lunedì 14 marzo 2016

Affariyaliani.it 11.3.16
L’Unità all'asta, il Pd alla rottamazione: onesto scusarsi con Trentin
di Carlo Patrignani
qui
http://www.affaritaliani.it/politica/l-unita-asta-il-pd-alla-rottamazione-411810.html

La Stampa 14.3.16
Pillola del giorno dopo, in farmacia la ricetta non è più necessaria
di Noemi Penna

Per la pillola del giorno dopo non serve più la ricetta. Una battaglia che in Italia che va avanti da 16 anni, in pratica da quando è stata messa in commercio. Il via libera arriva da Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, che ha trasformato la contraccezione d’emergenza in un medicinale da banco: ogni maggiorenne potrà quindi acquistarlo volontariamente in qualsiasi farmacia. «Meglio tardi che mai», commenta Silvio Viale, ginecologo del Sant’Anna di Torino da cui è partita la sperimentazione della discussa pillola abortiva Ru486, da sempre in prima linea per l’abolizione della ricetta. Preoccupati i farmacisti: «Liberalizzando un farmaco del genere non se ne può controllare l’uso e non sono ancora chiari gli effetti a lungo termine».
Come in Europa
La prima a essere liberalizzata è stata quella dei cinque giorni. Ora è arrivata quella del giorno dopo: «Una contraddizione che finalmente è stata appianata», afferma il dottor Viale. Per aver prescritto questo farmaco in tutta Italia, per strada così come davanti alle scuole, è incappando anche in un provvedimento disciplinare dell’Ordine dei Medici. Ora però può dire di «aver vinto la battaglia. La pillola del giorno dopo non causa aborto ma blocca l’ovulazione, ed è quindi indispensabile assumerla il prima possibile. Ora questa decisione di Aifa permetterà a ogni donna di acquistare questo farmaco quando ne ha bisogno, senza l’imbarazzo del medico o dei tempi di prescrizione. Nel resto d’Europa è già così». Se a oggi in Italia ne vengono prescritte 500 mila l’anno, in Francia e in Inghilterra, dove la ricetta non serve, se ne vendono tre volte di più.
Reticenza
L’indagine nazionale condotta da Swg in collaborazione con Edizioni Health Communication rivela però che il 18% dei farmacisti non venderebbe mai una pillola per la contraccezione d’emergenza senza ricetta. Le motivazioni vanno dalla religione alla deontologia: il 53% degli obiettori, infatti, teme che la pillola del giorno dopo possa essere pericolosa, seppur utile ed efficace. A sottolinearlo è anche Mario Giaccone, presidente dell’Ordine dei farmacisti di Torino e consigliere nazionale: «Non ci saranno problemi di distribuzione sul territorio. I grossisti ne sono forniti e quindi tutte le farmacie possono averne accesso in tempi brevi. Ma al di là della scelta etica, condivisibile o meno, come farmacisti tuteliamo la salute delle persone. La nostra preoccupazione emerge dalla mancanza di dati sulle conseguenze di un uso disordinato di questo farmaco. Non essendoci ricetta, in linea teorica una donna potrebbe acquistare e assumere la pillola più volte la settimana, addirittura tenersela in borsetta. Ed essendo degli ormoni, come facciamo a sapere se un abuso può compromettere in qualche modo la fertilità? Bisognerebbe studiare un modo per cui le donne abbiano accesso velocemente a questo farmaco in caso di bisogno, controllandone la vendita come si fa ad esempio con le benzodiazepine».

La Stampa 14.3.16
“Siamo felici per Madre Teresa ma era già santa anche per noi indù”
Lo scrittore e filantropo Navin Chawla: ha creato un ponte tra me e la povertà
di Carlo Pizzati
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/14/esteri/siamo-felici-per-madre-teresa-ma-era-gi-santa-anche-per-noi-ind-Jikcn2wn6Mt4eXP874MHzO/pagina.html

La Stampa 14.3.16
Papa Francesco premia Hanan al-Hroub, la maestra che insegna la non violenza
Alla giovane docente palestinese il Global Teacher Prize 2016
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/13/esteri/papa-francesco-premia-hanan-alhroub-la-maestra-che-insegna-la-non-violenza-N6P6IpDzwcy4s1dN3X7LbM/pagina.html

La Stampa 14.3.16
“Dio non ci inchioda al peccato, non ci identifica con il male”
Papa Francesco all’Angelus nel 3° anniversario dell’elezione: tutti sono «adulteri davanti a Dio», ma Lui «ci vuole liberare» dalle colpe, desidera «che la nostra libertà si converta al bene». Il dono ai fedeli del Vangelo tascabile di San Luca
di Domenico Agasso jr
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/13/vaticaninsider/ita/vaticano/dio-non-ci-inchioda-al-peccato-non-ci-identifica-con-il-male-dc86uUrgdN1HD0vpQC0DgO/pagina.html

Videonola 13.3.16
Bertinotti commenta "Laudato Si"
qui
http://videonola.tv/nola-bertinotti-commenta-laudato-si/

Il Fatto 14.3.16
Salvatore Settis
“Riforme, Costituzione, acqua: i cittadini dicono una cosa, il governo la ribalta” “Ma a che serve votare?”
Lo storico dell’arte ed ex direttore della Normale di Pisa: “Il ddl Boschi è una copia della legge Berlusconi-Bossi ed è stato pilotato dal Quirinale”
intervista di Virginia Della Sala
qui
https://issuu.com/segnalazioni.box/docs/settis_94a59f3d081ac9

Corriere 14.3.16
La minoranza dem promette battaglia Botta e risposta al veleno con i vertici
Bersani: il premier governa con i miei voti. La replica: non ci faremo uccidere dalle polemiche
di Al. T.

PERUGIA L’accusa più grave è di Pier Luigi Bersani: «Sto cercando di tenere dentro gente che non ha tanto voglia di starci: ma si ha l’impressione che Renzi voglia cacciare un pezzo di partito. Ricordi che sta comodamente governando con i voti che ho preso io. Non io Bersani, io centrosinistra». È solo l’antipasto di una mattinata bollente, nella convention della minoranza del Pd, che si apre con un’assenza illustre: Lorenzo Guerini. Assenza che scatena le ire di Roberto Speranza, un «fuoriclasse» per Bersani: «È un errore gravissimo». Guerini risponde con Debora Serracchiani in una nota: «Non inseguiremo le polemiche di chi vorrebbe riportarci al tempo delle divisioni interne che hanno ucciso i governi del centrosinistra».
La minoranza promette «battaglia». E Speranza annuncia: «Parte l’alternativa dentro il Pd. Non è una rivincita: è una nuova partita». Le accuse a Renzi sono tante: la sua rottamazione, dice Speranza, «rappresenta una finzione gattopardesca. Ha mandato a casa Prodi, Bersani, D’Alema, per poi accogliere Verdini e gli amici di Cosentino. Non bisogna per forza ammazzare i padri per fare politica». Renzi «fa sgambetti», «ma è un messaggio cinico, per me la politica è altro». A chi gli chiede se uscirà dal Pd, Speranza risponde: «Noi siamo il Pd, senza di noi non esiste più». Ma bisogna combattere contro «una visione padronale del partito» e un rischio: «Che si finisca tutti a cantare “Meno male che Matteo c’è”». Le diverse anime di sinistra del Pd provano a unire le forze e allargare il campo. «Tenersi larghi», dice Bersani. «Campo aperto», dice Speranza. E a far capire la direzione, ecco i plausi al capogruppo di Sel Arturo Scotto. Ed ecco i richiami all’Ulivo: «Le parole scomposte di Renzi non aiutano — dice Speranza — un segretario deve unire, non dividere e insultare, è un comportamento da irresponsabili».
Alla convention arriva anche Gianni Cuperlo, con un intervento sarcastico e applaudito. Ricorda le segreterie convocate all’alba: «Non vi vedete da prima dell’estate, siamo oltre il tramonto. Matteo, va bene anche a mezzogiorno, ma vedetevi». Cuperlo respinge l’idea di scissione ma ironizza: «Il continuo richiamo allo “state uniti” ormai è diventato come “stai sereno”». Quanto a Sel, «l’intervento di Arturo è stato prezioso: possiamo essere corsi d’acqua diversi che riempiono lo stesso fiume». E poi ancora, la rottamazione, «parola orrenda», «il trasformismo che mi fa girare le palle» e l’avvertimento: «Rifletta bene, Renzi: se ha senso trasformare il referendum nello spartiacque di una maggioranza politica». Nell’ordalia, non è detto che la minoranza non decida di abbandonarlo: «È la salita che dice chi sei».

Corriere 14.3.16
La rabbia dell’ex segretario: disertano i nostri incontri, una roba mai vista nel partito
di Alessandro Trocino

PERUGIA Ha la febbre alta, Roberto Speranza. Come il suo partito, con il termometro delle eterne divisioni interne che improvvisamente schizza verso l’alto, allarmando chi tiene alla salute del paziente. Servirebbero anticorpi e nervi saldi, ma in questi giorni sembra difficile mantenersi calmi. Anche il «padre nobile» della minoranza, Pier Luigi Bersani, dà segni evidenti di nervosismo: «Sono arrabbiato», ripete mentre passeggia nel giardino dell’hotel che ospitò l’Ulivo prodiano. La rabbia diventa sbigottimento quando scopre che Lorenzo Guerini ha deciso di disertare: «É incredibile, è la prima volta che succede una roba del genere — mormora esterrefatto — non ricordo una riunione della minoranza a cui la maggioranza non abbia inviato qualcuno».
E in effetti, l’assenza si nota, eccome. «Errore blu, gravissimo», scandisce un solitamente più moderato Speranza. «Uno sgarbo, una provocazione», dicono in molti. Solo il rispetto per la figura di Guerini fa moderare i toni. Confida Cuperlo: «Io ho grande stima, umana e politica, di Lorenzo. Ma avrebbe fatto bene a venire. Pensate se fosse venuto e avesse detto: so bene che non la pensate come me, ma il fatto stesso che io sia qui e che voi mi abbiate invitato, dà la misura di cosa sia un grande partito. Sarebbe scattato un grande applauso». Non è detto che sarebbe andata così, ma la controprova non c’è. E comunque Cuperlo è sicuro che non si ripeterà lo sgarbo: «Il 6 e 7 maggio c’è un appuntamento importante a Milano: sono sicuro che non mancherà».
I toni nella minoranza son diversi. «Alcuni sono aspri, alcuni intervengono in punta di piedi, come D’Alema», scherza Cuperlo. Guglielmo Epifani: «É un periodo frizzante per il Pd, non ci si annoia». Miguel Gotor prova a dare una spiegazione della febbre che ha colpito il partito: «Subiamo continue provocazioni da Renzi, ma non abbocchiamo. Vorrebbe dire favorire il progetto renziano, che è quello di spostare il baricentro del Pd, trasformandolo nel perno di un assetto neo centrista». Tra le «provocazioni» di Renzi, c’è quella dell’Ulivo, che fa imbestialire Bersani. E che Gotor considera «una sgrammaticatura volontaria»: «Il primo Ulivo nasce nel ’95, in Emilia Romagna. Con un certo Bersani presidente».
Le «provocazioni», dice Gotor, non sono casuali: «Rientrano nella logica schmittiana di Renzi: quella del nemico interno. É convinto che creando un nemico a sinistra, otterrà più consensi al centro o a destra. Ma ha fatto male i conti». Eppure, dice D’Alema, il partito della nazione già c’è. Gotor conferma: «Chi lo nega, o fa lo struzzo o si sbaglia».
La tre-giorni di Perugia segna l’inizio della battaglia. La sinistra affila le armi: con la richiesta di cambiare l’Italicum e la minaccia di non votare il referendum. Eppure ha bisogno di un leader carismatico e non che è tra le sue file abbondino. C’è Gianni Cuperlo. E c’è Roberto Speranza, il delfino di Bersani, che anche Gotor vorrebbe alla guida dell’alternativa a Renzi: «Quando ci sarà il congresso, spero che possa candidarsi Speranza. É giovane, è preparato e ha dimostrato con i fatti di essere capace di rinunciare a un posto di prestigio e anche a offerte per entrare nel governo».
Ma bisognerà mettere d’accordo tutte le anime. Bersani, D’Alema, Cuperlo, Lo Giudice e molti altri. E capire cosa vorranno fare i «Giovani Turchi» e il ministro Maurizio Martina. Per ora sono filogovernativi e diversamente renziani. Ma in molti pensano che Renzi potrebbe scaricare Matteo Orfini e i suoi, attribuendogli un’eventuale sconfitta alle Amministrative. A quel punto la partita si riaprirebbe. Sempre che la febbre da cavallo non porti all’improvviso decesso del paziente. 

Corriere 14.3.16
Vassallo (Pd)
«I problemi delle primarie non si risolvono per legge»
intervista di Al. T.

ROMA «Le regole sono utili ma non risolveranno i guai delle primarie». Salvatore Vassallo, membro della commissione di garanzia del Pd, spiega che la soluzione non è quella. Con una premessa.
Quale?
«Che le primarie sono come la democrazia: un pessimo metodo, fatta eccezione per tutti gli altri. Non solo: non esiste un partito con una democrazia interna così sviluppata».
Ammetterà che c’è un problema con le primarie.
«Gli attacchi riflettono un’avversione sistematica e culturalmente radicata. Da parte di chi viene dalla tradizione della Dc dorotea, dove tutto si faceva e si disfaceva tra correnti. Dagli eredi del Pci togliattiano. E da chi è incline a criticare i partiti a prescindere».
I casi denunciati a Napoli le sembrano gravi?
«La prima cosa da dire è che non sembra ci siano state irregolarità nel procedimento. E sembra che le operazioni ai seggi si siano svolte correttamente».
Fuori, però, si diceva per chi votare e si regalavano euro agli elettori.
«Bisogna capire l’entità del fenomeno. Ma siamo nella dinamica, purtroppo nota, di un voto organizzato. Da un punto di vista tecnico e giuridico è lo stesso che capitava quando un iscritto del Pci emiliano chiedeva al segretario di sezione per chi votare. Sono cose diverse, dal punto di vista etico. Ma distinguerle per legge pare difficile».
Sta dicendo che è un fenomeno normale?
«Il fenomeno di elettori orientati da altri è sempre esistito. Fenomeno che non apprezzo e non condivido, ma difficile da trattare con la legge. A meno che non ci sia un documentato voto di scambio. D’altra parte le primarie aperte, in cui votano in molti, sono il modo migliore per diluire il peso del consenso organizzato».
Dunque una legge non servirebbe?
«Nel marzo 2011 Veltroni, Castagnetti e io firmammo un progetto che regolamentava le primarie. Una legge sarebbe utile ma non risolverebbe i problemi di cui si parla».
La minoranza Pd chiede gli albi degli elettori.
«Gli albi esistono dal 2007. Quello che si chiede è la preregistrazione. Ora per votare, si dichiara di essere un elettore Pd, e si vota. Preregistrandosi, si crea un albo che precede le primarie».
E non aiuterebbe?
«No, la logica del partito aperto è quella di coinvolgere il maggior numero di persone possibili. Più si mettono filtri, più si disincentiva la partecipazione delle persone libere, più aumenta il peso del voto organizzato».

Corriere 14.3.16
Il retroscena Il distacco di Renzi: loro sono in preda a demoni personali
Il piano per aprire il partito agli elettori-donatori
di Marco Galluzzo

ROMA Ci sono almeno due cose che Matteo Renzi non ha ancora detto apertamente alla minoranza Pd. La prima, veicolata in queste ore dai suoi, in fondo residuale ma significativa, è una risposta che non ha nulla a che fare con la politica, ma che spiega molto più di tante analisi: «Queste persone sono in preda a demoni personali». Insomma in molti, per il premier e il suo staff, avrebbero bisogno di una terapia di liberazione dalla rabbia, intesa come incapacità di «incassare le sconfitte».
La seconda accusa, che forse troverà spazio nella prossima direzione del Pd, prevista per le 18 del prossimo 21 marzo, riguarda un bilancio comparato delle rispettive carriere politiche: un concetto che ieri ha in qualche modo ventilato Matteo Orfini, ma che Renzi in privato affronta in modo aperto, «quando al governo c’erano altri non mi pare che abbiano avuto lo stesso nostro coraggio nei confronti dei diversi poteri del Paese, dal sindacati alle banche». Insomma quel concetto ripetuto come un mantra, «noi stiamo cambiando il Paese, siamo pancia a terra ogni giorno per governare», significa anche qualcosa che resta inespresso, almeno in pubblico.
L’impossibilità di un dialogo, sancita ieri con l’assenza di membri della segreteria alla riunione umbra, è anche una visione ormai completamente diversa del modello partito: Renzi sta riflettendo con la sua segreteria su come coinvolgere in modo strutturale i 550 mila italiani che hanno donato il 2 per mille del reddito, nella dichiarazione fiscale, al Pd. Una quota di elettori, ma non per forza di iscritti (sono 382 mila), lontana dai circoli e dalle vecchie dinamiche, che obbliga il segretario a ripensare la struttura del partito, con uno sforzo di fantasia ancora in gestazione, ma che ovviamente non prevede il canovaccio dell’eterna dialettica della scissione a sinistra. Dialettica che fra l’altro allontana e stanca sia gli iscritti che i donatori.
«Del resto a sinistra non c’è spazio, chi è uscito dal partito non mi pare che abbia fatto grande strada», è un’altra delle considerazioni di un Renzi che attende le Amministrative anche per verificare quella che a suo giudizio è l’inconsistenza elettorale dei diversi tentativi di aggiungere un’offerta politica a sinistra del partito democratico.
La scelta dei due vicesegretari, Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini, di non essere in Umbria e di non mandare sostituti, di fare un duro comunicato unitario con l’intenzione esplicita di non considerare utile la polemica a distanza, come se quelle di Perugia siano delle inutili provocazioni, la dice lunga della distanza fra il mondo renziano e la minoranza. Minoranza che ai piani alti del Nazareno viene ormai descritta in modo esplicito come vittima della «sindrome del Truman show»: li tengono in vita i media, le interviste, la polemica continua, «ma sono fuori asse con il Paese e alla fine conducono una battaglia solo per dimostrare una sorta di esistenza in vita». Parole dure, ufficiose, ma certamente condivise dal premier, come l’analisi contenuta nell’ incipit del comunicato di ieri, dove si accusa una classe di dirigenti rottamata da Renzi di avere «più volte ucciso i governi di centrosinistra», non solo dunque quel contenitore politico che fu l’Ulivo.
Due giorni fa Renzi ha detto in modo aperto, ai Bersani e ai D’Alema, di essere i responsabili della morte del modello dell’Ulivo, ieri veniva aggiunta una sfumatura in più: una certa classe dirigente è anche la stessa che per anni si è dilaniata con estremo masochismo politico per le poltrone di governo, consegnando per diversi lustri il Paese a Berlusconi. E oggi, continua Renzi, «alimentano una realtà parallela». 

Corriere 14.3.16
Governo e partito
I compiti di Renzi nel Pd lacerato
Il premier deve impedire che correnti e capibastone agiscano in suo nome
di Antonio Polito
qui
http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_14/i-compiti-renzi-pd-lacerato-d5af6a72-e963-11e5-af8a-2fda60e0b7ae.shtml

Corriere 14.3.16
Renzi pensa a come aprire il partito agli elettori-donatori del 2 per mille
Il premier e il suo staff ritengono che D’Alema e la minoranza Pd siano in preda
a demoni personali. E si riserva un bilancio comparato delle rispettive carriere politiche
qui
http://www.corriere.it/politica/16_marzo_14/renzi-pensa-come-aprire-partito-pd-elettori-donatori-3a60ae0e-e95a-11e5-af8a-2fda60e0b7ae.shtml

La Stampa 14.3.16
Hillary cita Renzi: “È con me”
un video qui
http://www.lastampa.it/2016/03/14/multimedia/esteri/hillary-clinton-trump-preoccupa-i-leader-del-mondo-renzi-con-me-GXpJtXgMXxohPAt49aoKbP/pagina.html

La Stampa 14.3.16
Le divisioni della sinistra e un Pd con meno segreti 
risponde Maurizio Molinari
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/13/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/le-divisioni-della-sinistra-e-un-pd-con-meno-segreti-YMnz6kkoyDYQc6O5ntbG9I/pagina.html

Corriere 14.3.16
Fassina: a Roma Marino in corsa? Serve trasparenza
di Maria Rosaria Spadaccino

ROMA Rimpianto per il diniego di Massimo Bray a partecipare alle primarie della sinistra per il candidato sindaco. Minor calore per Ignazio Marino. Con questo stato d’animo ieri Stefano Fassina, candidato sindaco per «Sinistra Italiana», accoglie la decisione (irrevocabile) dell’ex ministro del governo Letta di non scendere in campo. Non partecipando a quelle primarie della sinistra auspicate da Fassina, da esponenti romani di Sel come Gianluca Peciola e Massimiliano Smeriglio, a cui potrebbe correre ora l’ex sindaco Marino.
Ieri Fassina da una parte twitta: «Massimo Bray è una risorsa preziosa per Roma. Spero ci aiuti comunque nella sfida per il governo di ricostruzione morale ed economica della Capitale». Dall’altra dice: «La riflessione sul nostro progetto politico da parte di Bray e Marino nelle ultime settimane sottolinea la sua capacità attrattiva e la sua validità».
Non sembra però più facile ora la via delle primarie per individuare un candidato sindaco alternativo a Roberto Giachetti (Pd), che incarni le istanze politiche e culturali di una sinistra che sembra aver smarrito i punti di riferimento principali.
La chiave è tutta nel cuore della motivazione usata dallo stesso Bray nel declinare — con un post su Facebook — l’offerta: «Non voglio essere ulteriore elemento di divisione».
Bray la invoca come nobile motivazione di diniego. E in qualche modo evoca un fantasma che Fassina sta tentando di tenere lontano.
«Sono tante — spiega — le persone che dopo il brutto spettacolo offerto dalle primarie del centro sinistra stanno guardando a noi con interesse. C’è una rottura profonda che bisogna risanare, c’è gente di centrosinistra che ha rotto per sempre con il Pd e ci sta osservando con interesse».
Fassina vuole le primarie della Sinistra e porta, per ora, a casa il risultato di aver resistito a chi lo spingeva a partecipare a quelle realizzate dal Pd e che hanno visto la vittoria del vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti.
«Se avessi ascoltato quella parte di Sel che mi invitava a partecipare alle primarie del Pd — spiega Fassina — ora il nostro progetto sarebbe morto, cancellato. Invece in questo momento è più vitale di prima».
Lui stesso sarebbe «morto politicamente». Fassina glissa decisamente sulla condivisione delle primarie con Ignazio Marino.
«Bisogna mettere in campo una consultazione democratica e trasparente. Noi siamo una comunità in una fase costituente, ma siamo anche gli unici ad aver già offerto un programma completo sulla città. Tra i primi nostri obiettivi c’è la ristrutturazione del debito capitolino, ripartendo dall’addizionale Irpef».
Certo ora c’è anche la variabile tempo: «Bisogna trovare al più presto una condivisione sul programma» .

La Stampa 14.3.16
Rifugiati e sicurezza, i nodi principali di Bruxelles
di Marco Zatterin
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/14/esteri/rifugiati-e-sicurezza-i-nodi-principali-di-bruxelles-zfksMa3eJpMaoFaWv2Y7RI/pagina.html

La Stampa 14.3.16
Il mondo brucia
Ecco perché stiamo perdendo
di Stefano Stefanini

Una coincidenza è una spiegazione mancante. I due attentati di ieri, in Costa d’Avorio e in Turchia, sono quasi sicuramente opera di terroristi non in contatto fra loro e senza alcun coordinamento ideologico o operativo. Non sono tuttavia una coincidenza. La spiegazione, drammaticamente semplice, è che stiamo perdendo la guerra contro il terrorismo. I terroristi ne approfittano perché sanno che per continuare a vincere - a guadagnar terreno - basta esattamente quello che hanno fatto ieri. Colpire, fare vittime, seminare paura, in un angolo o l’altro del pianeta. Che noi vogliamo o meno chiamarla guerra importa poco. Chi la conduce, in particolare lo Stato Islamico, Al Qaeda, Boko Haram, Shabaab, taleban, ha pochi dubbi sul dichiararla e condurla spietatamente. Ammanta di religione la barbarie e approfitta di qualsiasi bersaglio o punto debole a disposizione. Ogni bersaglio è legittimo.
Più di un migliaio di chilometri separa Ankara da Grand-Bassam, un abisso psicologico le vittime di ieri nella capitale turca da quelle nel villaggio vacanze in Costa d’Avorio.
Il filo diretto è la stretta del terrorismo sulla scena internazionale. Per diversa che sia l’etichetta che ha armato i Kalashnikov e le bombe, i due attentati rispondono ad una logica unica.
Una logica che sta destabilizzando il mondo soprattutto intono a noi. Non facciamoci illusioni perché non ne siamo al riparo né in Italia né in Europa. Anche senza tirare in ballo le tragedie di Parigi dello scorso anno, e la caccia al terrorista nei quartieri di Bruxelles, siamo di fronte ad una minaccia crescente e continua alla nostra quotidianità dai viaggi agli affari, dalla cultura al turismo. Non siamo al riparo dalla guerra del terrorismo perché, come Europa ne siamo circondati. La stiamo perdendo perché, malgrado tutti i nostri sforzi, malgrado le forti dichiarazioni di solidarietà, 15 anni dopo l’11 settembre e le code di Londra e Madrid, lo scenario di sicurezza intorno a noi è peggiorato anziché migliorare. Siamo sulla difensiva mentre abbiamo permesso al nemico d’insediarsi in Siria, in Iraq, in Libia e nel Maghreb: intorno all’Europa.
Continuiamo a dire che la sfida dello Stato Islamico non ha soluzioni militari. Vero, ma intanto lo Stato Islamico ci aggredisce con le armi, per di più senza alcun scrupolo nell’usarle contro civili. Anzi, più civili colpisce, maggiore è il successo. Non verremo mai a capo di questa minaccia se non uniremo a un forte impegno diplomatico e politico anche lo strumento militare con più determinazione e coraggio di quanto abbiamo fatto finora. Sappiamo «dov’è» Isis. Conosciamo la sua capitale in Siria, le città dove esercita il suo barbaro potere con violazioni orrende dei diritti umani, conosciamo le basi sul litorale libico.
Sono vulnerabili ai mezzi di cui disponiamo, ma esitiamo ad usarli o li centelliniamo. I due attentati di ieri sono lontani dall’Italia e dall’Europa. Possiamo continuare ad illuderci che la distanza basti a darci una certa sicurezza. Rinunceremo a qualche viaggio e cancelleremo i villaggi turistici in località esotiche. Ma non illudiamoci: così facendo il terrorismo continuerà ad avanzare mentre noi, l’Europa, il mondo civile, battiamo in ritirata.

La Stampa 14.3.16
Bersani: “Renzi ricordi che sta governando con i voti del mio centrosinistra”
L’ex segretario: «Sono molto arrabbiato, il premier non può dire che la sinistra ha distrutto l’Ulivo»
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/13/italia/politica/bersani-renzi-ricordi-che-sta-governando-con-i-voti-del-mio-centrosinistra-fVGNyTsJLRkMTIiea4nw2I/pagina.html

La Stampa 14.3.16
Bersani accusa: Renzi vuole cacciarci
L’ex leader: “Io tengo nel Pd gente non più tanto convinta”. Orfini: dibattito lunare
di Alessandro Di Matteo

Il day-after in casa Pd è pesante, e stavolta persino il mediatore Lorenzo Guerini resta vittima del fuoco incrociato tra largo del Nazareno e Perugia, dove era riunita la minoranza. Il vice-segretario del partito è l’uomo che tiene ancora un filo di comunicazione tra Renzi e Bersani, ma ieri anche lui ha disertato la convention che ha lanciato la sfida di Roberto Speranza per il prossimo congresso. Una decisione «annunciata già mercoledì», puntualizza Guerini. Scelta «gravissima», secondo Speranza.
Aria da separati in casa, ognuno cerca di accollare all’altro la responsabilità della rottura. «Io - dice Bersani - cerco di tenere dentro il Pd gente che non è molto convinta di starci. Si ha l’impressione, invece, che il segretario voglia cacciarla fuori». La linea è chiara: altro che scissioni, devono cacciarci se vogliono. «Noi non restiamo nel Pd - dice Speranza - noi siamo il Pd. Senza di noi il Pd non esiste». Speranza paragona Renzi a Berlusconi: «Nel Pd non possono chiederci di cantare “meno male che Matteo c’è”, quello era il Pdl». Gianni Cuperlo restituisce al premier l’accusa di “portare via il pallone”: «Chi alza il dito è quello che ha vinto, si è tenuto il pallone per sé e ha espulso gli avversari». Toni difficili anche per uno che smussa gli angoli come Guerini.
I prossimi mesi saranno di battaglia. La minoranza è pronta ad attribuire allo “snaturamento del Pd” un eventuale insuccesso alle amministrative. Soprattutto, punta a neutralizzare il referendum sulla Costituzione, la grande scommessa di Renzi: «Come voteremo? Vediamo - avverte Speranza - dipende da come verrà scritta la nuova legge per il Senato. Devono scegliere i cittadini». Altrimenti, spiegano i bersaniani, avremo mani libere: escluso partecipare ai comitati del no, ma nessuno della minoranza farebbe campagna a favore.
Dal quartier generale Pd arriva una nota dura di Guerini e Serracchiani contro «chi vorrebbe riportarci al tempo delle divisioni interne che hanno ucciso i governi passati del centrosinistra». E Matteo Orfini aggiunge: «All’estero siamo considerati il partito più a sinistra d’Europa, in Italia si discute sul fatto che siamo diventati di destra».

La Stampa 14.3.16
Tra elezioni in vista e referendum adesso il premier si riscopre ulivista
Arturo Parisi: sa di non poter avere tutti contro, ecco perché lo fa
di Fabio Martini

è la madre (e la figlia) di tante battaglie politiche finora combattute da Matteo Renzi e infatti il referendum istituzionale che si svolgerà in autunno muove già energie, astuzie, stratagemmi. Renzi ha più volte detto che se lo perde, si dimette e proprio la prospettiva del referendum spiega mosse altrimenti inspiegabili: due giorni fa, per replicare all’attacco di Massimo D’Alema, il presidente del Consiglio si è improvvisamente scoperto «ulivista» e dunque, tra i tanti contro-argomenti polemici ne ha scelto uno nostalgico, così irrituale in lui. Lo ha fatto per non perdere contatto con tanti elettori un tempo «ulivisti» e ora critici verso le sue politiche e il suo stile decisionista?
Un’ipotesi che qualche renziano doc sottovoce sottoscrive, ma che finisce per essere avallata proprio da un potenziale «terminale» del messaggio come Arturo Parisi. Inventore della formula dell’Ulivo e delle Primarie «italiane», il professor Parisi dice a «La Stampa»: «In vista di un appuntamento impegnativo come il referendum istituzionale, Renzi sa di non poter avere quasi tutti contro e dunque, pur avendo spesso preso le distanze dalla stagione ulivista per dire che lui era il nuovo, stavolta si è messo almeno nel tono dalla parte dell’Ulivo e anche delle Primarie, in questo caso senza incertezze. Renzi sta prendendo le misure, sta mettendo ordine tra chi gli è più vicino, sta decidendo a chi richiamarsi in vista di una battaglia importante».
L’analisi e il messaggio del professor Parisi, amico e «ideologo» di Prodi, è chiaro: caro Matteo, se te la giochi da solo, rischi grosso. Quella di Renzi è una partita doppia: amministrative a giugno e referendum in autunno. Due partite nelle quali Renzi ha bisogno di tenere tutti gli elettori del Pd. Certo, per vincere il referendum istituzionale non serve il quorum dei votanti al 50 per cento, ma basta - si fa per dire - ottenere un voto più del fronte del No. Ma avendo già trasformato il referendum in un plebiscito su sé stesso, Renzi sa che deve anzitutto compattare gli elettori potenziali del Pd, dell’Ncd e dei centristi (il 34-38% secondo i più recenti sondaggi) e in più aggregarne in altri schieramenti.
E ovviamente Renzi sa che sarebbe complicato affrontare il referendum con una parte del Pd schierato su una posizione agnostica o addirittura contraria, come fanno balenare alcune dichiarazioni di questi giorni da parte di Roberto Speranza e di Gianni Cuperlo. Ecco perché il segretario-premier, a conclusione del «congressino» della opposizione interna, anziché rinfocolare l’attacco già sferrato contro D’Alema (risultato isolato dentro la sinistra Pd), ha fatto scrivere ai suoi vice-segretari, Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, una nota conciliante nella sostanza. Certo, si tiene il punto («Una nuova generazione sta provando a cambiare l’Italia e l’Europa»), ma contestualmente si lanciano messaggi non di guerra: «Quella parte della minoranza che polemizza sa dove trovarci, a lavorare in Parlamento, nelle città, in Europa, tra la gente per cambiare questo Paese, come stiamo facendo, insieme».
Certo. prima del referendum si svolgeranno elezioni amministrative mai così incerte nelle 4 città più importanti (Roma, Milano, Torino, Napoli) e proprio la prospettiva del doppio appuntamento, decisivo per Renzi, spiega un intervento particolarmente occhiuto pubblicato sul blog di Beppe Grillo: «Censurano il M5S e incensano il governo. La propaganda alla turca di Orfeo sempre più squallida e subdola». Grillo entra nel dettaglio, con notazioni da capo-redattore: «Il Tg1 diretto da Mario Orfeo che ha rifiutato di mandare in onda la dichiarazione di Luigi Di Maio. Stessa dichiarazione invece messa in onda dal Tg2», mentre si «decide di far parlare gli esponenti del Pd senza neanche far loro le domande...».

Repubblica 14.3.16
Se i democratici (e non solo) non sanno più che cosa vogliono
di Piero Ignazi

IN tutti i grandi partiti, e a volte anche nei piccoli, il conflitto tra le diverse componenti è la fisiologia della vita interna: l’unanimismo, invece, una pericolosa patologia. Il Pd deve molto a Matteo Renzi per aver creato una nuova corrente — chiamiamola la “leopoldina” — grazie alla quale l’antica conflittualità tra Veltroni e D’Alema è stata rottamata, e nuove idee e persone sono emerse. L’irruzione di un gruppo di outsider raccolti attorno alla magnetica personalità dell’ex sindaco di Firenze ha scompaginato dinamiche ossificate ed ha fatto entrare aria fresca. Non a caso, lo scontro tra Renzi e Bersani, con l’aggiunta di un ulteriore outsider come Civati, nel corso del 2012 aveva proiettato il Pd a percentuali mai viste prime. Questo a dimostrazione che una buona dose di conflittualità può essere salutare. A parte di non debordare in una rissa continua.
Uno dei primi problemi che la leadership laburista di Tony Blair affrontò fu proprio quello di gestire le tensioni interne con meccanismi inclusivi per evitare contraccolpi negativi sull’elettorato. I dissensi comunque rimasero, tant’è che un certo Jeremy Corbyn, dopo aver votato per 552 volte contro provvedimenti del proprio governo, senza che nessuno si fosse mai sognato di prendere provvedimenti contro di lui, alla fine è diventato il leader del Labour Party. I grandi partiti democratici sanno fare tesoro delle differenze interne.
Il Pd seguì questa strada quando Bersani, con un gesto di grande generosità, impose una modifica alla statuto per consentire a Renzi di sfidarlo alle primarie nel 2012. Ora, però, di quella generosità non c’è più traccia. Ogni critica alla segreteria è considerata un delitto di lesa maestà. Addirittura, nel corso delle votazioni per la riforma della costituzione si sono minacciate espulsioni a chi non votava la fiducia. La minoranza interna doveva essere “asfaltata”, secondo il gergo soft della attuale dirigenza democrat. Non stupisce che la segreteria, abituata alle critiche intrise di bonomia emiliana di Bersani, reagisca inviperita ad una intervista affilata e senza sconti come quella di Massimo D’Alema. Anzi, arrivi ad introdurre la categoria dell’”odio politico”, una categoria francamente infantile e dal sapore vagamente berlusconiano, se si pensa a quando il Cavaliere parlava del partito dell’amore e dei dispensatori di odio.
I partiti non sono prati di Heidi, sono campi di battaglia dove ci si scontra per la conquista o il mantenimento del potere. Ma una battaglia senza regole condivise diventa distruttiva. L’impasse del Partito democratico è quella di non avere ancora trovato un modus vivendi tra l’iper-personalizzazione della leadership e le dinamiche proprie della democrazia intra-partitica.
Nel Pd, così come in tutti gli altri partiti, gli organi collegiali sono diventati irrilevanti. Lì non si discute e non si progetta. Del resto, lo stesso Renzi non metteva quasi mai piede nelle direzioni del Pd quando era in minoranza. E non aveva tutti i torti. Però adesso non può pensare di risolvere tutto in una rapida mattinata con una direzione lampo.
Il Partito democratico per troppo tempo ha “esternalizzato” le proprie tensioni verso gli elettori utilizzando le primarie come una valvola di sfogo. E ora che la polemica sale di tono perché le opposizioni si stanno risvegliando da un lungo sonno, partono ostracismi e demonizzazioni. Così, il confronto sul profilo organizzativo e valoriale del Partito democratico non decolla. Tutto viene rimandato all’azione di governo.
Ma un governo non è per sempre, mentre i partiti hanno vita lunga, e vanno attrezzati sia per le fasi del potere che per quelle dell’opposizione. Solo che il Pd non sa ancora cosa vuole. A dire il vero tutti i partiti progressisti europei hanno difficoltà ad indicare prospettive convincenti. Certo non possono nascere dall’autoreferenzialità in cui è avvolta la dirigenza del Pd. Sorgono semmai da un confronto aperto, dialogico e inclusivo. Un compito che spetta a chi ha la guida del partito.
Forse anche l’opposizione ha qualche idea su come un partito di sinistra debba rispondere alle domande più pressanti dei cittadini quali la lotta alla corruzione e allo spreco delle risorse pubbliche, la riduzione delle diseguaglianze sociali, la protezione dei ceti più deboli anche in termini di sicurezza personale, e la creazione di futuro investendo nell’istruzione.

La Stampa 14.3.16
“Csm superbo, presenti i conti”, lo scontro finisce alla Consulta
Ultimatum della Corte dei conti. Le toghe: siamo un potere supremo
di Giuseppe Salvaggiulo
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/14/italia/cronache/csm-superbo-presenti-i-conti-lo-scontro-finisce-alla-consulta-HN4vbjzJXlVMTby4gOmh5M/pagina.html

Corriere 14.3.16
La lotteria dei prof nella Buona Scuola d’Italia
La riforma non ha fermato il ricorso ai supplenti. Sono scesi da 118 a 105 mila (dopo 86 mila assunzioni)
Ecco le storie di sei istituti in giro per la Penisola
di Federica Cavadini, Antonella De Gregorio, Orsola Riva, Claudia Voltattorni 
qui
http://www.corriere.it/scuola/secondaria/16_marzo_13/lotteria-prof-buona-scuola-d-italia-a3562d3a-e94b-11e5-af8a-2fda60e0b7ae.shtml

Il Sole 14.3.16
Scuola, la carica dei candidati in cerca di una cattedra
qui
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-03-13/scuola-carica-candidati-cerca-una-cattedra-204831.shtml?uuid=ACsvUUnC

Il Sole 14.3.16
Scuola, 4mila candidati al giorno per il concorso
Sono 44mila le istanze già inserite nel sistema del Miur - Bando aperto fino al 30 marzo
Oltre 40mila domande nei primi dodici giorni, l’equivalente di 3.700 al giorno o, per gli appassionati di calcoli, quasi tre al minuto
di Francesca Barbieri

È il bilancio provvisorio del maxi-concorso della scuola che mette in palio 63.712 posti per insegnanti dalla materna fino alle superiori nel triennio 2016-18, con un bando ad hoc per il sostegno. Il ministero dell’Istruzione attende almeno 200mila candidature inviate tramite il sistema Polis tra il 29 febbraio (data di apertura) e la deadline del 30 marzo (chiusura fissata alle ore 14). All’11 marzo risultavano inserite 44mila istanze, di cui 10mila già definitivamente inoltrate.
Dopo quattro anni di stop chi ha il titolo di abilitazione potrà quindi tornare a mettersi in gioco per “conquistare” una cattedra. Nel 2012 per 11.542 posti messi a concorso si presentarono oltre 300mila candidati. In prevalenza donne - 258mila rispetto a 63mila uomini - e con un’età compresa tra 36 e 45 anni.
Oggi i posti sono 7.237 per la scuola dell’infanzia; 21.098 per la primaria; 16.616 per le medie e 18.255 per le superiori. A questi si aggiungono 506 posti che sono banditi sulla nuova classe di concorso A023, l’italiano per studenti stranieri.
Restringendo l’obiettivo sul territorio, la regione con il maggior numero di new entry sarà la Lombardia, che calamita ben 11.176 cattedre, il 17,5%. E in generale l’intero Settentrione sarà destinazione, in linea con la tradizione passata, di circa la metà dei nuovi insegnanti, il 47%, pari a 29.773 cattedre. Al Sud, invece, andrà un terzo dei posti, con la Campania a farla da padrona (6.413).
Spostando, invece, il focus sulle classi di insegnamento, la materia al top sarà «Italiano, storia, geografia», con 9.368 cattedre per medie e superiori. A seguire i 5.541 posti di «matematica e scienze» e i 3.221 di «lingua straniera».
Potranno partecipare al “concorsone”, come detto, solo i docenti abilitati (entro il 30 marzo 2016) e sono esclusi i prof già assunti a tempo indeterminato nelle scuole statali. Nel bando per la scuola dell’infanzia e primaria si aprono i cordoni anche ai diplomati magistrali entro l’anno scolastico 2001/2002, mentre il bando sul sostegno, oltre all’abilitazione, richiede appositi titoli di specializzazione. Esclusi i diplomati magistrali a indirizzo linguistico, ritenuti invece dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato abilitati magistrali come gli altri, e anche i precari con 36 mesi di servizio che non hanno potuto usufruire di percorsi abilitanti specifici.
Una volta chiuso il bando, gli uffici scolastici regionali dovranno correre per organizzare le selezioni, il cui calendario verrà reso noto il 12 aprile. L’obiettivo dichiarato dal ministero dell’Istruzione è chiudere tutte le procedure del concorso entro agosto, con l’immissione in ruolo dei primi vincitori a settembre alla riapertura delle scuole.
Passando alle prove, in assenza di preselezione, scatteranno subito gli scritti (uno o più), che saranno interamente al computer. Previste 8 domande sulla materia di insegnamento di cui 2 in lingua straniera (inglese, francese, tedesco o spagnolo, obbligatoriamente l’inglese per la primaria). I quesiti saranno 6 a risposta aperta (di carattere metodologico e non nozionistico) e 2 (quelli in lingua) a risposta chiusa, con cinque sotto-quesiti. Sulle lingue il candidato dovrà dimostrare di avere un livello di competenza almeno «B2».
Lo scritto avrà una durata di 150 minuti, mentre sono previsti 45 minuti per l’orale: 35 per una lezione simulata e 10 di colloquio fra candidato e commissione. Per alcune classi di concorso sono previste anche delle prove pratiche. Nella valutazione del curriculum si valorizzeranno anche i titoli abilitanti, il servizio pregresso (sarà assegnato un punteggio di 0,7 per ogni anno di insegnamento), il dottorato di ricerca, le certificazioni linguistiche. Le commissioni avranno 100 punti a disposizione: 40 per lo scritto, 40 per l’orale e 20 per i titoli.

Il Sole 14.3.16
Poca selezione penalizza il merito e i più giovani
di Claudio Tucci

Se fosse un’anteprima a teatro assisteremmo a ingressi solo «a invito». Con una selezione limitata tra i 200mila aspiranti spettatori visto che entrerebbero più o meno uno su tre. Peccato che siamo di fronte a un concorso pubblico, a cui non potranno partecipare tutti i potenziali docenti della scuola italiana. Ma solo quelli «abilitati» e per di più con una procedura che rischia di favorire i precari di lungo corso, ancora inseriti nelle graduatorie a esaurimento (le «Gae») perchè non stabilizzati con il maxi-piano di immissioni in ruolo di oltre 93mila prof, completato a dicembre.
Certo, la decisione di Stefania Giannini di ritornare al concorso «come modalità normale» di reclutamento degli insegnanti è un cambio di passo significativo: dal 1999 (“concorsone” Berlinguer) al 2012 (selezione Profumo) l’accesso in ruolo a una cattedra è avvenuto solo scorrendo le Gae, con il silenzio-assenso del sindacato (non attivando selezioni il 50% da Gae e 50% da concorso per il reclutamento diventava di fatto 100% da Gae). Da apprezzare è anche il primo, ma parziale tentativo di fornire alle scuole gli insegnanti di cui hanno bisogno (soprattutto matematica); e di avere graduatorie di merito di durata non illimitata, ma triennale, e che potranno contenere uno stock di “idonei” non superiore al 10% dei posti banditi.
Questi accorgimenti non scongiurano però il rischio di penalizzare lo stesso il merito e i giovani talenti. Intanto perché sono stati ammessi a partecipare i diplomati magistrali ante 2001/2002: parliamo di persone che 15 anni fa potevano insegnare con appena 4 anni di studio, ma dopo la riforma Moratti non ne avevano più titolo. È stato poi dato più “peso” al «servizio prestato»: 0,7 punti ogni anno. Questo significa che un neo abilitato senza esperienza parte con 7 punti in meno sulla carta rispetto a un precario con 10 anni di supplenze alle spalle. E per finire le prove di lingua straniera, che rimangono due, ma saranno quiz a risposta chiusa. Un altro paradosso nell’era del «Clil» e dell’apertura al multilinguismo. Che il Miur pretende dagli studenti, ma si limita solo a “testare” (senza approfondirlo) tra i suoi aspiranti professori.

Corriere 14.3.16
Caso Regeni, i pm romani in missione al Cairo: «Basta depistaggi»
Il procuratore Pignatone oggi in Egitto. Anche la Germania contro le autorità del paese africano. Le provocazioni dei media locali. E un quotidiano scrive: un giovane egiziano sparito in Italia
di Fiorenza Sarzanini
qui
http://www.corriere.it/cronache/16_marzo_13/caso-regeni-pm-romani-missione-cairo-basta-depistaggi-ec507146-e95d-11e5-af8a-2fda60e0b7ae.shtml

Il Sole 14.3.16
I migranti nel mondo sono oltre 244 milioni
Dal Duemila a oggi incremento del 41%
Le persone nel mondo che vivono in un Paese diverso rispetto a quello di nascita sono stimabili - a fine 2015 - in 244 milioni. Una platea di “migranti” che si è ingrossata del 41% dall’inizio del secolo. A rivelarlo, alla vigilia del vertice tra Ue e Turchia di giovedì prossimo, è l’ultimo International Migration Report delle Nazioni Unite, che analizza destinazioni, provenienza, concentrazioni dei soggetti migrati all’estero.
di Rossella Cadeo

Questa settimana, il 17 marzo, Ue e Turchia si incontreranno di nuovo nel tentativo di trovare un’intesa sul nodo migranti. Un problema che sta minando le basi stesse dell’Unione, a partire dalla tenuta di Schengen, e la cui mancata soluzione ha, fra i suoi effetti, anche quello di distorcere la visione della complessità del fenomeno migrazioni nel mondo. Tanto che le ipotesi finora individuate (muri, chiusura delle frontiere, trasferimenti “incrociati” dei profughi) si sono dimostrate inefficienti o impraticabili, mentre cresce nell’opinione pubblica la percezione di insicurezza e minaccia. Ancora scarsa è invece la consapevolezza che i numeri che stanno investendo l’Europa - pur importanti - rappresentano solo una parte del movimento di persone in atto, da sempre, nel mondo. A fornirci i dati su questi spostamenti è l’ultimo International Migration Report delle Nazioni Unite, che analizza destinazioni, provenienza, concentrazioni dei soggetti migrati all’estero.
Trend, origine e mete
Le persone che vivono in un Paese diverso rispetto a quello di nascita sono stimabili - a fine 2015 - in 244 milioni. Una platea di “stranieri” che si è ingrossata del 41% dall’inizio del secolo.
Ad alimentare maggiormente le partenze è in primo luogo il continente asiatico, con uno “stock” di 104 milioni di soggetti residenti altrove nel 2015 (quasi la metà del totale mondiale): in particolare indiani (16 milioni), cinesi (10 milioni), originari del Bangladesh e del Pakistan. Anche l’Europa ha un ruolo da protagonista nella “diaspora”, con 62 milioni (il 25% del totale mondiale) tra i quali russi e ucraini in testa (11 e 6 milioni).
Mete
Come è logico immaginare, chi se ne va preferisce i Paesi più appealing sotto l’aspetto economico, pur tendendo a restare all’interno della macro-area originaria (salvo gli europei: solo uno su due si è fermato nel proprio continente a fronte dell’80-90% di chi proviene da Asia o Africa).
Così, grazie alle carte che può giocare a livello di ricchezza e welfare, il Vecchio continente è al primo posto tra le principali aree di installazione degli immigranti (ne ospita 76 milioni), seguito dall’Asia (75 milioni) e dall’America del Nord (54 milioni).
Scendendo nel dettaglio, si notano comunque scelte molto concentrate. Due terzi degli “stranieri nel mondo” abitano in appena 20 Paesi (si veda la grafica in alto).
In cima ai desideri di chi cerca orizzonti che possano consentire un futuro migliore ci sono gli Stati Uniti: con 47 milioni di “non autoctoni” assorbono quasi un quinto del movimento mondiale, un dato che presumibilmente è alimentato dalla forte presenza di cittadini provenienti dal Messico (subito dopo l’India nella classifica dei Paesi più “abbandonati”). Si torna però in Europa con il secondo e il terzo posto dei Paesi più ambiti: Germania e Russia ospitano 12 milioni di migranti ciascuna. Seguono Arabia Saudita, Regno Unito ed Emirati Arabi.
Profilo anagrafico
Il report delle Nazioni Unite analizza anche il profilo dei migranti internazionali: ebbene, per quanto riguarda il genere, la quota delle donne è scesa dal 2000 al 2015 (dal 49,1 al 48,2%), ma l’Europa così come il Nord America restano le aree con le percentuali femminili più alte (intorno al 52%), soprattutto a causa di una folta presenza di anziani e della maggiore speranza di vita delle donne.
Relativamente all’età mediana, il Report segnala un innalzamento da 38 a 39 anni, con gli africani che si confermano i più giovani (da 28 a 29 anni). Cresciuta nell’arco di tempo considerato anche la platea degli under 20: sono 37 milioni, il 15% del totale. E - poiché la maggior parte (il 72%, 177 milioni) degli stranieri è in età lavorativa - alto risulta il contributo che le collettività immigrate possono dare al bilancio economico e demografico del Paese ospite. Va anche evidenziato, tuttavia, che gli over 65 sono il 12% (30 milioni) dei residenti totali nel mondo. E in Europa, già alle prese con il rallentamento della natalità e il progressivo invecchiamento della popolazione, questo “carico” pesa più che altrove (18%).
In Europa
Resta il fatto che il numero degli stranieri - sottolinea il rapporto - è cresciuto più velocemente della popolazione mondiale, con il risultato che oggi tre abitanti su cento sono nati in un Paese diverso da quello di residenza (erano il 2,8% nel 2000).
Tale incidenza raggiunge percentuali a due cifre, oltre che in Nord America (15%) o in Oceania (21%), proprio in Europa (10%), oggi pressata dall’emergenza profughi: dal 2000 al 2015 gli immigrati sono infatti aumentati di circa 20 milioni rispetto all’inizio del secolo (+34%, variazione comunque al di sotto della media mondiale, +41%), con una distribuzione e incrementi che hanno maggiormente interessato i Paesi a più alto indice di benessere (si veda la cartina in alto). Nel Nord Europa si è infatti raggiunta la quota del 13% di stranieri residenti rispetto alla popolazione (con le punta del 17 e del 14% in Svezia e in Norvegia, dove comunque in totale non si arriva 2,5 milioni di presenze) e nell’Europa occidentale l’incidenza è pari al 14% (con l’Austria al 17% e la Germania al 15%, primo Paese ospite, con oltre 12 milioni di presenze). Quanto all’Italia gli stranieri sono più che raddoppiati (da 2,1 a 5,8 milioni) e in Spagna triplicati (da 1,3 a 5,9 milioni).

Il Sole 14.3.16
Le due facce dello sviluppo
di Gian Carlo Blangiardo

Sapere che per ogni mille abitanti della Terra “solo” 33 appartengono alla categoria dei migranti, intesi come coloro che, stando alla definizione (semplicistica ma necessaria) dettata dalle statistiche internazionali, vivono in un Paese diverso da quello in cui sono nati, può spingerci a riconsiderare l’immagine mediatica delle migrazioni e ci aiuta a ricondurre il fenomeno della mobilità internazionale alla sua reale consistenza: 244 milioni di persone su una popolazione di 7,4 miliardi.
Se dunque è vero che l’International Migration Report 2015, con cui le Nazioni Unite hanno recentemente aggiornano la fotografia dello stock dei migranti a livello planetario, può offrirci un dato relativamente rassicurante circa la reale dimensione di quella che tende sempre più a essere presentata come l’“emergenza demografica” del XXI secolo, è anche vero che basta un semplice confronto temporale per far riemergere qualche legittima preoccupazione. In effetti, osservando la dinamica degli ultimi quindici anni si nota come il popolo dei migranti si sia accresciuto di ben 71 milioni di unità. Si è sviluppato a un tasso medio annuo del 2,3%; un livello che equivale a dar vita a un raddoppio ogni trent’anni e significa muoversi a una velocità che è pari a due volte quella che ha contraddistinto, nello stesso arco temporale, l’aumento della popolazione mondiale. L’impressione di fondo è che dopo aver quasi del tutto neutralizzato la “bomba demografica” centrata sul crescente numero di abitanti prodotto da una fecondità largamente al di sopra del ricambio generazionale in gran parte del mondo in via di sviluppo, l’umanità debba ora disinnescare un nuovo ordigno. Una realtà incombente che è dovuta a processi di mobilità dettati non solo da eventi eccezionali – che tutti ci auguriamo transitori e superabili – ma anche (e soprattutto) dal persistere di profonde disuguaglianze di cui le stesse vittime sono sempre più consapevoli e sempre più propense a mettersi in gioco per tentare di uscirne.
Non a caso, la netta maggioranza dei migranti distribuiti nel mondo, circa due terzi, provengono dai così detti Paesi a “medio reddito” e, come osserva il Rapporto, è questa l’origine che negli ultimi quindici anni ha registrato la crescita più rapida. Il peso delle provenienze dalle aree tuttora in povertà estrema – i Paesi a “basso reddito” - resta ancora relativamente modesto nel panorama mondiale (nel complesso essi coprono il 10% dei migranti ), ma può già ritenersi significativo in termini di incidenza sulla popolazione di riferimento (39 migranti per ogni 1.000 abitanti) e sembra decisamente destinato ad accrescersi nel tempo. D’altra parte, è ben noto come sia proprio là dove le condizioni sono peggiori che mancano i requisiti minimi a supporto della scelta di emigrare. Ed è quindi facile immaginare che ogni passo in avanti nel cammino verso lo sviluppo finirà paradossalmente per incentivare un aumento dei flussi in uscita, stimolando la ricerca altrove di quanto manca nei luoghi di origine. In tal senso, i dati demografici lanciano un importante avvertimento: la popolazione che oggi vive in Paesi a basso reddito, per lo più localizzati nell’Africa sub-sahariana, è oggi stimata in 656 milioni, destinati a diventare 842 fra dieci anni e 1.055 milioni tra altri dieci. Se poi consideriamo, nella stessa area, la sola componente giovane in età lavorativa (convenzionalmente i 20-44enni) i corrispondenti contingenti salgono dagli attuali 215 milioni rispettivamente a 290 e a 385 milioni nel 2036. Detto in poche parole: nel prossimo ventennio in quello che è ritenuto il profondo Sud del Mondo sarà necessario disporre mediamente di almeno 8-9 milioni di posti di lavoro in più ogni anno unicamente per assorbire l’offerta aggiuntiva derivante dalla crescita demografica della popolazione più giovane in età attiva. E ogni insuccesso in tal senso non potrà che produrre nuovi candidati a un’emigrazione dettata dal bisogno di sopravvivere. Come si vede, il tema dei rifugiati, che pur resta importante e rispetto al quale il Rapporto delle Nazioni Unite segnala la drammatica crescita nel corso di questo avvio del nuovo secolo, non è che la parte emersa dell’iceberg. Si tratta di un mondo in movimento che fluttua pericolosamente e rispetto al quale si impongono azioni mirate e coordinate a livello internazionale per fare in modo che la consistenza numerica e la localizzazione territoriale del popolo dei migranti mantengano caratteristiche di sostenibilità, ma è bene che ciò avvenga su entrambi i versanti. Occorre infatti operare con lungimiranza non solo perché le migrazioni possano continuare a rappresentare un fondamentale contributo in termini di capitale umano per un nord del mondo sempre più impoverito dalle dinamiche demografiche in atto, ma anche (e soprattutto) per impedire che sia la valvola di sfogo dell’emigrazione e non, come sarebbe giusto e auspicabile, lo sviluppo, l’unica opportunità lasciata a centinaia di milioni di esseri umani che inseguono il legittimo sogno di una vita migliore.

La Stampa 14.3.16
Elezioni regionali in Germania: perde la Cdu di Merkel, vola la destra populista dell’AfD
Bocciata la politica pro-migranti della Cancelliera, criticata anche nel suo partito
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/13/esteri/elezioni-regionali-in-germania-perde-la-cdu-di-merkel-vola-la-destra-populista-di-afd-npabi9sUEhUk9JeaWxr36J/pagina.html

Corriere 14.3.16
La sconfitta di Merkel, il danno per tutta la Ue
Con l’affermazione storica della destra, la Germania perde il suo carisma morale
di Danilo Taino
qui
http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_14/sconfitta-merkel-9c73356c-e964-11e5-af8a-2fda60e0b7ae.shtml

La Stampa 14.3.16
Le forze anti-sistema che scuotono l’Europa
di Cesare Martinetti

Da ieri sera l’Europa è più piccola, Angela Merkel è più debole e, in attesa del referendum inglese sull’uscita di Londra dalla Ue (la cosiddetta Brexit), un nuovo vocabolo già si affaccia nel lessico politico: Frexit.
Se lo mettete su Google vi darà l’indirizzo di un hotel di Friburgo, in realtà è l’annuncio di un nuovo choc che potrebbe non tardare: anche i francesi vogliono uscire dalla Ue, secondo un sondaggio degli ultimi giorni addirittura al 60 per cento.
Per ora facciamo i conti con il voto tedesco, amarissimi per la Cancelliera. La sua leadership è apertamente in discussione ma il successo dell’Afd (come quello di Marine Le Pen in Francia) non è valutabile con le normali e antiche categorie della dialettica politica. Rappresenta invece qualcosa di più, è il cambio del paradigma politico novecentesco: la discriminante ora non è destra/sinistra, ma pro o contro l’Unione europea. È una rivolta per via elettorale e dunque democratica contro questo sistema Europa.
La crisi dei migranti è stata il detonatore che rischia di far saltare il sistema. La generosa ma avventurosa apertura della Cancelliera al flusso biblico di quest’estate aveva in pochi giorni messo in crisi anche la collaudata organizzazione teutonica e da allora Angela Merkel ha capito che la sua stagione poteva finire. Però il malessere dell’Europa viene da più lontano e si sarebbe manifestato anche senza la crisi dei migranti. È qualcosa di molto più complesso, è la fine di quella solidarietà che aveva accomunato le destre e le sinistre democratiche all’uscita della Seconda guerra mondiale e su cui era stato edificato il sogno dell’Unione europea. È il crollo di un’egemonia culturale che delegittimava qualunque pulsione nazionalista, era per l’appunto un’utopia che si sta schiantando contro il riemergere di sentimenti diffusi come la difesa delle proprie radici e l’esigenza di riconoscersi in un’identità anche economica di fronte al ciclone della globalizzazione. Ma è anche la rivolta contro un ceto politico che ha perso il senso di quell’utopia e ridotto l’Europa a un groviglio di regole inestricabili e - apparentemente - sempre penalizzanti. La lingua comune appresa dai ragazzi delle «generazione Erasmus» (questa sì un vero successo) si è mutata in un lessico tecnocratico irriconoscibile. E questa è una responsabilità vera dei politici che hanno governato a Bruxelles, di destra e di sinistra.
È per questa ragione che se il voto tedesco ha indubitabilmente un carattere «antisistema», se davvero vogliamo capire cosa succede, dobbiamo smettere di liquidare questi risultati elettorali con la vittoria dei «populisti», un termine che serve soltanto ai partiti al potere per autoassolversi dalle loro gravi responsabilità. Quella che esce dalle urne tedesche, come a dicembre da quelle francesi, è una domanda politica legittima e comprensibile. È una domanda di autodifesa di una società che si sente impoverita e minacciata. Frauke Petry, interrogata da un giornale francese, ha respinto qualunque somiglianza con Marine Le Pen: «Lei ha un programma economico socialista, noi siamo liberali...». Non è dunque un fronte compatto quello che emerge, ma che sa parlare alla gente, spesso al di fuori del galateo politico e non raramente al di là della grammatica democratica. Ma o la politica tradizionale saprà interpretare il sentimento popolare e condurlo dentro una nuova dialettica europea o per l’Europa può davvero essere la fine.

La Stampa 14.3.16
Populisti e blocco balcanico. Ecco chi sgretola l’Europa
Il composito fronte anti-sistema chiude i confini e guadagna consensi. Da Visegrad alla Danimarca, sinistra e xenofobi uniti contro Ue e Merkel
di Monica Perosino
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/14/esteri/populisti-e-blocco-balcanico-ecco-chi-sgretola-leuropa-Db4NigiZARtstQKOssFgfO/pagina.html

La Stampa 14.3.16
«I medici sapevano»
Il copilota della Germanwings doveva essere ricoverato in una clinica psichiatrica
Il rapporto degli investigatori francesi: «Si sapeva che stava male due settimane prima lo schianto ma nessuno segnalò i rischi per la salute di Lubitz». Morirono 150 persone
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/13/esteri/il-copilota-della-germanwings-doveva-essere-ricoverato-in-una-clinica-psichiatrica-7XIv3IXX46yXV7E7MCcYUJ/pagina.html

La Stampa 14.3.16
Il co-pilota della Germanwings aveva “una psicosi incombente”
L’inchiesta sul disastro dell’Airbus che è costato la vita a 149 persone Negli atti i rapporti dei medici che l’avevano in cura
qui
http://www.lastampa.it/2016/01/27/esteri/il-copilota-della-germanwings-aveva-una-psicosi-incombente-aleUbKlW3c3AHyd6zy8UyO/pagina.html

Repubblica 14.3.16
“Bisogna abolire il segreto medico sulla salute dei piloti”
I risultati dell’inchiesta francese sul volo Germanwings “A Lubitz fu prescritto il ricovero, ma nessuno sapeva”
di Andrea Tarquini

DUE SETTIMANE prima di togliersi la vita e uccidere con sé altre 149 persone schiantandosi sulle Alpi francesi ai comandi dell’Airbus di Germanwings, il copilota tedesco Andreas Lubitz aveva ricevuto dal suo medico la raccomandazione di farsi ricoverare con urgenza in un ospedale psichiatrico. Ma compagnia aerea e autorità aeronautiche tedesche non lo seppero mai. Lo afferma il rapporto finale del Bureau d’enquêtes et d’analyses (Bea) francese, consigliando di abolire il diritto dei piloti al segreto medico: meno privacy e più sicurezza.
Il rapporto, presentato dal direttore del Bea Rémy Jouty e dal responsabile dell’inchiesta Arnaud Desjardin (indagine ed esame delle scatole nere furono condotte in Francia, territorio della sciagura) offre conferme spaventose delle cause della tragedia di quasi un anno fa. Il 24 marzo 2015, Andreas Lubitz, copilota del volo Gwi18g della compagnia low cost di Lufthansa da Barcellona a Düsseldorf, approfittando dell’assenza del comandante assentatosi per andare alla toilette, chiuse con il blocco di sicurezza antiterrorismo la cabina di pilotaggio, prese i comandi e lanciò il bireattore contro le montagne.
«Lubitz era seriamente malato, e diversi medici privati che lo avevano in cura lo sapevano benissimo», dicono gli inquirenti francesi: il 27enne pilota assumeva regolarmente forti dosi di psicofarmaci come Mirtazapim, Citalopram e Zopiclon. Cioè medicine che, quando vengono prescritte, spingono i medici a sconsigliare al paziente anche la guida di un’automobile. Ma l’informazione «non arrivò mai a Germanwings, né alle autorità del traffico aereo».
Il Bea, considerato un’autorità internazionale in materia di sicurezza del volo visto anche il ruolo della Francia nella tecnologia aeronautica, raccomanda «regole che obblighino i medici a informare le autorità competenti ogni volta che lo stato di salute di un loro paziente comporta forti rischi per la sicurezza pubblica e la vita di altri ». E in particolare «occorre definire con precisione come lo stato di salute dei piloti viene sorvegliato, e se sono atti al volo nel caso abbiano precedenti di turbe psichiatriche».
In Germania, ma anche in altri paesi, fanno premio le regole di difesa della privacy. Di cui Lubitz aveva approfittato per nascondere la sua malattia e portare a termine il suo piano. «Servono norme più chiare per sapere quando è necessario violare il segreto medico», ammonisce il Bea. Cockpit, l’influente sindacato dei piloti di linea tedeschi, si è subito dichiarato d’accordo, ma le autorità federali dell’aviazione civile esprimono riserve. Ora cresce per Lufthansa il rischio che gli avvocati dei familiari delle vittime sporgano causa negli Usa (dove Lubitz aveva seguito corsi di volo poi sospesi per i suoi problemi): la giustizia americana potrebbe imporre a Lufthansa risarcimenti ben più alti dei 25mila euro a persona più premio di 50mila offerti finora.

Repubblica 14.3.16
La democrazia azzoppata nella Polonia che ha cancellato l'89
Reportage da Varsavia. Minacce anonime e accuse pubbliche di tradimento agli oppositori, la Corte Costituzionale si oppone ma viene esautorata, e la Corte di Venezia della Ue condanna. Ma il governo prosegue nella stretta malgrado la tenace resistenza di una parte della società civile
di Andrea Tarquini
qui
http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/13/news/polonia-135387129/?ref=HREC1-12

La Stampa 14.3.16
Dall’Isis al terrorismo curdo: la Turchia è al centro del mirino
Nonostante gli allarmi lanciati dagli Usa e dall’intelligence il Paese non riesce a contenere l’ondata di attentati
di Marta Ottaviani
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/14/esteri/dallisis-al-terrorismo-curdo-la-turchia-al-centro-del-mirino-ZCuzxZaA3vtvEO34gYze2H/pagina.html

La Stampa 14.3.16
Due attacchi a Hebron, tre palestinesi uccisi dall’esercito israeliano
Hanno cercato di investire alcuni giovani israeliani vicino all’insediamento di Kiryat Arba
qui
http://www.lastampa.it/2016/03/14/esteri/due-attacchi-a-hebron-tre-palestinesi-uccisi-dallesercito-israeliano-IGUzLmrCocujyAdDYLKjxO/pagina.html

Corriere 14.3.16
Stampa e potere
Pechino cerca di zittire Hu Shuli, la donna più pericolosa della Cina
La coraggiosa direttrice della rivista «Caixin» osa pubblicare analisi e commenti scomodi
Il governo la censura. Ma i casi di dissenso si stanno moltiplicando
di Guido Santevecchi 
qui
http://www.corriere.it/esteri/16_marzo_13/pechino-cerca-zittire-hu-shuli-donna-piu-pericolosa-cina-stampa-potere-15406e16-e900-11e5-af8a-2fda60e0b7ae.shtml

Repubblica 14.3.16
Le mani della Cina sugli alberghi di lusso degli Stati Uniti
qui
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/03/14/news/le_mani_della_cina_sugli_alberghi_di_lusso_degli_stati_uniti-135435820/?ref=HRLV-5

Repubblica 14.3.16
Scott Turow.
Lo scrittore parla alla vigilia del voto: “Scelgo Hillary per tutto quello che ha passato”
“La mia Chicago vota con il peccato originale delle tensioni razziali”
intervista di Anna Lombardi

CHICAGO. «Ho appena finito di leggere Elena Ferrante. E sa che le dico? Che tra Napoli e Chicago ho trovato molte similitudini». Bernie Sanders e Hillarry Clinton come Bassolino e la Valente? Non proprio. Ma Scott Turow, 66 anni, è l’uomo giusto per farsi spiegare cosa sta accadendo a Chicago, e negli Usa, alla vigilia delle primarie che martedì toccheranno la città e all’indomani del contestato rally di Trump cancellato per la contestazione degli studenti. L’autore di bestseller come “Presunto Innocente” e “Identici” (editi da Mondadori), 30 milioni di copie vendute, fu il braccio destro di quel procuratore Thomas Sullivan che negli anni ‘80 avviò la celebre Operazione Greylord contro i corrotti di Chicago. Esercita ancora il mestiere di avvocato. E nessuno conosce la macchina politica come lui. «Parliamoci chiaro: la macchina politica democratica è molto forte qui a Chicago. Il partito ha una storia radicata e controlla molte cose. Smuove valanghe di voti. Non come ai tempi di Kennedy e non più con quei metodi, ma ha ancora molto peso».
Nel 1960 l’allora sindaco di Chicago Daley procurò a Kennedy i voti che gli garantirono la vittoria con l’aiuto, si dice, della mafia. Ancora nel 2012 Romney accusò Obama di “Chicago politics”, voto di malaffare. Come funzionano davvero le cose?
«Il partito democratico ha qui una organizzazione reticolare e conta su un esercito di professionisti della politica pronti a mandare la gente a votare. L’intera macchina politica è sotto il controllo democratico: il partito decide chi viene eletto, chi diventa giudice, chi siede in panchina. Ma non è una fabbrica di voti disonesti ».
Chi è il favorito tra i democratici? I due candidati sono profondamente radicati in città. Sembra quasi di leggere un romanzo…
«Sì, Hillary è nata qui, ha ancora una fitta schiera di amici influenti e cosa non secondaria, è una fan dei Cubs, la squadra di baseball. Mentre pochi sanno che Sanders ha studiato a Chicago: la foto che ritrae il suo arresto durante una manifestazione per i diritti civili non se la ricordava nemmeno lui. Sta facendo una campagna intensa ma questo stato è democratico, sì, ma moderato. La sfida, anche per i repubblicani, sarà a chi è più centrista».
E fra i repubblicani cosa accadrà? Il contestato comizio di Trump peserà?
«Qui i repubblicani non sono organizzati come i democratici. Chi vincerà le primarie perderà le elezioni, quelle vere. Gli estremisti conservatori che dominano il partito a livello nazionale hanno abbandonato i repubblicani moderati dell’Illinois dove c’è una destra favorevole alla riforma sanitaria e interessata a questioni come il matrimonio gay e l’aborto. Magari sono cattolici e non lo praticano: ma pensano che non può essere il governo ad impedirlo».
Il sindaco Rahm Emanuel ha faticato a ottenere il secondo mandato, con l’elettorato diviso a sinistra. Proprio come accadde fra Obama e Hillary Clinton nel 2008. Questa volta che colpo di scena prevede?
«Nessuno. Obama è un uomo incredibilmente dotato, capace di sedurre l’America a farle ignorare il colore della pelle. Ma all’epoca pesò la posizione presa contro la guerra in Iraq: lo ricordo ancora quando guidava le manifestazioni pacifiste. Emanuel è un uomo gentile ma freddo. Siamo amici, è capace di parlare di spazzatura, scusarsi dicendo “ho il presidente al telefono” e poi tornare a parlare dell’immondizia. Ma, non ha affrontato bene la questione razziale. Al contrario di Hillary».
Sarà il voto delle minoranze a voltare pagina?
«L’America è una nazione fondata su un peccato originale: la schiavitù. Le relazioni razziali sono appese a un filo che può rompersi in qualsiasi momento. Quando ero ragazzo era peggio naturalmente: ma i progressi non sono universali. I problemi nei sobborghi neri sono immensi. La segregazione è reale. Nei quartieri gestiti dalle gang entrano poliziotti terrorizzati e troppo veloci a sparare. Come nel caso Laquan McDonald: gli hanno sparato 16 colpi in strada. Naturalmente oggi non trovi più gente che ti dice che quel ragazzo meritava di morire, ma non abbiamo un sistema per tirare la gente fuori dalla povertà. Come da voi in Italia: nel romanzo della Ferrante su Napoli ho trovato molte similitudini».
Lei chi voterà?
«Hillary ha le spalle più larghe di qualunque altro candidato dei due schieramenti. Non è senza peccato, ha fatto cose stupide e ha senz’altro un lato cinico, ma pensi a come si sono accaniti su di lei negli ultimi 25 anni, da quando suo marito è diventato presidente. È una donna incredibilmente forte».

Repubblica 14.3.16
Angela Davis: "Ho fatto un sogno, cambiare il mondo"Angela Davis: "Ho fatto un sogno, cambiare il mondo"
I pregiudizi, il carcere, la lotta per la difesa dei diritti civili dei neri e delle donne. Parla l’intellettuale americana, che arriva a Roma
intervista di Antonio Gnoli
qui
http://www.repubblica.it/cultura/2016/03/14/news/angela_davis-135421208/?ref=HREC1-10

Repubblica 14.3.16
Quei piccoli omicidi che svelano come siamo
di Melania Mazzucco

Alla periferia di Parigi un’operaia uccide il marito Ma poi scopriamo che lui si faceva passare per una “lei” Nel mito greco Tiresia fu maschio, femmina e di nuovo maschio: l’unico a conoscere le due forme dell’amore

“La garçonne e l’assassino” ricostruisce un delitto del 1928 Un episodio minore che però ci racconta il tema universale dell’ambiguità tra i sessi E ricorda “The Danish Girl”

Nella notte tra il 21 e il 22 luglio del 1928, in un modestissimo alloggio nella cintura di Parigi, un’operaia spara al marito ubriaco, lo uccide e si costituisce. Potrebbe essere un uxoricidio banale, avvenuto in un contesto di miseria e violenza domestica. Una minuscola storia di periferia con anonimi protagonisti destinati all’oblio. Nel gennaio del 1929, dopo un processo fulmineo, l’assassina viene assolta perché “non colpevole”. Ma un fatto di cronaca non è mai solamente un’infrazione della norma. Un crimine (come il processo che lo giudica) rivela
comportamenti, modelli e convinzioni — l’universo mentale degli uomini e delle donne che lo commisero o lo subirono. Un caso singolo illumina e spiega una società intera. E dai tempi del Pierre Rivière di Foucault e del Menocchio di Carlo Ginzburg, la microstoria (che non è storia minima ma storia analitica, indagata a distanza ravvicinata) è diventata uno dei settori più vitali della ricerca storica. Ultimo esempio La garçonne e l’assassino. Storia di Louise e di Paul, disertore travestito, nella Parigi degli anni folli, di Fabrice Virgili e Danièle Voldman, appena pubblicato da Viella.
Louise e Paul sono una coppia qualunque di proletari, cresciuti in famiglie sfasciate e senza figure paterne, destinati a peregrinare in brutte stanze d’affitto e affaticarsi in fabbriche e laboratori artigiani per guadagnarsi il pane. Ma allo scoppio della Prima guerra mondiale Paul è di leva, e nel 1914 finisce al fronte. Traumatizzato dai massacri, tenta di sottrarsi al dovere automutilandosi. Un gesto che potrebbe costargli la fucilazione. Invece se la cava. Tuttavia non intende più combattere. Diserta e si rifugia a casa della moglie, giovane, innamorata e disposta a tutto per averlo al suo fianco. Se fosse scoperto, finirebbe davanti al plotone d’esecuzione. Per nascondersi, escogita una soluzione semplice quanto geniale: si traveste da donna e assume un’identità femminile. Nel 1915, come molti europei, forse ancora si illude che la guerra durerà poco. Invece passano gli anni. E il travestimento da espediente diventa una seconda pelle e genera una nuova persona. Paul si trasforma veramente in Suzanne.
Qualcosa di simile accade nel commovente The Danish Girl di Tom Hooper, film nelle sale italiane in questi stessi giorni. Anch’esso è la storia di una coppia felice, nella quale la moglie innamorata spinge il marito a travestirsi da donna. Senza rendersi davvero conto che dal loro viaggio oltre i confini dei generi non vi sarà ritorno. Un vestito non è solo un vestito. Eliminare i peli con l’elettrolisi e tagliarsi i capelli alla maschietta non sono azioni neutrali. Paul ha disertato due volte: dal fronte e dal ruolo di uomo. Ha rinnegato il genere maschile e ciò che esso comporta. Ma esercita lo stesso rifiuto anche sul genere femminile che assume. Non diventa un angelo del focolare o l’amica asessuata di sua moglie, bensì la nuova donna che negli anni del conflitto timidamente occupa gli spazi liberati dai maschi, e che trionfa nella sovversione del dopoguerra — spregiudicata, sportiva, bisessuale seduttrice consapevole del proprio potere: libera. Insomma, quella perturbante “donna moderna” che dal 1922, dopo il successo dell’omonimo romanzo di Margueritte si chiamerà per sempre “garçonne”.
Per un breve periodo Suzanne è la garçonne più famosa di Parigi. Dopo l’amnistia del 1925, Paul può riprendere la sua identità originaria, tornare a essere uomo (e perfino padre). Si interessano di lui/lei giornalisti e scrittori. Ma dopo aver decostruito due generi, Paul non è più niente. Un molesto ubriacone, disoccupato, di cui la moglie può sbarazzarsi senza che la società la riprovi. L’assassina diventa la vittima, la vittima l’assassino (come afferma esplicitamente il sorprendente maschile del titolo).
Gli autori ricostruiscono personalità dei protagonisti e contesto con diligenza e minuzioso lavoro d’archivio. La scrittura fin troppo scarna è arricchita da una dovizia di immagini (cartoline, radiografie, ritagli di giornale, fotografie — tra cui le più curiose quelle di Paul en garçonne). Un indispensabile allargamento della prospettiva offre la post-fazione di Teresa Bertilotti, che esplora la ricezione del caso di Paul e Louise nell’Italia fascista — della censura giornalistica sulla “nera” e di Gadda che seguiva processi e delitti in cerca della storia giusta per diventare uno scrittore romanzesco da “grosso pubblico”. Lo confronta inoltre con altri celebri casi giudiziari degli anni Trenta, fornendo a quello di Paul e Louise ulteriori rifrazioni e chiavi di lettura.
Ma se questa storia irradia ancora un’attrazione magnetica non è solo per le ragioni sociali e culturali sviscerate dagli autori e dalla curatrice. È perché fa risuonare un’eco più profonda, riattivando una memoria quasi ancestrale. Paul, eterosessuale e inguaribilmente maschio, ha nostalgia dell’identità femminile perduta. Non può ammetterlo, ma lo rivela la violenza crescente che esercita contro gli altri e contro di sé (anche attraverso l’alcolismo). Più della psicanalisi e della storia, è la mitologia che ci aiuta a spiegare le ragioni che fanno di Paul/Suzy una vittima sacrificale, immolata sull’altare della repressione. Come l’ottico Paul, il veggente Tiresia visse tre volte. Nacque uomo, divenne donna per alcuni anni, poi riassunse la sua identità maschile. Era l’unico a conoscere le due forme dell’amore. Perciò quando Zeus ed Era disputarono su chi, tra il maschio e la femmina, godesse di più a letto, fu lui che consultarono. Tiresia non esitò un istante a rispondere. «Se dividiamo in dieci parti il piacere d’amore, tre volte tre vanno alla donna, e all’uomo una sola». Era questo il segreto di Paul, che tutti volevano fargli confessare. La ragione del fascino che esercitava sugli altri, anche dopo aver riassunto l’aspetto (invero non seducente, come svelano le fotografie) di uomo. Aveva violato tutti gli interdetti sociali (la legge, il sesso, il sangue). Ma questo sapere che sovvertiva la presunta gerarchia della natura era, davvero, imperdonabile.
IL LIBRO La garçonne e l’assassino di Fabrice Virgili e Danièle Voldman (Viella, trad. di T. Bertilotti e V. Lanciotti, pagg. 144, euro 19)

Repubblica 14.3.16
Shakespeare a Gerusalemme e il teatro diventa ponte tra i popoli
A Torino “Amleto” di Paolini e Vacis Dal 29 marzo con attori palestinesi
di Anna Bandettini

TORINO FRA LE case popolari di Moncalieri, nelle ex fonderie trasformate in teatro, da qualche giorno vivono e lavorano cinque ragazzi arrivati dalla Palestina. Artisti tra i 22 e i 28 anni stanno provando Amleto a Gerusalemme, in cui Shakespeare incrocia le loro storie “vere” dolorose, incredibili, echi di una realtà feroce, confusa, greve che i telegiornali e i giornali da laggiù raccontano a spicchi ogni giorno. Nidal Jouba rievoca il dolore della madre che nella Guerra dei sei giorni ha perso la propria casa ma ne conserva ancora le chiavi, Mohammad Basha Alaa il complesso, tortuoso viaggio quotidiano da Hebron a Gerusalemme, spesso sotto le fogne per evitare i ceck point. Un altro racconta la sua storia di disperazione e droga, qualcuno la difficoltà di amare una donna, tutti, Nidal, Mohammad, Ivan Azazian, Abu Gharbieh e Bahaa Sous hanno parenti e amici uccisi o scappati.
A guidare e “osare” una lavoro così sono Gabriele Vacis e Marco Paolini, tornati insieme dai tempi del celeberrimo Vajont del ’94 il capostipite di tanto teatro-narrazione. Regista uno, attore l’altro, non credevano nemmeno loro alle possibilità di riuscire a fare lo spettacolo: perché per far arrivare i cinque ragazzi dalla Palestina ci sono state difficoltà su difficoltà nonostante il sostegno del nostro ministro degli Esteri, perché sono arrivati due settimane dopo l’avvio stabilito delle prove, e perché adesso lo sforzo di tutti è di non trasformare la presenza dei ragazzi «in una bandierina pro-Palestina», come dice Paolini, «perché così li freghi. Loro sono qui con la stessa voglia che porta tanti calciatori del sud del mondo nell’olimpo del calcio. Sono qui a mostrare di essere bravi attori, non solo palestinesi sfigati».
Amleto a Gerusalemme debutterà il 29 marzo, alle Fonderie Limone, con il Teatro Stabile di Torino e a vederlo in prova l’impressione è forte. Si recita in arabo, inglese, italiano, nella bella scena di Roberto Tarasco, dove l’intero palcoscenico è occupato da 2500 bottiglie di plastica che formano la mappa di Gerusalemme, con Moschea, Santo Sepolcro, e Sinagoghe, distrutta e ricostruita molte volte nel corso dello spettacolo, su cui si profilano minacciosi suoni di aerei e esplosioni. Ivan che è musicista e cantante, intona una bellissima canzone, gli altri recitano pezzi di Amleto come una nenia, accanto a loro recitano Khaled Elsadat, egiziano, Anwar Odeh, una giovane palestinese di Torino, e poi Matteo Volpengo e Giuseppe Fabris attori italiani, e Paolini.
Non è casuale l’occasione di questo incontro a più voci. «Nel 2008 fu l’Eti a propormi di fondare una scuola di teatro finanziata dalla cooperazione italiana a Gerusalemme, al Palestinian National Theatre, che era l’unica sala pubblica della Palestina, 350 posti nel El-Hakawati Theatre a Gerusalemme Est», spiega Vacis. Il Palestinian Theatre, nato nell’84, oggi non c’è più: conflitti interni tra i giovani e i veterani, debiti... è finita che lo spazio è tornato all’autorità israeliana. Ma prima della chiusura la scuola era stata fatta: 36 allievi tra cui i cinque artisti oggi a Torino. «Era un patto d’onore verso di loro fare lo spettacolo», dice Paolini. E Vacis: «È bello lavorare con loro perché sono attori presenti a se stessi. Si vede che sono abituati a stare sempre all’erta, attenti a quello che succede intorno: hanno una presenza di vita rara nei nostri attori». Amleto l’hanno voluto loro perché, spiega, fa capire, dà speranza alla loro vita. «Ha tutte le sfaccettature delle vite complicate di chi sta in Palestina. Quei ragazzi sono tutti Amleto, anche loro devono decidere quotidianamente se agire o non agire. Agire contro qualcuno o per fare qualcosa? Questo è il problema. Sono sottoposti a un quotidiano impedimento, a partire dai check point e poi la situazione palestinese interna non aiuta. Come in Amleto: hai Fortebraccio alle porte che spinge, ma poi hai i tuoi problemi interni ».
A qualcuno ciò darà un senso di grande attualità (che non si può negare), molti lo leggeranno come un valore polemico nei confronti di Israele. «Se si ragiona così sono fregati in partenza - dice Paolini - Prendiamo in giro i ragazzi ogni volta che insistono sul loro essere palestinesi o quando raccontano troppe sfighe. Né è un progetto dello spettacolo essere contro Israele». «Non vogliamo nemmeno entrare nella questione israelo-palestinese, ma solo raccontare storie ancora non raccontate - spiega Vacis - Io stesso ho programmato produzioni importanti e prestigiose israeliane, dalla danza al teatro. La Palestina non ha narrazione, eppure vivere con loro fa capire quanto complessa sia la realtà mediorientale: per esempio c’è una differenza tra la gente di Israele e il governo Netanyahu. Ho visto con i miei occhi israeliani ai check point a controllare che non vengano fatte violenze sui palestinesi, così come giovani palestinesi considerare il vero nemico l’Isis. Credere di possedere la verità, in quella zona del mondo, produce solo dolore per tutti». E alla fine, dice Paolini: «Se per andare a vedere cinque attori palestinesi, mi devo poi leggere almeno un libro di Amos Oz per sentirmi la coscienza a posto, bene: hai fatto due cose buone invece di una».

Mangialibri.com s.d.
Nietzsche, la lotta col demone di Stefan Zweig
Traduzione di: Emilio Picco
di Francesco Clemente
qui
http://www.mangialibri.com/libri/nietzsche-la-lotta-col-demone

Corriere 14.3.16
Scomparso Hilary Putnam il filosofo americano sostenitore del realismo

Il percorso del filosofo americano Hilary Putnam, scomparso a 89 anni, era stato complesso e variegato, difficile da inquadrare, anche perché lui stesso aveva spesso preso le distanze dalle sue posizioni precedenti. Nato a Chicago il 31 luglio 1926, Putnam aveva esordito come studioso di matematica e di filosofia della scienza, per poi estendere i suoi interessi al linguaggio, alla filosofia della mente, all’estetica e all’etica, muovendosi tra le correnti analitiche neopositiviste e la tradizione del pragmatismo americano. Aveva insegnato alla Northwestern University, a Princeton, al Mit di Boston e ad Harvard, dove aveva concluso la carriera accademica nel 2001. Negli anni Sessanta si era schierato su posizioni politiche radicali, che poi aveva abbandonato. Considerato uno dei più importanti filosofi viventi, nel dibattito sul relativismo Putnam si era espresso a favore della razionalità scientifica e di un realismo «interno» di derivazione kantiana. Tra le sue opere tradotte in italiano: Mente, linguaggio e realtà (Adelphi, 1987), Ragione, verità e storia (Il saggiatore, 1985), Matematica, materia e metodo (Adelphi, 1993), Realismo dal volto umano (Il Mulino, 1995), Etica senza ontologia (Bruno Mondadori, 2005). 

«in una lettera del 1938 di Forzano, il fondatore degli studi di Tirrenia, amico di Mussolini si legge: “In Austria ci sono cristiani ed ebrei di grande valore. Raccomando a vostra eccellenza un vecchio glorioso di 82 anni che tanta ammirazione ha per l'eccellenza vostra: è Freud, ebreo”»
Repubblica 10-3.16
Trionfi e miserie della Cinecittà dimenticata
qui
http://spogli.blogspot.com/2016/03/in-una-lettera-del-1938-di-forzano-il.html
si ringrazia Roberto Giorgini

Tech Insider s.d.
Animated map shows how the world's first written languages spread
qui
si ringrazia Fabio Della Pergola
http://www.techinsider.io/map-worlds-first-major-written-languages-spread-2015-12