Corriere 1.3.16
La rivolta dei migranti in Grecia
di Francesco Battistini
Le
urla, i lacrimogeni. I migranti al confine tra Macedonia e Grecia
sfondano la barriera. Manganelli, una trentina di feriti, bambini da
medicare. Trecento siriani e iracheni che si squarciano la pelle sul
filo spinato, corpi speciali dell’esercito calati giù dagli elicotteri.
Non ci sono tende, si dorme all’aperto. alle pagine 5 e 6 Caizzi,
Piccolillo «Aprite il confine!». Un urlo, la corsa per sfondare la
barriera. E giù lacrimogeni, sassate, bombe assordanti, manganelli, una
trentina di feriti, bambini da medicare. Trecento siriani e iracheni che
si squarciano sul filo spinato, corpi speciali calati con gli
elicotteri per respingerli. Altre centinaia che si sdraiano sui binari,
altri agenti che li spostano di peso. «Sono tre notti che stiamo
all’aperto! – grida ai microfoni delle tv greche Nidal Jojack, 45 anni,
di Aleppo – Non ci sono tende, dormiamo avvolti in una coperta!». Nel
villaggio d’Idomeni sembra d’essere tornati a sei mesi fa, quando Skopje
faceva passare con più facilità e tutti si precipitarono e questa
piccola strada fra i campi di Grecia e Macedonia diventò la Balkan Route
d’una folla biblica in marcia fino a Vienna. L’unica differenza, da
agosto, è che oggi fa freddo. E che la temperatura politica è cambiata:
le serrature si chiudono e Idomeni, primo pertugio nella roccaforte Ue, è
diventata l’ultimo passaggio ufficiale dei Balcani. Con 7mila
disperati, quattro volte più di quanti ne possano accogliere i campi
d’accoglienza, a bivaccare al gelo. Qualcuno a illudersi per qualche ora
che si possa andare, per poi scoprire che il semaforo è verde solo
poche volte al giorno e solo per poche decine di persone. Tanti a
rispondere alle domande dei funzionari di governo, un test linguistico
che appuri se siano profughi «Sia» (Siria-Iraq-Afghanistan) o «soltanto»
migranti economici. Tutti, a porci infine la solita domanda che resta
senza risposta: dove li mettiamo?
Niente di buono sul fronte
sud-orientale. Alzare muri è «crudele e illusorio», dice il commissario
Onu per i diritti umani, Zeid al-Hussein, che viene da un Paese (la
Giordania) dove un abitante su due è rifugiato. L’illusione però è
condivisa da molti: nonostante le promesse della gendarmeria francese
d’«agire con dolcezza», anche i primi sgomberi della cosiddetta Giungla
di Calais ieri si sono trasformati in incidenti, trenta capanne
incendiate, quattro arresti, cinque feriti. Il tribunale ha deciso che
la grande baraccopoli sulla Manica va sloggiata: lì, la destra lepenista
è ormai al 43%, aumentano ogni giorno le aggressioni ai 7mila migranti
che aspettano d’entrare in Gran Bretagna. La polizia sostiene che i
disordini sono soprattutto dei movimenti No Border, ma il piano di
sgombero non convince: «Che ne sarà dei rifugiati? E dei 300 bambini?»,
si chiedeva ieri anche l’ex première femme Valérie Trierweiler.
Denuncia
Amnesty che, «tragicamente, tutti gli Stati si sforzano più di chiudere
le frontiere che d’accogliere la gente». La Finlandia che rimpatria
3.200 persone, il Belgio che ne respinge 619, la Bulgaria che schiera
500 soldati al confine. Nell’Ue, i primi due mesi 2015 entrarono 4.500
profughi: in questi 60 giorni del 2016, sono già 117mila. Le nuove
procedure adottate a metà febbraio da Austria, Slovenia, Croazia, Serbia
e Macedonia impongono una forma unica di registrazione — per esempio:
non basta raggiungere i familiari o aver disertato l’esercito —, ma
scaraventano nel dramma umanitario la Grecia, condannata in queste ore a
tenersi 50-70mila profughi senza meta. Il governo Tsipras avverte: «Non
diventeremo il Libano d’Europa, né un magazzino di anime». Il governo
tedesco replica: «Vi aiuteremo , ma prima dovete adempiere agli obblighi
di controllo». Ad Atene, piazza Vittoria ieri era una tendopoli di
hazara afgani. A Berlino, le ong hanno spedito a Frau Merkel 130 mazzi
di fiori «in segno di gratitudine» per la politica dell’accoglienza: è
passata una settimana, molti sono già appassiti.
Francesco Battistini