Corriere 10.2.16
Che cosa vuole davvero il Califfato? Conquistare il potere sulle anime
Maurizio Molinari analizza la minaccia del fondamentalismo islamico
di Aldo Cazzullo
«A
l-Baghdadi non si cura troppo di fedelissimi eliminati e di villaggi
perduti, ciò che conta per lui è restare protagonista di una guerra
permanente. Riuscire a portarla in Europa, in Russia o negli Stati Uniti
significa dimostrare ai propri seguaci di essere il vero Califfo:
inarrestabile e feroce».
Maurizio Molinari parte da queste
premesse per spiegare perché non solo non stiamo vincendo, ma non
riusciamo a combattere davvero e forse neppure a pensare la guerra
contro l’Isis. Il suo ultimo libro Jihad. Guerra all’Occidente (Rizzoli)
dà una visione d’insieme che parte dal Medio Oriente, cuore del
conflitto, e man mano si allarga al teatro complessivo dello scontro, le
potenze regionali del Golfo, l’Europa, l’Asia centrale, la mezzaluna
islamica da Timor Est al Marocco, e infine il grande nemico, incubo e
sogno di ogni estremista islamico: l’America, dove forse soltanto un
nuovo grande attentato potrebbe volgere la partita delle presidenziali
del novembre 2016 a favore di Donald Trump contro la vincitrice
annunciata — ma debole — Hillary Clinton.
Quella che stiamo
fronteggiando, e che Molinari racconta nel suo saggio, non è una guerra
tradizionale; è un’epoca. È anche l’epoca della proliferazione nucleare,
delle bombe «sporche». E gli integralisti islamici hanno già dimostrato
di essere disposti a sacrificare la vita, pur di spegnerne molte altre
insieme con la loro. Si aprono scenari di fronte a cui è inutile
tapparsi occhi e orecchie; bisogna invece studiare, prepararsi,
informarsi. Perché la storia ci riguarda. Come scrive Molinari, il primo
e più facile obiettivo dell’Isis è l’Europa: i Balcani «terre
musulmane» nel linguaggio del Califfo, l’Andalusia «da liberare» perché
apparteneva al Saladino, Roma «capitale della cristianità» e la Francia
«delle prostitute e delle oscenità», colpita non a caso il 13 novembre
2015.
La scena si apre sul territorio dello Stato Islamico, dalla
periferia di Aleppo, martellata per settimane dall’aviazione russa, a
quella di Ramadi. Si estende al Kurdistan, nella versione irachena con
capitale Erbil e in quella siriana nell’enclave del Rojava; alla
striscia di Gaza in mano ad Hamas, con Hezbollah padrone del Libano
meridionale e della valle della Bekaa, a chiudere Israele — l’unica
democrazia della regione — in una morsa estremista sciita; e poi la
mappa delle milizie e dei gruppi etnici quasi sconosciuti nell’Occidente
che minacciano, Fajr Libia in Tripolitania, la tribù degli houthi nel
Nord dello Yemen, mentre a Sud Mukallah è in mano ad al-Qaida, «senza
contare le aree di territorio controllate da Isis nel Sinai, dagli
al-Shabab in Somalia, da tuareg e tebu nel Fezzan e da Boko Haram in
Nigeria, sulle rive del lago Ciad».
È il nuovo «grande gioco»
della diplomazia e della politica contemporanee, che l’autore conosce
bene sia per gli anni trascorsi come corrispondente da Bruxelles e da
Washington, sia per l’esperienza sul campo in Medio Oriente. La
differenza rispetto all’Ottocento e al Novecento è che oggi non c’è un
impero anglosassone — prima quello inglese, poi quello americano —
capace di tenere sotto controllo il Great Game . E così le potenze
regionali — Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran —
perseguono ognuna il proprio obiettivo, incapaci di elaborare una
strategia comune per fermare la guerra civile islamica, in cui gli
estremisti tentano di trascinare l’Occidente, colpendolo per ragioni
insieme di strategia e di propaganda. Il Califfo e quelli che ragionano
come lui vogliono il potere sulle anime del loro campo; e per prenderlo
non esitano a spargere sangue innocente (ma non ai loro occhi) nelle
città europee.
Molinari traccia anche i ritratti dei protagonisti,
spesso poco conosciuti. Al-Baghdadi e la sua strategia dei bayat , il
giuramento di fedeltà tribale imposto a miriadi di fazioni in angoli
della terra che non abbiamo mai sentito nominare, Africa compresa. Il
generale iraniano Qassem Soleimani, braccio armato del leader supremo
Ali Khamenei, convinto assertore della necessità di «annichilire»,
«dissolvere» e «rimuovere» Israele. Salman, il re guerriero dell’Arabia
Saudita, e il suo uomo Bin Nayef, il «controrivoluzionario» sunnita, che
ha eradicato al-Qaida dalla sua terra d’origine. Ahmed El-Tayyeb, il
grande imam della moschea di al-Azhar. L’emiro del Qatar Tamim al-Thani,
«la sfinge del Golfo», che consente i finanziamenti privati per Isis e
invia gli aerei per combatterlo. L’emiro dell’Oman Qaboos bin Said
al-Said, il negoziatore segreto… Alla fine della lettura avvincente del
libro, se ne esce con una convinzione: di questa guerra forse non
vedremo la fine; l’Isis non si ferma soltanto con le bombe occidentali,
un intervento armato della comunità internazionale, meglio se con truppe
arabe, non è rinviabile; se anche si riuscirà a uccidere al-Baghdadi
come si è fatto con Bin Laden, non è affatto escluso che nasca un mostro
ancora peggiore, così come oggi lo Stato Islamico è più potente di
al-Qaida. Ci possono salvare solo la cultura, la democrazia, la
consapevolezza, la coesione: i valori di cui Molinari parlava nel suo
libro del 2013 L’aquila e la farfalla. Perché il XXI secolo sarà ancora
americano . Valori che non dobbiamo considerare acquisiti per sempre, e
vanno difesi a maggior ragione nella difficile epoca che abbiamo
davanti.