Corriere 16.3.16
Quando un film oltrepassa i limiti del cinema e dell’arte
di Donatella Di Cesare
La
telecamera entra per la prima volta nel campo di sterminio. Segue Saul,
rincorre la grande X rossa sulla sua schiena, il marchio del
Sonderkommando , accompagna il suo sguardo, scruta implacabile il
mostruoso che lo circonda, indugia sul suo volto. Ed è il volto
indimenticabile, opaco e icasticamente espressivo dell’attore e poeta
Géza Röhrig. Girato con una tecnica quasi desueta, il film fuga la
spettacolarità delle immagini, sceglie la prospettiva del protagonista,
restituisce quell’universo asfittico.
È Auschwitz-Birkenau. Ma
potrebbe essere anche Sobibór o Treblinka o Chełmno – un
Vernichtungslager , un campo di annientamento, non di lavoro. La
differenza è decisiva. Perché la «soluzione finale» si è compiuta nelle
officine hitleriane dove la catena di montaggio fabbricava
ininterrottamente cadaveri, dove gli esseri umani, chiamati Stücke ,
«pezzi», venivano introdotti con il raggiro nelle camere a gas e, una
volta gassati, venivano bruciati e ridotti infine al nulla della cenere.
Delle fabbriche di cadaveri, dove la mortalità raggiunse il 99%, si sa
ancora molto poco; quasi tutti i superstiti tornarono da Auschwitz che
era campo sia di concentramento che di sterminio.
Si può dire
allora che Il figlio di Saul , scritto e diretto dal giovane regista
ungherese László Nemes, sia il primo film sulla Shoah. Perché rompe i
tabù, varca la soglia della camera a gas, a cui si era fermato Spielberg
in Schindler’s List , si spinge nel luogo dell’annientamento, entra nel
mondo in cui abita il Sonderkommando . E solleva così la grande
questione di quei membri del «comando speciale» obbligati a lavorare
nelle officine della morte. Ebrei costretti a incenerire altri ebrei.
Qualcuno parla ancora, con leggerezza, di «collaboratori». Già Primo
Levi aveva introdotto l’espressione inquietante: «zona grigia».
Se
Nemes sceglie di guardare lo sterminio con gli occhi di Saul Ausländer,
è per dire che non potremo mai tentare di capire, se non ci
interrogheremo sulla figura emblematica del Sonderkommando . Non per
rispondere con moralistiche condanne, bensì per considerare lucidamente
la responsabilità frantumata che i boia nazisti hanno inaugurato. Ecco
la loro invenzione più feroce e più duratura.
Anche nella
sceneggiatura raffinata e nella trama sublime il film oltrepassa i
limiti del cinema, quelli dell’arte, coinvolge la riflessione
filosofica, chiama in causa il pensiero. Nell’officina dove sopravvive
Saul, tra la camera a gas e il forno crematorio, irrompe la vita, quella
di un bambino undicenne che respira ancora. Il boia lo finisce con un
colpo. Ma quel corpo diventa per Saul motivo di riscatto. Non è suo
figlio; potrebbe esserlo. Cerca un rabbino per una degna sepoltura. E
mentre, sullo sfondo di tutti i terribili rumori del lager, gli ordini
in tedesco si susseguono ingiungendo di lavorare velocemente i «pezzi»,
Saul ripete che quel corpo è integro. Ma perché, proprio quando si
prepara la rivolta armata del Sonderkommando, Saul vorrebbe solo
sottrarre quel cadavere di bambino alla voracità del forno? Che senso
ha? I compagni glielo rimproverano: «Tradisci i vivi per un morto». Saul
sceglie un’altra via. Punta l’indice sull’offesa arrecata alla dignità
della morte. Questo è l’oltraggio supremo che Auschwitz ha inferto
all’umanità. La sepoltura del figlio è il riscatto di Saul.
Questo
film, destinato a diventare un classico, è indispensabile per capire
non solo quel che è avvenuto, ma anche quel che avviene nel nostro
mondo, un mondo che resta all’ombra di Auschwitz. E dovrebbe essere
visto soprattutto da insegnanti e studenti .