giovedì 10 marzo 2016

Corriere 10.2.16
Che cosa vuole davvero il Califfato? Conquistare il potere sulle anime
Maurizio Molinari analizza la minaccia del fondamentalismo islamico
di Aldo Cazzullo

«A l-Baghdadi non si cura troppo di fedelissimi eliminati e di villaggi perduti, ciò che conta per lui è restare protagonista di una guerra permanente. Riuscire a portarla in Europa, in Russia o negli Stati Uniti significa dimostrare ai propri seguaci di essere il vero Califfo: inarrestabile e feroce».
Maurizio Molinari parte da queste premesse per spiegare perché non solo non stiamo vincendo, ma non riusciamo a combattere davvero e forse neppure a pensare la guerra contro l’Isis. Il suo ultimo libro Jihad. Guerra all’Occidente (Rizzoli) dà una visione d’insieme che parte dal Medio Oriente, cuore del conflitto, e man mano si allarga al teatro complessivo dello scontro, le potenze regionali del Golfo, l’Europa, l’Asia centrale, la mezzaluna islamica da Timor Est al Marocco, e infine il grande nemico, incubo e sogno di ogni estremista islamico: l’America, dove forse soltanto un nuovo grande attentato potrebbe volgere la partita delle presidenziali del novembre 2016 a favore di Donald Trump contro la vincitrice annunciata — ma debole — Hillary Clinton.
Quella che stiamo fronteggiando, e che Molinari racconta nel suo saggio, non è una guerra tradizionale; è un’epoca. È anche l’epoca della proliferazione nucleare, delle bombe «sporche». E gli integralisti islamici hanno già dimostrato di essere disposti a sacrificare la vita, pur di spegnerne molte altre insieme con la loro. Si aprono scenari di fronte a cui è inutile tapparsi occhi e orecchie; bisogna invece studiare, prepararsi, informarsi. Perché la storia ci riguarda. Come scrive Molinari, il primo e più facile obiettivo dell’Isis è l’Europa: i Balcani «terre musulmane» nel linguaggio del Califfo, l’Andalusia «da liberare» perché apparteneva al Saladino, Roma «capitale della cristianità» e la Francia «delle prostitute e delle oscenità», colpita non a caso il 13 novembre 2015.
La scena si apre sul territorio dello Stato Islamico, dalla periferia di Aleppo, martellata per settimane dall’aviazione russa, a quella di Ramadi. Si estende al Kurdistan, nella versione irachena con capitale Erbil e in quella siriana nell’enclave del Rojava; alla striscia di Gaza in mano ad Hamas, con Hezbollah padrone del Libano meridionale e della valle della Bekaa, a chiudere Israele — l’unica democrazia della regione — in una morsa estremista sciita; e poi la mappa delle milizie e dei gruppi etnici quasi sconosciuti nell’Occidente che minacciano, Fajr Libia in Tripolitania, la tribù degli houthi nel Nord dello Yemen, mentre a Sud Mukallah è in mano ad al-Qaida, «senza contare le aree di territorio controllate da Isis nel Sinai, dagli al-Shabab in Somalia, da tuareg e tebu nel Fezzan e da Boko Haram in Nigeria, sulle rive del lago Ciad».
È il nuovo «grande gioco» della diplomazia e della politica contemporanee, che l’autore conosce bene sia per gli anni trascorsi come corrispondente da Bruxelles e da Washington, sia per l’esperienza sul campo in Medio Oriente. La differenza rispetto all’Ottocento e al Novecento è che oggi non c’è un impero anglosassone — prima quello inglese, poi quello americano — capace di tenere sotto controllo il Great Game . E così le potenze regionali — Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran — perseguono ognuna il proprio obiettivo, incapaci di elaborare una strategia comune per fermare la guerra civile islamica, in cui gli estremisti tentano di trascinare l’Occidente, colpendolo per ragioni insieme di strategia e di propaganda. Il Califfo e quelli che ragionano come lui vogliono il potere sulle anime del loro campo; e per prenderlo non esitano a spargere sangue innocente (ma non ai loro occhi) nelle città europee.
Molinari traccia anche i ritratti dei protagonisti, spesso poco conosciuti. Al-Baghdadi e la sua strategia dei bayat , il giuramento di fedeltà tribale imposto a miriadi di fazioni in angoli della terra che non abbiamo mai sentito nominare, Africa compresa. Il generale iraniano Qassem Soleimani, braccio armato del leader supremo Ali Khamenei, convinto assertore della necessità di «annichilire», «dissolvere» e «rimuovere» Israele. Salman, il re guerriero dell’Arabia Saudita, e il suo uomo Bin Nayef, il «controrivoluzionario» sunnita, che ha eradicato al-Qaida dalla sua terra d’origine. Ahmed El-Tayyeb, il grande imam della moschea di al-Azhar. L’emiro del Qatar Tamim al-Thani, «la sfinge del Golfo», che consente i finanziamenti privati per Isis e invia gli aerei per combatterlo. L’emiro dell’Oman Qaboos bin Said al-Said, il negoziatore segreto… Alla fine della lettura avvincente del libro, se ne esce con una convinzione: di questa guerra forse non vedremo la fine; l’Isis non si ferma soltanto con le bombe occidentali, un intervento armato della comunità internazionale, meglio se con truppe arabe, non è rinviabile; se anche si riuscirà a uccidere al-Baghdadi come si è fatto con Bin Laden, non è affatto escluso che nasca un mostro ancora peggiore, così come oggi lo Stato Islamico è più potente di al-Qaida. Ci possono salvare solo la cultura, la democrazia, la consapevolezza, la coesione: i valori di cui Molinari parlava nel suo libro del 2013 L’aquila e la farfalla. Perché il XXI secolo sarà ancora americano . Valori che non dobbiamo considerare acquisiti per sempre, e vanno difesi a maggior ragione nella difficile epoca che abbiamo davanti.