti romani e labari. 
Anzi, riapparvero in qualche funerale (che Fini e i suoi dovevano 
abbandonare prima che risuonasse lo stentoreo «Presente!» con braccio 
teso) e quando un gruppo di ex fascisti, o postfascisti, o fascisti 
salutarono con entusiasmo Gianni Alemanno che aveva vinto le elezioni a 
Roma. Sempre al Campidoglio: quando si dice la fissazione dei luoghi. 
Non erano più fascisti, fuori e dentro? Alessandro Giuli, che dedicò al 
gruppo dirigente di An uno sferzante pamphlet, scrisse che il passo 
delle oche aveva sostituito il passo dell’oca. Chi voleva restare 
fascista aveva a disposizione da Fiuggi in poi la Rifondazione nera 
capeggiata da Pino Rauti. Gli altri si adagiarono sulla strada dello 
sdoganamento e addirittura confluirono disciplinatamente nel Pdl nato 
dal predellino di Berlusconi. Tranne Francesco Storace, che con Daniela 
Santanché mise su «La Destra», in rotta con il Fini che a Gerusalemme si
 era spinto troppo oltre.
Una storia grande e tragica, quella del 
fascismo e anche quella del neofascismo. La scommessa di una destra che 
finalmente all’aria aperta, finalmente non più ghettizzata, finalmente 
non più confinata nel reparto dei reprobi della Repubblica, avrebbe 
potuto dimostrare tutte le sue potenzialità, è stata una scommessa 
persa.
Quando Fini osò alzare il capo con Berlusconi, i colonnelli
 che erano stati di An e che erano cresciuti insieme nella palestra 
missina per disegnare «il fascismo del Duemila» sfilarono sul palco per 
condannare il refrattario e per giurare fedeltà imperitura al Capo. 
Questa parola, «fascismo», ristagnava sullo sfondo, chiusa in un 
armadio, con la naftalina perché non esalasse cattivi odori. Ma i conti 
con il passato non sono mai stati fatti. «Fascista»? Giammai, sembra 
dire Giorgia Meloni avanzando le prove dell’anagrafe. Il rimosso non se 
ne va. Il passato non passa. Sotto il tappeto è già tutto pieno.
 
