Corriere 15.3.16
La luce dei primi monaci
I conventi cristiani nacquero tra terzo e quarto secolo in Egitto, dove Pacomio inventò la vita cenobitica
di Pietro Citati
Il
 monachesimo cristiano nacque in Egitto durante il terzo e quarto 
secolo, nelle sue due forme, anacoretica e cenobitica. Antonio, di cui 
Atanasio scrisse la mirabile Vita (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori), 
si inoltrò, solo, nel deserto, abbandonando le cose e le apparenze 
umane, e combattendo contro tutto ciò che era demoniaco. Pacomio nacque,
 nel 291, da genitori pagani della Tebaide. Venne battezzato: diventò 
cristiano: la stessa notte ebbe una visione: si vide irrorato di rugiada
 che scendeva dal cielo e si raccolse a terra alla sua destra, 
coagulandosi in miele; e udì una voce che gli diceva: «Comprendi ciò che
 avviene, perché è ciò che ti accadrà più tardi».
Pacomio cercò di
 diventare monaco; e gli fu indicato un anacoreta, di nome Palamone, il 
quale gli disse: «La mia ascesi è dura: d’estate digiuno ogni giorno, 
d’inverno mangio ogni due giorni, soltanto pane e sale. Veglio sempre 
per metà della notte, spesso per tutta la notte». Pacomio entrò nella 
caverna di Palamone, e insieme praticavano l’ascesi e si dedicavano alla
 preghiera. Così raccontano la Prima vita greca di Pacomio, i 
Paralipomeni e l’ Epistola di Ammone , che sono stati da poco pubblicati
 dalla comunità di Bose: Pacomio, servo di Dio e degli uomini : 
introduzione di William Harmless, a cura di Luigi d’Ayala Valva.
Chi
 scrisse la Prima vita greca , era un monaco pacomiano entrato in 
monastero dopo la morte di Pacomio: se non lo aveva conosciuto, aveva 
conosciuto alcuni «padri anziani», che erano stati suoi compagni fin 
dalla prima ora. Egli aveva l’acuta sensazione di vivere in un tempo di 
decadenza: fra poco — egli pensava — i monaci malvagi si sarebbero 
imposti ai confratelli buoni, i giusti sarebbero stati perseguitati. 
Pieno di angoscia e quasi di disperazione, comprese che, scrivendo, 
doveva raccontare ed esaltare Pacomio e il suo tempo, sperando di 
richiamare la luce sulla vita dell’Egitto e di tutto il mondo cristiano.
Pacomio
 inventò la vita cenobitica: se Antonio si era inoltrato, solo, nel 
deserto, egli non amava la religione solitaria, quelle caverne nelle 
quali ogni monaco inseguiva isolatamente la salvezza. Raccolse comunità 
di cristiani, anche non sacerdoti: fondò monasteri maschili e femminili;
 acquistò terreni e imbarcazioni, fino a quando i monasteri pacomiani 
raccolsero settemila monaci. Chi aveva scelto di vivere da solo, decise 
di vivere insieme a dei confratelli. «È meglio, disse Pacomio, vivere in
 mezzo a migliaia di uomini in tutta umiltà piuttosto che solo, nella 
tana di una iena, con orgoglio». Non rinnegò l’ascesi: ma doveva essere 
sottomessa ai valori della vita comune; obbedienza, rifiuto della 
propria volontà, senso della misura, soprattutto umiltà, la virtù 
suprema del monachesimo. Il monaco doveva essere «mite ed umile di 
cuore», come i Vangeli dicevano di Cristo: non si faceva servire ma 
serviva i fratelli, e dava la sua vita per loro.
Pacomio aveva un 
grande talento spirituale e organizzativo. Come i suoi successori, era 
l’occhio: aveva la funzione dell’occhio nel corpo. Guardava: contemplava
 tutti i monaci, uno per uno, nel profondo del cuore: aveva uno 
straordinario discernimento, che gli consentiva di entrare in tutti i 
cuori e di distinguere gli spiriti buoni e quelli malvagi, i santi e i 
demòni, portando alla luce ciò che stava nascosto. Sapeva benissimo che 
questo discernimento non era frutto della sua intelligenza, ma gli 
veniva da Dio. «Non è quando noi vogliamo conoscere qualcosa delle cose 
nascoste che le vediamo, ma quando lo vuole la provvidenza di Dio». Il 
suo potentissimo sguardo scendeva in ogni aspetto della realtà: 
cancellava i misteri; e dovunque portava ordine, poiché Dio voleva 
ordine. Leggendo le Regole , restiamo impressionati dalla cura per il 
buon ordine in ogni cosa, fino ai minimi particolari: le corde 
intrecciate dovevano essere contate, i frutti che cadevano dagli alberi 
del frutteto dovevano essere disposti in piccoli mucchi.
Come ogni
 spirito cristiano, Pacomio conosceva gli angeli. Mentre dormiva, un 
angelo lo risvegliò dicendo: «Seguimi!»: egli lo seguì: entrò nella 
chiesa del monastero, e vide che era tutta piena di luce, e che una 
moltitudine di angeli era raccolta nel luogo dove i sacerdoti 
officiavano il culto. Ciò era giusto, perché i monaci partecipavano a 
una condizione angelica superiore al livello umano. Pacomio aveva 
visioni. Mentre pregava, un giorno entrò in estasi, e vide l’intero 
mondo sotto il cielo diventare notte, mentre da diverse parti si udiva 
una voce: «Ecco qui la verità». Nella regione orientale del mondo 
scorse, in alto, una lampada che risplendeva come la stella del mattino.
 Un’altra voce diceva: «Non lasciatevi ingannare da coloro che vi 
attirano verso le tenebre, ma seguite questa luce, perché in essa è 
verità». Una terza voce aggiungeva: «La lampada che vedi risplendere 
come la stella del mattino, un giorno risplenderà per te più del sole. 
Essa è per te la predicazione del Vangelo di Cristo». Pacomio possedeva 
altri carismi: guarigioni, profezie, esorcismi, chiaroveggenza, che 
dipendevano dal possesso della sua vita da parte di Dio. La Prima vita 
greca è molto sobria nel parlare dei carismi di Pacomio: perché il 
diavolo era un terribile imitatore, che si nascondeva dietro i carismi e
 i miracoli.
I monaci sopportavano le tentazioni dei demòni, le 
quali avvenivano con il permesso di Dio, che voleva metterli alla prova.
 Essi chiedevano spesso a Dio di abolire il sonno, in modo che la loro 
mente restasse pronta e lucida, ogni minuto, per sconfiggere 
l’avversario mascherato. Qualche volta, mentre intrecciavano stuoie, 
appariva loro un demòne, sostenendo di essere il Cristo: ma il loro 
miracoloso discernimento faceva scoprire ogni traccia o ombra o eco 
demoniaca. Quando le tentazioni finivano, i fratelli rivelavano il loro 
cuore puro: tutti i pensieri impuri erano stati sopraffatti e 
cancellati, contemplando il timore di Dio, il Giudizio, i tormenti del 
fuoco eterno. La vigilanza era stata inflessibile. La potenza 
contemplativa dell’amore aveva reso la loro mente capace di vincere 
qualsiasi suggestione.
Pacomio sosteneva che egli non vedeva il 
Dio invisibile, ma lo scorgeva riflesso in un uomo visibile, suo tempio.
 Il vero tempio, il vero riflesso di Dio erano le Scritture, che 
dominavano la vita quotidiana dei monasteri. Quando mangiavano, i monaci
 si coprivano la testa con un cappuccio, affinché il fratello non 
vedesse il fratello masticare: non parlavano; ripetevano fra sé i 
versetti dei Vangeli, fissando lo sguardo sul piatto e sul tavolo. Tutte
 le sere si sedevano insieme, dopo il lavoro e il pasto, per scrutare 
insieme le Scritture. Prima di addormentarsi, ognuno nella sua cella 
recitava qualche versetto dell’Antico e del Nuovo Testamento, che 
portavano racchiusi nella memoria e nel corpo, come un tesoro presente e
 futuro.
Per decine d’anni, i monasteri sorsero, uno dopo l’altro,
 nella terra d’Egitto. La basilica di Pbow, completata nel 459, era 
grandissima: trenta metri di larghezza per settantadue di lunghezza. 
Dietro le alte mura, che limitavano l’accesso dei contadini e tenevano 
lontani i barbari, c’erano centinaia di celle, ognuna occupata da un 
monaco, e uno spazio comune, dove essi si raccoglievano per le 
preghiere, i pasti e l’istruzione cristiana. Un monaco faceva il 
contadino, un altro lavorava nella fucina, o al forno o nella 
falegnameria, o nel laboratorio di cardatura, o nella conceria, o nel 
laboratorio delle calzature, o nello scrittoio.
Tutti i monaci 
erano eguali: avevano un cuore solo e un’anima sola: nessuno considerava
 sua proprietà quello che gli serviva; ogni cosa era considerata comune.
 Quando si ammalavano, pensavano che ogni malattia era un dono del 
Signore. Con la preghiera vincevano l’ acoedia , la malattia dei 
monasteri. Come dicono i Salmi, non c’era traccia di tenebra, né in loro
 né attorno a loro. Emanavano luce: i comandamenti di Dio realizzati 
creavano soltanto luce; luce che illuminava il presente e si estendeva 
illimitatamente nel futuro, in tutti i monasteri della tarda antichità, 
del Medioevo e dei tempi moderni.