giovedì 10 marzo 2016

Corriere 10.3.16
Un pasticcio che rivela l’affanno dei democratici
di Massimo Franco

Si può dare la colpa a qualche dirigente maldestro o truffaldino, secondo lo schema delle «mele marce» in un albero sano. O magari additare l’insostenibilità del doppio incarico premier-segretario di Matteo Renzi. O ancora accusare il metodo delle primarie come inadeguato e tutto da rivedere, fino al «cupio dissolvi» di una minoranza incapace di essere alternativa. Sono tutte spiegazioni plausibili, di fronte alla figuraccia del Pd nella scelta dei candidati a sindaco. Si insinua un sospetto fastidioso, però, che va oltre i singoli episodi.
Li declassa a sintomi di una crisi di leadership e di modello di governo. Dopo due anni da capo del partito e premier, comincia a farsi strada l’idea che Renzi non sia riuscito a selezionare una classe dirigente diversa dal passato; non abbia unito il Pd; e abbia perso almeno in parte l’andatura che lo metteva in sintonia con l’opinione pubblica. Rimane il piglio, che si è perfino accentuato, provocando qualche ironia dei giornali tedeschi. Ma il flop di partecipazione, i presunti brogli, le schede bianche sospette non sono figlie solo di Mafia Capitale o della «napoletanità».
Nascono anche della sensazione diffusa che il Pd stia cambiando meno di quanto dichiara. Replicare il «soccorso» di Denis Verdini alle primarie, come in Senato, non cancella l’immagine di una forza intrappolata nelle contraddizioni e nella retorica. C’entrano poco gli avversari interni, che si sono confermati incapaci di andare oltre la fronda o la testimonianza. Quando l’ex segretario Pierluigi Bersani e altri criticano le «risposte burocratiche» e chiedono di non minimizzare le irregolarità a Napoli, dicono il minimo. Sanno di non avere la forza per imporre una linea diversa, né per decidere una scissione che li renderebbe ancora più residuali.
Ma questo non può consolare i vertici del Pd. I problemi non vengono dai conflitti nel suo ceto politico; e dunque non basterà risolvere quelli per trovare l’armonia. L’astensionismo dipende molto più dalla sproporzione tra la narrativa di Palazzo Chigi e la realtà: e dalle previsioni dell’Istat che con lo 0,4 per cento avvicinano la crescita dell’Italia allo zero anche per il 2016. Se il «renzismo» non vivesse una fase, forse temporanea, di crisi e di affanno, il dopo-primarie sarebbe diverso.
Le polemiche, anche strumentali, sulle persone pagate per votare in alcuni seggi di Napoli, o sulle schede bianche a Roma, non morderebbero, annegate in un mare di partecipazione. E invece molti sono rimasti a casa. «Il partito è sano», assicura il vicesegretario Lorenzo Guerini. E invita il Pd a non suicidarsi con candidati di sinistra contro quelli renziani. Ma in generale, tra i Dem si colgono imbarazzo e sottovalutazione. Eppure, leggere le cose con occhi freddi sarebbe l’antidoto al dubbio insidioso che appaia malato l’albero del Pd, non solo alcune «mele».