Corriere 15.3.16
Ergastolo e recupero il bisogno di attuare la finalità della pena
di Pietro Ichino
Caro
direttore, dopo il libro del magistrato Elvio Fassone, Fine pena: ora ,
recensito su queste pagine da Corrado Stajano a fine gennaio, sul tema
dell’ergastolo ostativo ne esce ora un altro, questa volta scritto da un
condannato a quella pena, Carmelo Musumeci, insieme al
costituzionalista Andrea Pugiotto ( Gli ergastolani senza scampo ,
Editoriale Scientifica, 2016, pp. 216, € 16.40).
La parte scritta
dall’ergastolano consiste nella descrizione esistenziale di un giorno di
pena, minuto per minuto, in cinque capitoli: alba, mattino, pomeriggio,
sera, notte. Di un solo giorno, perché ne basta uno per dar conto degli
altri diecimila precedenti o successivi. Con una avvertenza iniziale
che dice tutto: chi è all’ergastolo ostativo può pensare soltanto al
passato o al presente; non al futuro, perché per lui non c’è un futuro
che non sia identico al presente. Nella seconda parte, Andrea Pugiotto
spiega l’ergastolo ostativo dissezionandone con grande finezza la ratio e
spiegandone i profili di contrasto con l’articolo 27 della
Costituzione: la pena non può essere disumana e deve tendere alla
rieducazione del condannato. Si coniuga così per la prima volta, che io
sappia, e molto efficacemente, l’opera dello studioso che sta fuori del
sistema penitenziario con la testimonianza personale di chi è dentro,
l’«ergastolano senza scampo». Chi lo ha incontrato sa che, dopo un
quarto di secolo di carcere duro, Carmelo Musumeci è ora una persona
colta, pienamente recuperata alla convivenza civile, il cui destino di
non uscire mai più di prigione stride violentemente con quanto detta la
Costituzione.
Anche qui, come nel racconto di Fassone, siamo di
fronte al pieno raggiungimento dell’obiettivo posto dalla Costituzione:
il recupero del condannato. E anche qui, se la pena consegue questo
obiettivo, essa non può al tempo stesso recidere ferocemente ogni
speranza di ricucitura del rapporto tra il condannato stesso e i suoi
simili che hanno la ventura di essere rimasti «fuori». Tra i due
racconti c’è però una differenza: mentre nel libro di Fassone la
narrazione parte dall’inizio della vicenda, cioè dai crimini per i quali
il magistrato ha irrogato l’ergastolo, conducendo il lettore lungo il
percorso della conversione del condannato, il racconto di Musumeci sulla
prima parte della vicenda tace. E invece, almeno in un libro come
questo, darne conto è indispensabile.
Parlarne è indispensabile
perché significa andare al nocciolo della vicenda, a quella rinascita
della persona che segna il raggiungimento di entrambe le finalità della
pena previste dalla Costituzione: il recupero del reo ai valori della
convivenza civile e la protezione di altre persone contro il ripetersi
del suo comportamento criminale.
Certo, residua una terza finalità
della pena: la deterrenza, cioè il disincentivo efficace e
proporzionato contro i possibili comportamenti criminali di altri
individui. Ma è evidente l’impossibilità logica che l’esecuzione di una
pena resti immutabile nel suo contenuto e nel suo rigore quando ben due
delle sue tre funzioni siano state pienamente adempiute. Dunque, per
l’efficacia della giusta battaglia di Carmelo Musumeci e di Andrea
Pugiotto in difesa del «diritto a un futuro» dell’ergastolano redento, è
essenziale dar conto non soltanto del suo tempo presente, ma anche del
suo passato: precisamente dar conto di come nel corso dell’esecuzione
della pena si è prodotta la sua redenzione. Anche perché il darne conto
comporta il riconoscimento — necessario affinché la battaglia sia
vincente — di una funzione positiva che la pena ha svolto, almeno in
quella fase passata.
Parlarne è indispensabile anche perché non si
può dimenticare che una parte della durezza della pena — la parte
prevista dal tristemente famoso articolo 41-bis della legge
penitenziaria — non ha una funzione punitiva, ma costituisce una misura
di sicurezza: quando a essa ci si oppone occorre dunque sempre spiegare
quando e come sia venuta meno l’esigenza di sicurezza per la quale
quella misura è stata adottata. Quando il detenuto in regime di 41-bis
denuncia la lastra di vetro che impedisce a sua moglie e ai figli di
accarezzarlo, il pensiero non può non andare ad altri coniugi e altri
figli, ai quali accarezzare il proprio congiunto è impedito da una
lastra di marmo: il 41-bis è lì per evitare in modo efficace che altre
lastre di marmo si aggiungano, a separare altre persone dal mondo a cui
hanno appartenuto. Non si può dimenticare che alla durezza di queste
misure si è arrivati negli anni 80 per interrompere la serie tragica
degli assassini compiuti dalle Brigate Rosse e in un secondo tempo
quella degli assassini compiuti dalle organizzazioni mafiose.
Ma —
e su questo Musumeci e Pugiotto hanno pienamente ragione — non si può
dimenticare neppure che nella maggior parte dei 700 casi in cui il
41-bis oggi si applica, per il modo e il tempo in cui si applica, quel
regime è con tutta evidenza incongruo rispetto all’esigenza di sicurezza
che dovrebbe giustificarlo.